Drammaturga e regista, dopo un'esperienza con il Maestro Jerzy Grotowsky e la collaborazione al Festival di Santarcangelo, trasferitasi a Milano, ha iniziato un'attività presso il carcere di San Vittore, fondando la compagnia CETEC, basata sull'Autodrammaturgia, con rappresentazioni nei teatri e nei luoghi significanti della città.

Direi che a caratterizzarmi sono sempre state delle qualità innate per la solarità e la forza di superare gli ostacoli, di qualsiasi natura. Certo intraprendere fin da giovanissima una strada come quella della ricerca teatrale, prima da attrice poi da drammaturga e regista corrisponde ad una scelta di “passione” in tutti i sensi. Anche nell’accezione del termine di via crucis. Lo dico ovviamente con una certa ironia ma anche consapevolezza. Se avessi scelto forse un altro Paese, la Francia o la Danimarca, ad esempio, avrei potuto contare su maggiore attenzione e sicurezza anche per quei periodi delicati di non lavoro, dove invece chi come me è artista indipendente - io lo sono per scelta - deve davvero essere molto forte per Re Esistere. La delusione è nel sistema “politico” che non accompagna la crescita culturale e umana della polis, negli ultimi anni sento sempre di più “decrescere” interesse nei confronti di chi ha fatto scelte difficili e andrebbe in qualche maniera stimolato a continuare e non a cercare quella via che da giovane si era rifiutata, la fuga verso l’estero...

Il Sogno principale è di realizzare un passaggio di testimone ai giovani artisti interessati del mio modo di lavorare nei luoghi del disagio, una particolare metodologia affinata nel corso di trent’anni di attività verso un Teatro d’Arte Sociale come amo io definirlo.

Progetti? Ne ho molti, per il mio trentennale di attività come regista torno al Piccolo Teatro di Milano il prossimo 10 e 11 novembre con il Decameron delle Donne, la mia prima drammaturgia e regia, riscritto proprio dopo trent’anni insieme alle attrici recluse del CETEC Dentro/Fuori San Vittore. Pronta poi la valigia per Città del Messico per la realizzazione del mio progetto artistico pluriennale Diarios de Frida in questi due paesi. Progetto che sta coinvolgendo personalità del mondo della cultura e dell’arte dei due Paesi e che prevede oltre agli spettacoli teatrali Dentro e Fuori le carceri, un docufilm Fride di Dentro. Fride di Fuori, una pubblicazione-diario di bordo a cura di Diego Sileo che raccoglierà fotografie inedite e molti scritti delle attrici detenute di San Vittore e delle allieve del carcere messicano dove sto andando a lavorare.

È direttrice del CETEC, Centro Europeo Teatro e Carcere, attivo da oltre 20 anni: ce ne può descrivere la nascita e le finalità?

Trent’anni fa ci eravamo chiamate Ticvin Società Teatro, era il nome di un villaggio russo dove si diceva vivessero molti scemi, questa storia piaceva a me e ad Olga Vinyals Martori con cui lavorai ai nostri primi spettacoli, Il Decameron delle Donne e Yo, Frida Kahlo, entrando poi anche insieme a fondare il teatro nel carcere di San Vittore. Dopo dieci anni lei ha scelto di tornare a vivere in Spagna, la sua nazione di origine e allora ho fondato il CETEC, Centro Europeo Teatro e Carcere, una cooperativa sociale che ha dato in questi ultimi vent’anni tante opportunità di lavoro ad attori ed attrici ex-detenute. Come? Prima con una sartoria teatrale, poi con mestieri tecnici del teatro e infine con una piccola Ape Car, ApeShakespeare To Bee or not To Bee che tanto street theatre e street food macina sulle strade periferiche di Milano e non solo, da EXPO 2015.

Che rapporto ha con la “Libera Università del Teatro” a San Vittore?

