In un tempo, in cui il pianeta è investito da enormi problematiche di sopravvivenza, ricercare modalità di uscita dalle difficoltà e forme di sensibilizzazione da tali necessità, è cosa non solo utile e necessaria, ma anche pratica volta a superare sorti e vicende del presente per guardare a un futuro.

Antropocene è un termine coniato negli anni Ottanta dal biologo statunitense Eugene Filmore Stoermer (1934-2012) che nel 2000 fu adottato dal Premio Nobel per la chimica Paul Crutzen nel libro Benvenuti nell’Antropocene. Il termine indica l’epoca geologica attuale, nella quale all’essere umano e alla sua attività sono attribuite le cause principali delle modifiche territoriali, strutturali e climatiche. E Anthropocene è il titolo del progetto e della mostra a cura di Urs Stahel, Sophie Hackett e Andrea Kunard, in corso a Bologna alla Fondazione Mast (Manifattura di Arti, Sperimentazione e Tecnologia) fino al 22 settembre attraverso le suggestive immagini di Edward Burtynsky, e i filmati di Jennifer Baichwal e Nicholas de Pencier.

La rassegna è un’esplorazione multimediale che documenta l’indelebile impronta umana sulla terra: dalle barriere frangiflutti edificate al 60% sulle coste cinesi alle ciclopiche macchine costruite in Germania, fino alla devastazione della Grande barriera corallina australiana.

Il pianeta è sempre più sofferente e in difficoltà, con una natura violata, che resiste a fatica, e i cui segnali e condizioni esplosive sfociano di frequente in catastrofi planetarie. Ecco cos’è Anthropocene: un drammatico grido di aiuto per il nostro pianeta, o il segno di un destino verso il quale andiamo. E l’esposizione bolognese, coadiuvata dalla ricerca del centro internazionale di scienziati Anthropocene Working Group, cerca così di dimostrare come gli esseri umani sono diventati la singola forza più determinante sul pianeta.

Immagini forti e toccanti, che denotano le drammatiche e preoccupanti condizioni in cui si trova il pianeta, causate dall’urbanizzazione, la proliferazione di dighe (ben 58.500 ne sono state costruite sui maggiori fiumi del pianeta con una media di due al giorno) e la frequente deviazione dei corsi d’acqua; l’eccesso di anidride carbonica – le emissioni di CO2 nei prossimi anni, dovute alle infrastrutture energetiche esistenti e a quelle programmate, sono state stimate in 846 miliardi di tonnellate di anidride carbonica, cifre che non permettono di rispettare l’obiettivo di contenere il riscaldamento del pianeta a 1,5 gradi sopra i livelli preindustriali, prospettato con l’accordo di Parigi. E causa di inquinamenti sono da considerare anche l’acidificazione degli oceani dovuta al cambiamento climatico, e la presenza pervasiva della plastica, del cemento e di altri tecno-fossili; l’impennata senza precedenti nei tassi di deforestazione ed estinzione: questi drammatici dati che su scala planetaria – argomentano gli scienziati – sono così pesanti che i loro effetti sono destinati a perdurare e a influenzare il corso delle ere geologiche.

E che la preoccupazione sia seria e reale è un fatto concreto, a cui la fotografia può però portare un forte contributo per una maggiore sensibilizzazione per la salvaguardia del pianeta. Ad esempio, raccontando visivamente come ha fatto Edward Burtynsky (Ontario, 1955), situazioni e realtà particolarmente a rischio per le quali urgono concreti provvedimenti. Le 35 immagini del fotografo canadese si focalizzano sulle barriere frangiflutti, sui processi di estrazione delle risorse naturali e bunkeraggio di petrolio nel delta del Niger, sulle miniere di litio, rame e carbone – dalle surreali vasche di evaporazione del litio nel Deserto di Atacama alle cave di marmo di Carrara, e a una delle più grandi discariche del mondo, quella di Dandora, a Nairobi in Kenya: una foto impressionante del 2016 con una montagna di rifiuti in cui figurano ritratti alcuni uomini e un cane. Ma vi sono anche i bacini di decantazione di fosforo, le segherie di Lagos in Nigeria - altra immagine sconcertante, che riporta la nostra memoria alle tristissimi immagini dello scorso anno con i 16 milioni di alberi flagellati e distrutti dalla Tempesta Vaia che colpì il Veneto e il Trentino Alto Adige – o le miniere di potassio di Uralkali in Russia, i pozzi di acqua salmastra e le raffinerie di petrolio, gli impianti petrolchimici e le grandi serre con gli scenari della desertificazione, per un quadro globale dai risvolti sconvolgenti, che la potenza delle immagini del fotografo canadese rende ancor più fortemente reali e coinvolgenti, e motivo di serie preoccupazioni.

Burtynsky opera su sistemi di sensibilizzazione pubblica, con uno sguardo intenso e diretto, per lanciare un forte grido di aiuto. E sulla stessa linea sono anche le videoinstallazioni di Jennifer Baichwal e Nicolas De Pencier che mostrano con dovizia di particolari una miniera di fosforo in Florida, una raffineria di petrolio texana, la Grande Barriera in Australia soggetto a un progressivo e consistente sbiancamento, e due murales che illustrano il muro di corallo di Pengan in Indonesia, esempio sempre più raro di barriera corallina incontaminata.

Purtroppo, queste bellissime immagini non basteranno a salvare il nostro pianeta, per il quale occorre trovare soluzioni quanto prima necessarie che ne rispettino l’habitat e il cuore, l’anima e l’ossigeno, con cui ci fa vivere e grazie ai quali ha creato mondi fantastici, o i nostri mondi.