Che disgrazia, povero bambino. Si trova per la prima volta seduto al buio, davanti allo schermo immenso e danno Luci della ribalta. Una vita cinematograficamente segnata, povero bambino, dalla perenne illusione che ci siano solo capolavori.

Andrea Filippi, uomo permeato dai film che ha visto e amato tanto che chi lo guarda quasi li può vedere proiettati sul suo viso, sul suo corpo sottile e i suoi cappotti, ricorda: “Io sono del ’47 e nel ’52, o nel ’53, mio padre mi portò a vedere Luci della ribalta di Charlie Chaplin. Uscii scombussolato, avevo la febbre, stavo malissimo per l’emozione. Quel film mi ha viziato, condizionato perché mi aspettavo sempre una meraviglia simile”.

Di un’eleganza mirabile, diversa da tutte le altre, infatti è finito su tante pagine di Vogue, ed è stato ritratto anche da James White, fotografo dai cachet astronomici per il quale le dive di Hollywood si accapigliano, Filippi ha fatto tante cose, sempre con l’aria di apparire per caso ed essere pronto a scomparire. Etereo da sembrare distante, invece affettuoso, e spiritosissimo, ha collaborato per vent’anni con la Cineteca del Friuli per le giornate del cinema muto traducendo i testi, seguendo i restauri e le riscoperte. Cita, per esempio, il Griffith project che è andato avanti per cinque anni o sei anni: “Griffith era uno che faceva quindici, venti film l’anno non lungometraggi, ovviamente: mediometraggi, cortometraggi. Una produzione sterminata che è emersa via via, specie quando hanno aperto gli archivi dei Paesi dell’Est, dopo la caduta del muro di Berlino. Film che si pensavano perduti per sempre sono rispuntati. Credo che più del settanta per cento di quanto è stato girato è andato perduto. Però ogni tanto accadono miracoli”.

Filippi ha prestato la sua voce di poliglotta a France Cinema di Firenze dove faceva le traduzioni simultanee, ha tradotto il libro di Cameron Crowe su Billy Wilder e anche i memo di Selznick dove il regista parla di Via col vento. Ha gestito il cinema d’essai Spazio Uno di Firenze dal 1987 al ’92 con retrospettive di ogni genere, memorabile quella dedicata a Lubitsch, resa possibile dalla Cineteca del Lussemburgo. Aveva un rapporto molto stretto con il British Film Institut per i film inglesi. “Anche Bertolucci venne allo Spazio Uno. Avevamo fissato l’incontro prima degli Oscar all’Ultimo imperatore e pensammo: figurati se questo arriva e invece si presentò alla stazione con lo zainetto sulle spalle. La semplicità dei grandi. Che poi è una furbata se ci si pensa bene, però chapeau”.

Come è cominciata?

Il primo film che ho visto in vita mia me lo ricordo benissimo, Luci della ribalta, perché le mie sorelle maggiori erano già state al cinema e me ne parlavano e io non sapevo nemmeno cosa fosse, ma mi incuriosiva. Non c’era la televisione, conoscevo i radiodrammi e mi piacevano da morire. Il mio spirito critico non era evoluto, ma se un film ti prendeva o non ti prendeva te ne accorgevi anche a quell’età lì e capire quando non era Chaplin, ci voleva poco. Chaplin, il più grande di tutti i tempi. Ho cominciato bene, ma malissimo perché m’aspettavo sempre che il cinema fosse quella cosa lì. E quindi era deludente, tranne qualche cartone che mi era piaciuto pazzamente come Tom & Jerry. I lungometraggi di animazione li ho visti dopo, anche Pinocchio che è il capolavoro di Disney, l’ho visto poi. Ed io non ho un buon rapporto con Pinocchio: l’ho odiata quella fiaba, ma l’animazione Disney non ha mai più raggiunto quei risultati. Lo pensa la Disney stessa.

Dopo Chaplin ho ritrovato la magia del cinema quando la zia Beppina, una persona buona, dolce, con un mondo di valori, mi portò a una riedizione di Via col vento che è del 1939, ma periodicamente riusciva. Via col vento è bello ancora. Ho provato a rileggere pochi anni fa il romanzo, ma è lurido, terribile: è proprio l’esaltazione del Ku Klux Klan, del razzismo. Come fanno a ripubblicarlo impunemente? Però Fleming e il produttore furono illuminati nella trasposizione, non a caso Hattie McDaniel è stata la prima donna afroamericana a vincere l’Oscar. Quando vidi il film mi incantò, mi piacque da morire. Gli interpreti, il colore, Tara, il tramonto. Del doppiaggio, al tempo, non me ne fregava niente.