Ho avuto fra i miei Maestri, scelti sempre “liberamente”, prima Jerzy Grotowsky all’Università La Sapienza di Roma, frequentando il suo seminario di Antropologia teatrale trimestrale, per poi seguirlo a lavorare a Santarcangelo di Romagna. Quando si trasferì a Volterra lo lasciai sempre “liberamente” per rimanere a lavorare nella cittadella internazionale del teatro di strada per quasi sette anni, anni in cui mi trasferii a Bologna al DAMS Spettacolo incontrando docenti come Claudio Meldolesi che è poi diventato un grande amico oltre che mio docente di drammaturgia. Fu lui, dopo il mio trasferimento a Milano, a costringermi a laurearmi, mi mancava solo la tesi, e lo fece obbligandomi a scrivere un diario di bordo sui miei primi anni di lavoro a San Vittore. Carcere dove lui stesso era venuto insieme a tanti Maestri del Teatro, da Giorgio Strehler ad Eugenio Barba, da Dario Fo ad Ascanio Celestini, a testimoniare quanto il teatro, come diceva Bertold Brecht, sia “luogo di cambiamento”. Ho ideato così una Libera Università del Teatro a San Vittore dove docenti, artisti e studenti imparano reciprocamente gli uni dagli altri.

Il vissuto delle persone recluse, donato spontaneamente in azioni poetiche e teatrali, è un grande dono, il baratto teatrale e pedagogico fatto con dei Maestri è rispetto, un modo per restituire oltre che per prendere. Negli ultimi anni Margaret Rose, docente di Storia del Teatro Inglese all’Università Statale di Milano, viene con gruppi di giovani studenti che si confrontano con noi e le attrici recluse, in particolare su Shakespeare ma direi soprattutto sulla rispondenza dei versi del Bardo nelle nostre vite, recluse e non. A volte le sbarre sono più presenti fuori da un carcere che dentro.

Come si sono poste le istituzioni nei confronti dei suoi progetti?

Posso rispondere in modo sintetico? Bene e male.

Bene, perché fin dal primo direttore che ci ha aperto i cancelli di San Vittore, Luigi Pagano, ad oggi che ne sono cambiati tre, abbiamo sentito che pian piano capivano la nostra “missione” come artistica e necessaria, di sicuro non una mission economica o ambiziosa, ma piuttosto di ricerca pura, umana e artistica, almeno per quello che mi riguarda, molto “povera”, grotowskiana. Reinventare il teatro nell’unico carcere lombardo dove un edificio teatrale non c’è, per tanti anni adattando i nostri spettacoli ad una piccola aula auditorium all’ingresso del carcere dove Pagano ci consentiva anche di rappresentare gli spettacoli per i familiari degli attori detenuti, tradizione che purtroppo negli anni seguenti non si è potuta più replicare. Allora fare teatro a San Vittore nei corridoi, nei cortili all’aria, nei giardini, a volte nella Rotonda, è diventata una poetica, una nostra scelta artistica. Un’esperienza preziosa che ci ha portato a fare teatro nelle carceri, anche straniere, in qualsiasi luogo venisse messo a disposizione, dalla Bulgaria alla Grecia, dall’Irlanda del Nord alla Germania.

Male, perché con il cambio delle direzioni di solito dopo una decina di anni, comunque si ricomincia ogni volta di nuovo. San Vittore essendo una struttura antica, con tantissime problematiche, assorbe molto l’energia di chi ci lavora stabilmente ma anche di chi entra come “artista volontario”. Per noi è ed è sempre stato un lavoro. Importante. Molte persone si sono reinserite nella società grazie all’accompagnamento del teatro da dentro a fuori, sul piano anche solo affettivo, umano, sociale se non lavorativo. Le richieste fatte dal laboratorio teatrale però, soprattutto quelle volte a raccogliere la sfida di portare i lavori teatrali all’esterno del carcere, andrebbero curate davvero, ci vorrebbe una persona formata a seguire le attività culturali, dedicata; non si tratta di “passatempo” ma di attività di ricostruzione della persona. Il teatro se fatto bene è terapeutico di per sé.

