Anima mea liquefacta est
Cantico dei cantici di Salomone

(Vulgata Clementina)

Se la Croce è la soluzione, in quanto costringe alla trasformazione tutti gli elementi estraendone lo spirito e assorbendolo in un unico Spirito, allora Cristo staccato dalla croce è la soluzione della soluzione, in quanto ha sciolto ogni resistenza metallica e umorale, ha liberato la materia, e non solo le anime e gli spiriti, dalla corruzione e dall’incapacità di perfezionarsi, riconducendola all’armonia originaria della materia edenica che è il corpo cristico. Cristo è la Soluzione e il suo corpo, sciolto e rappreso, forato, essudato, travagliato, infuocato e raffreddato, sospeso e sepolto, permane identico, esaltato, moltiplicato, proiettato, in ogni operazione e trasformazione.

Un corpo vuoto di sangue ma traboccante di olio, vuoto di Spirito ma attirante lo Spirito, ricapitolante in sé tutto il cosmo e ogni relazionalità fra gli esseri e gli stati. Un corpo, nel quale, con il quale e per il quale, si compie perfettamente ogni opera perché il culmine dell’Opus, è il primo Opus, il suo archetipo vivente, fondante. Il biancore della deposizione non è solo un segno di purità e innocenza del sacrificio di Cristo, compiuto con l’olocausto del proprio corpo, né si può ridurre alla sola descrizione di un deficit mortifero di sangue, ma corrisponde a un bianco che sorge dall’interno, come una luce rallentata, raffreddata, condensata. Ricorda il bianco della “cerva candida” di Petrarca, declinazione di una luce che si rivela da un’ombra, un luccicore che si intravede nell’interstizio degli elementi, vicino all’acqua. Un bianco che è fuoco senza combustione, acqua senza umidità.

Il corpo deposto è reale nella sua fissità cadaverica ma non è del tutto cadavere, resta in primo luogo “corpo” e oltre a ciò resta inalterato, incorrotto, uguale a se stesso, sebbene corpo separato dal suo spirito, distaccato, un “corpo di separazione”, terra senza calore. Un corpo che possiede una sua naturalità universale, cosmica che esprime in una serie di funzioni, come un lievito, un catalizzante, grazie alla sua semplice presenza. Un corpo che non appartiene solo alla morte in quanto si connota in un contesto di morte quale dies natalis, quale nuova nascita, della quale appaiono quali tipici attributi le bende della deposizione e il sudario quale lenzuolo e tovaglia. Un corpo seme e seminagione. Nel nero nuovo della tenebra dell’eclisse sulla terra si scorge il nuovo bianco del corpo deposto, come lucidato dal diluvio di sangue appena concluso. Decolorati i colori del mondo, svanita la luce fisica, depurato lo sguardo del mondo e sul mondo, compare la “terra alba” che racchiude una luce increata, non creaturale.

La morte di Cristo può essere vista come due separazioni: separazione dell’anima dal corpo e separazione del corpo dalla croce. Ogni divisione moltiplica. Se guardiamo a Gesù quale Pietra, quale Lapis, possiamo apprezzarne la funzione. Pietra levigata e pulitissima, resa liscia dal sangue e dall’acqua, una pietra ouroboros, un corpo che si autoimbalsama, Lapis inalterabile, invincibile nella sua nuda semplicità. I colori accesi del corteo degli amici più fedeli appaiono quali proiezioni del Lapis, occhi della cauda pavonis, riaggregazione sincronica del processo progressivo di liberazione del Lapis stesso. La separazione che è la morte di Cristo è creativa. Dio crea per separazione. Il Lapis deposto esalta i colori separandoli. Il bianco è separato dal rosso. Nella deposizione si compie sia la solutio che l’essicatio. Il lavacro inizia nell’essudorazione del Getsemani, luogo oleoso e igneo del Frantoio, che è la crocefissione mistica, e si compie nella separazione del sangue dall’acqua nel cuore di Cristo aperto dalla lancia.