Nell’intervallo del film andavo a mangiare da Salza, una pasticceria di Viareggio che non c’è più. L’intervallo era lungo e si faceva in tempo a uscire e prendersi il marzapane. Per me cinema e marzapane erano strettamente connessi, non godevo l’uno se non c’era quell’altro. Quando i fruttini sono freschi e morbidi perché quando sono duri sembra di mangiare la cera. Ora me li godo meno, ho i sensi di colpa per lo zucchero. I sensi di colpa sono il veleno dell’esistenza.

Titoli imperdibili per uno spettatore debuttante?

Oh, mamma mia. Vabbè: A qualcuno piace caldo, Ninotchka, un von Sternberg a caso, forse Capriccio spagnolo. Un suo film mitico che non vedrò mai, che nessuno vedrà mai: A Woman on the Sea con Edna Purviance, prodotto da Chaplin. Von Sternberg ha distrutto l’unica copia. Anche Hi Claudius.

Attori da perdere la testa?

Subito subito mi viene in mente Delphine Seyrig, nella serie dei film molto intellettuali di Marguerite Duras. Per la voce, lo charme, l’eleganza, l’intelligenza, la bellezza. L’anno scorso a Marienbad è superficiale, il regista diceva che era un musical senza la musica, ma Seyrig in abiti Chanel era splendida. L’ho anche tradotto in simultanea, senza testo. Non essendo un interprete parlamentare non rischiavo catastrofi. Hedy Lamarr la più bella. Marilyn, che secondo Deneuve è stata la più grande di tutti i tempi, Gary Cooper. Ah, Edna Purviance, forse una delle mie preferite, era bellissima, brava, modesta, sempre nell’ombra, ma tutte le cose che ha fatto le ha fatte benissimo. In The woman of Paris è un incanto e a me piace anche il film, anche se non tanti lo amano. Un bel melò. Ah, il melò! Douglas Sirk Come le foglie. È stato un gigante.

Fra i recenti?

Pochi, pochi. Ho perso anche la fascinazione per Malick. Per le opere dopo La sottile linea rossa, uno dei grandissimi film della storia, gli vien lasciato solo il beneficio del dubbio: vabbè è lui…

Gli italiani?

Dico la verità: il coup de coeur purtroppo non è mai partito. Per qualche attrice, sì. Magnani è intoccabile, irraggiungibile, sublime. Anche nelle prove americane, a differenza delle altre perché in America ci cascava il ciuco. La Loren ha avuto successo, ma dimmi un film americano di Loren che puoi riguardare. Non ce n’è uno. Mentre La rosa tatuata e Pelle di Serpente di Magnani riesco a guardarli. Alida Valli è la mia favorita, accanto a Magnani. E Tina Pica.

Marlon Brando?

Brando a fasi alterne, però non l’ho mai apprezzato in modo particolare, troppo Metodo Stanislavskij. E rimasi deluso, confesso, quando sentii la sua vera voce.

Andrea Filippi regista?

La mia carriera di cineasta, che quasi non fu, comprende una dozzina di titoli tra corti, medio e lungometraggi in formati oggi obsoleti che han partecipato e vinto anche qualche patacca in varie rassegne e festival ormai scomparsi o quasi (Garda Film Festival, Fedic, Florence Film Festival, Torino Giovani). Qualche titolo: Eliogabal, Il gatto nero, Cleopatra, Girotondo, Trailer (1987), trailer di un film inesistente e prodotto da uno stilista allora emergente il corto fu presentato durante un Pitti Uomo e lì visto e riciclato, ne sono certo, da un famoso artista protegé di una milionaria pellettiera milanese. L'ultimo girato (1990) era la fedele messa in scena di una breve pièce teatrale di Garcia Lorca: El paseo de Buster Keaton.

Con un fantastico sosia del geniale Keaton…

C’era anche un bravo cameraman di Beaulieu, e con le ultime, ormai introvabili Ilford in bianco e nero, in tre settimane il film, già girato in sequenza e con pochi ritocchi di montaggio previsti in moviola, era praticamente finito. Neyrac, il laboratorio parigino, era l'unico a sviluppare ancora i super 8, e lì furono inviate le pellicole. Dopo una ventina di giorni arriva l'agognato pacchetto da Parigi. In una lettera allegata Neyrac si scusava, ma le pellicole erano malheuresement andate perdute e il danno veniva compensato con un pari numero di pellicole vergini. Peccato poi, bestemmia, che le pellicole fossero quelle in uso per le cineprese di sicurezza di banche e simili, uno schifo di grana e grigi polverosi, e non le splendide emulsioni Ilford del nostro Buster Keaton.

Che tristezza comunicarlo a tutti quelli che ci avevano creduto e lavorato con me, gratis non occorre dirlo. Fine di una promettente carriera, che sarebbe finita comunque perché il cinema non amatoriale prevede sveglie antelucane, e, pagato lo scotto della scuola dell'obbligo, non mi pareva proprio il caso.