Male, perché gli artisti fanno a volte degli sforzi immani, eroici, negli ultimi anni, senza nessun compenso economico, costretti a fundraising continui per le loro attività, mentre sarebbe stato giusto negli anni proteggerla e valorizzarla, fidelizzarla anche con l’aiuto di Fondazioni.

Che cosa ha in meno e che cosa in più un attore carcerato?

Non ha tecnica ma per me è un valore, l’attore e l’attrice reclusa è “un atleta del cuore”, ha vissuti e sofferenza, voglia di riscatto e forza interiore. Inoltre è diretto ed intuisce a pelle di chi può fidarsi e di chi è meglio non farlo. Nel nostro caso sono attori e attrici che si sono sempre “affidati”, con grandissimi risultati sul piano umano e artistico.

In quali personaggi e in quali autori si sono maggiormente identificati i suoi allievi?

Direi con i personaggi ispirati dall’opera di Shakespeare, ma anche a volte scrivendo loro stessi delle nuove storie ispirate a grandi trame. Un metodo che io chiamo “autodrammaturgia”, ripreso oggi da molte realtà. A volte in personaggi “fantastici” come Alice o Pinocchio.

Autori diversi, molti proposti da noi e poi amati da loro come Genet, Fo, Testori, Merini e Lorca, le nostre attrici recluse hanno interpretato nello loro prima “libera uscita” a Palazzo Isimbardi una straordinaria Casa di Bernarda Alba, poi con San Vittore Globe Theatre e Le Tempeste siamo stati ospiti per due stagioni al Piccolo Teatro Studio Melato, interpretando le attrici tutti ruoli maschili, al contrario dei tempi di Shakespeare, risultando intense e vere come Ariel, Prospera e Calibana.

In che modo alleviare la sofferenza di chi ha perso la libertà?

Non si tratta di alleviare, non siamo guaritori; fare teatro, rimettersi in gioco, fare un lavoro introspettivo, persona-personaggio, è un vero e proprio balsamo per l’anima. Anche però cercare di mantenere un rapporto con l’esterno, i propri affetti, per chi ha la fortuna di averli, è il principale antidoto e aiuto per il cambiamento, anelito di speranza.

Dirige da oltre dieci anni l’EDGE Festival, rassegna europea importata dall’Inghilterra, conduce laboratori, non solo all'interno delle carceri, ma anche in altre situazioni “edge”: che esperienza ne ha avuto?

Nel corso degli anni dirigendo un Edge Festival europeo dedicato completamente ai teatri delle diversità, vedendo molti spettacoli realizzati da attori audiolesi o danzatori disabili, alcuni con compagnie formate da persone con disagio psichiatrico, ho sentito di poter avvicinarmi a queste comunità con alcune proposte pedagogiche espressive molto semplici ma al tempo stesso poetiche. Sono stata anche a dirigere laboratori teatrali con pazienti di un ospedale psichiatrico giudiziario a Cambridge; una donna di mezza età, reclusa da molto tempo, assistette per giorni alle nostre sessioni di lavoro basate sul movimento e su alcune improvvisazioni a partire dalla storia di Scarpette Rosse. L’ultimo giorno di laboratorio, pesava oltre cento chili, si alzò improvvisamente, di slancio andò nel grande mucchio di scarpe stivali scelse un paio di scarpette, le infilò. Pochi passi fatti con una leggerezza incredibile, i suoi occhi lucidi, lo sguardo diretto mi attraversa ancora nel ricordo. Questa esperienza ed altre simili, le porto sempre con me.