Il corpo di Gesù emerge dai liquidi come nuova terra asciutta emerge dal Mar Rosso di Mosè, e dal Giordano di Giosuè, come la terra di Genesi emerge dall’abisso delle acque. Pietra morbida ma indistruttibile, resistente più della pietra, assorbente in sé ferro e legno e aria, salina e oleosa. Il corpo-pietra che è riposo del proprio Spirito, segno di un nuovo Sabato di Dio, in cui il suo Spirito si riposa nel corpo umano come in un vaso, in un Tempio. Mentre il suo corpo riposa Gesù sta digerendo la morte che ha inghiottito, il lupo dell’antimonio che ha divorato. La sua freddezza spegne il fuoco infero, rinfresca e ricrea i visceri della terra, irriga la materia del cosmo, l’anima del mondo e ogni anima. È il vaso d’argento che custodisce l’oro nascosto, il fuoco divino e celeste, presente e seminato ma non ancora acceso. La discesa dalla croce continua la discesa dell’Incarnazione e continua a sua volta con la descessio di Cristo negli inferi a liberare i giusti.

Il Corpo di Cristo sciolto dalla croce inaugura la disigillatura delle porte del Cielo, e la simmetrica sigillatura degli Inferi, compiuta dalla croce quale chiave di eternità. Gesù morto nel suo corpo riunisce tutti i metalli: è fisso e pesante come piombo, luminoso come argento, morbido come rame, riflettente come stagno e attorno ad esso compare la corona degli umori perfezionati: Maria è secca e fredda, Maddalena umida e ignea, Giovanni umido e freddo, Giuseppe e Nicodemo sono secchi e ignei. Il corpo perfetto ma immoto riunisce la struttura ternaria del Lapis: è Sale fuso, ma privo di acidità, è Mercurio che rientra in se stesso, è Zolfo diventato bianco, invisibile nel suo fuoco che non brucia ma vivifica, femminile e umido nella radicale passività ma secco e maschile nella sua irremovibilità e nella sua persistente uguaglianza con se stesso.

Il distacco dalla croce che separa gli elementi preannuncia il ritorno, la riunificazione degli elementi nella nuova sostanza del corpo morto di Cristo il quale sembra sovvertire ogni distinzione congiungendo gli opposti, potenzialità e virtualità della reintegrazione resurrezionale. È rigido ma non corrotto, fisso ma non duro, freddo ma attivo, immobile ma docile come cera, passivo ma inalterabile come roccia, lucido ma privo di umori, è argento purissimo provato per sette volte al fuoco, terra lunare, “cosa” che agisce senza fare nulla, con la sua semplice presenza, con l’abisso vertiginoso della propria fredda e asciutta passività, miele trasparente che esce dal corpo del leone abbattuto dell’episodio di Sansone, visto quale prefigurazione dell’Eucarestia.

Al movimento della deposizione quale dinamica discendente sembra corrispondere l’analogo movimento della solutio intesa quale precipitazione/decantazione, salto ontologico nel microcosmo verso la maturazione della perfezione, verso la gloria della redenzione nella materia. Ariosto cita espressamente questo fenomeno in relazione al mercurio. Cristo stesso in croce nel suo corpo ci appare quale grondante sangue, quale immane e totale colatura di umore, diluvio rubeo, sorgente innalzata e dal suo cuore esce prima il sangue e poi la più leggera acqua.

Il Lapis è composto ternariamente e quaternariamente. Ternariamente troviamo conferma anche in ciò che emette il corpo di Cristo crocefisso nell’atto della morte e appena dopo, secondo Giovanni: Spirito, Sangue e Acqua. Cristo Pietra viva e unta, unge il mondo, segna l’universo con un triplice dono, come triplice è stato l’omaggio dei re Magi alla sua divinità e perfezione umana. La solutio rinvia al sangue di Cristo quale sostanza che scoglie le impurità e sbianca, imbianca come il sole che annerisce fino a decolorare (Ct.1,6). Il corpo di Cristo quale pietra che lava e filtra, setaccia e trattiene l’oro dal fango. Il movimento discendente è tema ricorrente nel Cantico dei cantici quale tema teofanico e il compimento della croce corrisponde al Cristo totalmente manifestato, quale “Cristo maturato”, Frutto perfetto che viene spiccato dall’albero della vita, cioè dalla croce, disceso nel giardino ed è la sua discesa che fa della terra da deserto a giardino. Dentro le piaghe, nell’ombra della loro cavità, e sul loro orlo possiamo immaginare, siamo spinti a immaginare che residui un condensato di umore, un olio denso profumato, una sostanza quintessenziale, in minima quantità ma in qualità unica, perfetta, come la mirra eccellente del Cantico dei cantici.