Ha realizzato molti “spettacoli al femminile”…

Sì, per scelta di temi o di autori. Dal mio primo adattamento drammaturgico e regia trent’anni fa, Il Decameron delle Donne, dal romanzo della scrittrice russa Julia Voznesenskaja, che sto riscrivendo con le attrici detenute, ad Ofelia. Donna delle Erbe, scritto da Margaret Rose, docente di Storia del teatro inglese all’università di Milano, creato di recente e rappresentato alle Grotte di Catullo a Sirmione per le Giornate Europee del Patrimonio. La storia di un’erborista ante litteram che di giorno vende erbe ai mercati e alla sera si traveste da uomo per interpretare ruoli femminili come Ofelia nella compagnia del Bardo, i Kings Man. Poesia e Commedia dell’Arte per mettere alla prova l’attrice e cantante Gilberta Crispino, da oltre quindici anni nella nostra compagnia del CETEC. Il testo di Maggie Rose e la mia stessa regia è stata cucita su di lei, come facevano i capocomici della Commedia dell’Arte. Mi appassiona creare dei nuovi ruoli e dei personaggi femminili, lavorare con le donne in carcere aiuta, ispira scrivere per loro e con loro.

Non ne vorrei fare una sola questione di genere, ma come donna regista, in Italia siamo ancora poche, scelgo temi che in qualche modo riguardano sempre la comunità, in particolar modo quella femminile. In collaborazione alla Commissione delle Pari Opportunità del Comune di Milano, ho ideato il progetto Le Sedie, work in progress contro la violenza di genere. Si ispira alla sedia vuota che a Palazzo Marino ricorda le vittime di femminicidio, un fenomeno purtroppo in crescita, anche a Milano. Ogni anno a novembre diamo testimonianza a nuovi nomi e nuove storie, ma anche parliamo di donne che denunciando ce l’hanno fatta a riprendersi la loro vita proteggendo se stesse e a volte anche i propri figli.

Un suo giudizio sul sistema penitenziario italiano in generale e in particolare sulla situazione a Milano.

Siamo ancora indietro. Di recente sono andata in Svezia a visitare un carcere che è stato chiuso ed è diventato un albergo. Nell’Europa del Nord, adottando criteri diversi e puntando al reinserimento lavorativo e sociale e alle pene alternative, stanno così chiudendo molte carceri. C’è molto da fare in Italia sia per il “trattamento” che per il reinserimento, ma sono positiva, vedo delle nuove azioni e maggiore impegno negli ultimi anni.

Milano, rispetto al resto d’Italia, credo sia comunque avanti, come del resto succede in altri campi. Il Comune, le istituzioni, la cittadinanza è molto vicino alla vita del carcere. Credo bisogni solo migliorare l’abitabilità e le condizioni di un carcere come San Vittore. So che c’è un progetto di collaborazione di Stefano Boeri con la Direzione per migliorare e riprogettare il carcere dove lavoro da trent’anni con un percorso partecipato di architetti e detenuti insieme.

Un’altra utopia concreta potrebbe essere inventare uno spazio teatrale, magari costruendone uno circolare ed ecologico in legno in un cortile all’aperto, un edificio teatrale fatto da detenuti falegnami, per una “stagione primaverile ed estiva” aperta alla cittadinanza, una visione, un sogno. Un vero e proprio San Vittore Globe Theatre, sono sicura farebbe il tutto esaurito ad ogni replica.

Una romana a Milano …

Sì, prima per motivi di studio, poi di lavoro, poi di famiglia, tranne una breve pausa di alcuni anni a Roma, sono da trent’anni abbastanza fedele alla mia città d’adozione, adoro il quartiere dove vivo attualmente, Chinatown, vicino a Parco Sempione, un vero e proprio polmone verde per me e la mia beagle. Poi, nel 2018, inaspettato, ho avuto l’onore di essere anche “ambrogina” e di sentirmi ancora di più milanese nel cuore.

Cosa le manca di Roma e cosa apprezza di più di Milano?

La luce, le passeggiate in centro e sull’Appia Antica, il mare vicino di Ostia, i posti del cuore a Garbatella, gli amici del liceo, last but not least, la mamma. Sinceramente mi piace andare a Roma spesso, mi sento in vacanza.

Di Milano apprezzo vivibilità, sicurezza, ho appena venduto la mia macchina, vado in giro in bicicletta o con i mezzi. È una città assolutamente in ripresa, europea, che sta migliorando i servizi anche nelle periferie, investendo nella cultura e nei giovani, direi che non è poco, per me, ma anche da genitore, ne sono estremamente felice.