Le anime di Maria, di Maddalena, di Giovanni si liquefano di fronte alla visione del Signore inanimato mentre lo Spirito di Dio al contrario come si rapprende dentro quelle piaghe che diventano luogo pontificale, dimensione intermedia di incontro fra visibile e invisibile. Luoghi dove l’umidità si condensa e a cui corrisponde l’azione inversa di prima preparazione all’imbalsamazione che Maddalena compie sulle cinque ferite secondo la visione di Bellini.

L’effuso torna all’Effusore, il fuori e il dentro, la qualità e la quantità tornano in superiore unità e armonia. Il corpo deposto è secco ma le cavità trattengono una divina e nuova resina come un tronco tagliato, come il monte Galaad, a cui corrispondono le lacrime della corte dei fedeli. Come le piaghe realizzano un medium fra secco e umido così la mirra e l’aloe entrano in contatto solo con l’asciutto Nicodemo e con la lacrimante Maddalena, come a corrispondere ai frutti secchi e freschi del Cantico. Nell’ombra delle caverne di carne delle cinque piaghe del corpo di Cristo troviamo le quattro caratteristiche del Lapis: il rosso, l’oleoso, il morbido e la forza e la stabilità passiva della pietra. Il mixtum delle quattro piaghe, la loro compostella, ricorda il ghiaccio mescolato a sangue e fuoco che scende dal cielo dell’Apocalisse, segno del fuoco dell'etere cosmico e delle acque superiori (Ap.8,7).

Quattro colonne argentee, cioè le quattro membra cristiche, come le colonne della lettiga di Salomone (Ct. 3,7) e il corpo del Signore morto è talamo e cella dove sono giunte al culmine le Nozze fra divino e umano nell’amplesso della morte. Cristo roccia di salvezza crocefisso si manifesta quale roccia le cui fenditure aprono alla visibilità della colomba la cui candida lucentezza è quella propria dello stesso corpo deposto del Signore, corpo permeabile alla luce, morbido e passivo, diafano (Ct. 2,14; Salmo 68,14). Un corpo secco come il muro a secco del Tempio (Ct.2,9) e le cui ferite sono finestre e inferriate teofaniche (Ct. 2,9).

Un corpo fisso come il sale, morbido come il mercurio, fresco come l’ombra ma asciutto come lo zolfo e la sabbia. Il corpo divino deposto agisce come lo zolfo bianco: rende ciò che lo circonda puro e ardente, umido l’arido e compatto l’acquoso, inverte le polarità e media fra di esse. Un corpo che si è svuotato di tutto il suo sangue e di un sangue fiammante che scioglie e imbianca (Ap.7,14) e ora è attraversabile dall’aria e dalla luce, versione inerte e passiva del corpo glorioso della resurrezione, tenebra luminosa.

Un corpo che determina un tempo nuovo, una nuova manifestazione di aion che supera la vecchia dualità puro e impuro per inaugurare una nuova attesa messianica e una nuova rigenerazione sacrale. Un “corpo tempo” ternario e centrale, centripeto, che apre l’alba del crepuscolo sabbatico all’aurora senza fine del Deus Sabaoth, che apre dentro l’alba del Sabato il “Giorno grande” del Signore (il “megas hemera theou” delle profezie), il giorno della nuova creazione l’aggiunta di un giorno ai sette. Un “corpo arca” che è terra e seme insieme, corpo e sepolcro di se stesso, dissolve senza dissolversi, sprofonda senza perdersi, semina e vela senza mutare nella sostanza ma solo nelle manifestazioni del proprio irradiamento.

Il corpo di Cristo è il nuovo Tempio, i cui arti sono i quattro muri a secco che dividono l’interno del Tempio e la cui ferita al costato è la “scaletta di accesso di porpora” prefigurata nell’immagine della lettiga di Salomone del suo Cantico. Il corpo di Cristo brilla nella pura argentea nudità perché si è cotto e lavato nel suo sbiancante sangue, come la fenice e la salamandra nel suo fuoco, e lo spirito della luce si trattiene all’ombra delle sue cavità e feritoie, come l’argento è custodito dentro la roccia.

Il corpo inanimato dell’Uomo Dio uno e trino è giardino chiuso e sorgente sigillata dallo zampillare del suo stesso sangue. Giardino dove fluttua l’austro e l’aquilone (Ct.4,16) attraverso le aperture dei chiodi, avorio e marmo (Ct.5,14), cristallo e alabastro temprato al fuoco (Ct. 5,15, Mc.14,3, Ap.4,6) e ad esso permeabile da cui stilla mirra purissima.

Il ruolo rituale della Maddalena aiuta a comprendere l’ontologia trasformativa del corpo staccato di Gesù. Maddalena lava con le sue lacrime i piedi di Gesù come rinnovando, verso Gesù, quella lavanda dei piedi con cui il Signore ha pulito alla radice l’essere dei suoi apostoli. Come fu rotta l’anfora di alabastro per ungere a Betania il suo corpo, così il corpo di Cristo si è fatto vaso trasparente di unguento che stilla dalle sue cinque aperture.

Qui il corpo di Cristo ricorda il vello di Gedeone che raccoglie la rugiada come i suoi piedi le lacrime della santa. Il tempo nuovo del Natale si compie pienamente dopo la morte del Figlio di Dio: rorate coeli desuper et nubes pluant justum, terra aperiatur et germinet Salvatorem. Cristo come rinasce nella sua morte mostrandosi come il germoglio che sorge dalla terra aperta dal legno della croce e dal terremoto che ha accompagnato la crocefissione. Con l’eclisse la terra intera è divenuta nera e fredda, saturnina.

Unico luogo caldo, incendiato: il luogo della croce dove viene seminato nella terra il germoglio giusto che è Cristo stesso. Dalle nubi scende la rugiada della misericordia del Padre, che cola come è colato il corpo crocefisso del Figlio e dalla terra sorge l’umido delle lacrime dei santi fra cui la Maddalena. L’emblema XII del secondo libro delle Sacre Imprese del vescovo Paolo Aresi è dedicato alla “Nuvola di creta” che condensa la rugiada quale segno dell’attirare lo Spirito e viene accostato alla figura della Maddalena. Il corpo divino di Gesù deposto è il vello aureo, esso stesso si pone quale nuvola di creta che trattiene e raccoglie la rugiada celeste come incorporando e condensando lo Spirito di Dio. L’argilla custodisce l’acqua senza perdere la propria forma. L’argilla possiede una sua memoria. È il tetramorfo ADAM. Può forse l’occhio del Padre distogliersi dal corpo del Figlio, che riempie l’universo con il soave profumo del suo perfetto sacrificio? Ecco la funzione catalizzante di questa perfetta e unica sostanza. Ecco il coagula dentro il diluvio del solve. Vaso di creta che trattiene l’acqua celeste restando secco e inalterato, come la creta adamitica e edenica, permeabile all’acqua e allo Spirito che vi aleggia coesa e docile alla plasmazione, priva di informità.

La forma del corpo di Cristo ha resistito vittoriosamente al fuoco della croce, al battesimo del sangue, al tormento totale del crogiolo, dimostrandosi più forte del ferro e del legno, e ora si manifesta quale Forma per antonomasia, forma che da vigore e consistenza all’essere, forma formante, forma che è speculare docilità all’azione del Suo Spirito. Il “pianto” del corpo crocefisso e deposto e il pianto del cuore e degli occhi della Maddalena, fontana vivente, si parlano e si rispecchiano, e diventano emblemi della purgazione dei cattivi umori e delle impurità degli elementi.

In Cristo, sostanza purissima, si effonde purgando senza purgarsi e in Maddalena si effonde purgando quel che le manca alla santità piena, cioè la sensibilità degli affetti. Il corpo di Cristo si è essiccato svuotandosi dei suoi santi umori, sangue, sudore e acqua e ora riceve come Graal e ricettacolo nelle sue cinque piaghe l’acqua salata del cuore della Maddalena. Lo Spirito aleggia sopra le acque e la vittima viene salata, prima e dopo. Prima il cuore aperto di Gesù ha sparso la sua acqua e ora Maddalena sparge le sue lacrime, lavando così i propri piedi mentre lava quelli già da sempre mondi del suo Signore (Ct. 5,3). La sua anima è liquefatta come l’interno delle piaghe di Cristo che permangono fisse e morbide nella loro umidità, inscomponibili.

Maddalena è la Luna che lava il Sole, adombrato dall’eclisse, argentato dalla tenebra del mondo e sul mondo. Il simile attrae il simile, l’odore soave del corpo deposto attrae gli aromi di Nicodemo e di Maddalena. Tre aromi: di Cristo, degli amici e del giardino dove sono scesi, dove il corpo divino beve l’olio della misericordia che ha seminato ed effuso, dove divora il miele che ha prodotto e che partecipa al circolare corteo dei più fedeli. Il corpo deposto di Cristo è banchetto nel giardino dove gli amici di esso si pasciono e si inebriano. La deposizione è ricezione e accettazione, è già rito di partecipazione eucaristica, nutrizionale, che continua con la contemplazione e l’adorazione del santissimo corpo deposto. Giovanni e Maria si annichiliscono conformandosi all’immotità del corpo cristico, Maddalena si liquefa, Nicodemo e Giuseppe si pietrificano, si essiccano, diventano gesti e rito, silenzio e pura adorazione in movimento.

Il corpo di Cristo Pietra viva e oleosa, olio di mandorla, Lapis, proietta alcune sue proprietà sui buoni terreni dei suoi più intimi amici. Cristo quale Lapis concentra in se stesso le proprietà essenziali dei sette metalli: la fissa e fredda secchezza del piombo, l’ignea acutezza penetrante del ferro temprato, la docilità dello stagno, il dolce e caldo luccicore del rame, la morbidezza e leggerezza del mercurio, la chiarezza raffinata e riflettente dell’argento e la resistenza dell’oro, immune dalla ruggine e uguale a se stesso. Sia una presenza di un corpo che è e che non è. Corpo di separazione e, quindi, ponte e matrice di ricongiunzione, Forma delle forme, forma per e di tutti gli umori.

Le proprietà di questo straordinario e inaudito corpo, immune da qualsiasi identificazione cristallizzante come pure permanente nella propria identità ed essenza, sembrano mutuare le due polarità estreme dell’Opus: agire secondo natura e agire contro natura. Siccome nell’Opus fondamentale è il fuoco e la sua regolazione, dobbiamo accennare al rapporto fra Cristo e il fuoco. Già nel linguaggio mistico, apocalittico e messianico dei Salmi e dei Profeti Dio appare quale Realtà che si cela/rivela di e fra opposti che sfuggono alla distinzione fra i quattro elementi e le loro ordinarie dinamiche. Dio è Colui che si veste di spesse nubi, tuona e fulmina, fa fondere i monti come cera, opera dentro un mormorio leggero, un Suono quasi extra fisico che si occulta dentro un fuoco che si occulta dentro la tempesta e lo “spezzarsi” della roccia/terra.

Nel poema di età costantiniana di Aquilino Giovenco, dove i 4 Vangeli vengono riportati a un unità organica sinottica e sincronica, il filo rosso che unisce le cristofanie è il fuoco. Cristo appare e apparirà su nubi di fuoco e il fuoco incombe sul creato quale suo segnato destino di dissoluzione. Giovenco accenna e allude a un fuoco divino, cristico, vivificatore, e a un distinto ma complementare fuoco di giustizia, vendicatore e purificatore, a cui, anche secondo san Paolo e san Pietro, sono votati gli elementi del cosmo.

Già ai primordi del Cristianesimo l’immagine di Cristo viene accolta e sintetizzata quale immagine e potenza ignea, anche se di un fuoco differente da quello fisico, ma analogo per il proprio dinamismo tipico fatto di velocità ed efficacia di propagazione e di permanenza identitaria universale. Non solo la sua resurrezione viene descritta come una luce rosseggiante ma tutto l’Opus di Cristo e Cristo stesso viene metaforizzato tramite l’immagine e il comportamento del fuoco. Se tutto può consumarsi e trasformarsi in fuoco, anche le anime, i corpi e gli spiriti umani sono chiamati a “farsi fuoco” in Cristo fiammante di gloria, di calore e di luce. Solo il fuoco cristico può redimere preservandoci dal fuoco distruttore della Geenna e dall’annullamento generale dell’essere in cui conflagrerà tutto l’universo alla fine dei tempi, annichilito come in un immenso incendio risolutore. “Sono venuto a portare il fuoco sulla terra e come vorrei fosse già acceso” (Lc. 12, 49).

Anche il corpo deposto del Signore sembra non aver perso del tutto il proprio rapporto con il fuoco. La sua freddezza sembra alludere a un nuovo tipo di fuoco, simile a quello ermetico: un fuoco “contro natura”, invisibile, freddo, che arde solo internamente, nelle viscere dell’essere, senza manifestarsi con evidenza. La mirra, il sangue ancora presente sulla ferita del costato e dentro le piaghe, il passaggio per la croce quale acido crogiuolo, l’aceto nella spugna infissa nella canna, il fiele nel vino assaggiato, il rosso vivo delle vesti dei personaggi della pia corte che circonda le sue spoglie, appaiono tutti quali ierofanie ignee. Passato vittoriosamente attraverso lo scatenarsi della violenza del fuoco mondano nella sua Passione e sul Golgota, luogo secco, petroso, polveroso e meridiano, dove la croce agisce nello spazio in modo strutturalmente igneo, cioè in tutte le direzioni, il corpo del Signore sembra ora veicolare implicitamente l’accensione di un superiore e differente fuoco.

Accensione che si accompagna all’immagine del corpo cristico quale corpo seminato, infisso dentro la terra/roccia nella sua sepoltura. Fuoco “celeste” anche in quanto “celato”. Mentre Gesù si sdoppia fra la sua anima che libera i giusti dalle fiamme o dalle freddezze infere e il suo corpo che giace inerte, “agendo” senza agire nell’essere dei fedeli, avviene una parallela duplice operazione di sublimazione del fuoco e di suo fecondo amplesso con la terra. Il seme, secco e freddo, non dà vita se non nel dolce e ombroso calore della terra. Se il fuoco cristico ora inizia a operare cosmicamente deve pure essere nuova e pulita la terra dove viene seminato. Ecco, quindi, il “nuovo” sepolcro scavato nella roccia da e di Giuseppe di Arimatea. Una roccia dentro un giardino vicino al colle sterile del “cranio”. Una roccia “spezzata” come nella teofania di Elia sull’Oreb, e per due volte, al momento culminante della morte di Cristo in croce. Il corpo di Cristo è “vaso ermetico”, “fons sigillata”, già sulla croce.

Nella sua postura emblematica con il volto inclinato verso il costato che sarà ferito dal ferro della lancia di Longino, Cristo appare simile al “contenitore/trasformatore” tipico degli alchimisti chiamato “Pellicano”, non a caso epiteto simbolico di Cristo stesso, e connotato dall’inclinazione del suo becco verso il “petto” del proprio “corpo”. Cristo pellicano, Cristo ouroboros, Cristo vaso che trattiene il fuoco e, nel fuoco, il travaglio di tutti gli elementi, corpo che si inarca come il cielo, come un cielo incendiato e rovesciato. Il paradosso e lo scandalo (cioè la pietra di discrimine) della Croce e della morte dell’Autore della vita sembrano dialogare spontaneamente con i paradossi dell’alchimia, con i suoi temi dell’inversione metodica e ignea contra naturam e con la sostanziale e generale dimensione paradossale dell’alchimia stessa.

Nella deposizione il rosso dell'infinito fuoco celeste che Gesù ha portato sulla terra e che si acquista con la moneta del sacrificio, si riduce al ristretto spazio della ferita al costato, si concentra corporizzandosi in un solo immenso punto che diventa la nuova porta del Paradiso, dove l'incommensurabile si presenta quale luogo accessibile e reattivo, performante, a qualsiasi stato: irrorante con l'arido e asciutto con il madido. Il "coelum" è ciò che cela e il corpo della deposizione è luogo della celazione quanto della rivelazione apocalittica, luogo che cela tutto e il Tutto, quindi anche il proprio mistero che è la propria possibilità.

La deposizione quale volta del velare, quindi cielo, quale nuovo velo del Santo dei santi, del Cielo quale Arca e Tenda e Santario. La deposizione è anche coagulatio, concentrazione e assorbimento, che riluce della freddezza dell'argento come una luce tagliata e avvolta in se stessa. È un corpo temperato, tiepido e fresco, come un giardino edenico dove la canicola polverosa della collina del cranio si incontra e amalgama al fresco notturno dell'eclisse, delle tenebre meridiane su tutta la terra. Gesù è il Sole velato di tenebra nella crocefissione, in quanto sole inchiodato, fissato, vestito della sua stessa ombra, Sole che splende ora internamente, solo verso e fra il Padre. Sopra il Sole infisso alla terra resta aperto e caldo solo l'occhio del Padre.

Ma il corpo della deposizione è anche venato d'azzurro quale cielo rappreso, quale Lapislazzulo, pietra celeste il cui colore, come ricorda Leonardo, resiste al fuoco. Corpo perla e corpo diamante. Licore argenteo che esce dal cuore dell'oro, motore immobile che riordina gli umori, i colori, le essenze come una ruota attorno a sé: la coda del Pavone.

Nella Deposizione monocroma di Traona, conservata a Palazzo Besta di Teglio, il piccolo drago di S. Margherita dipinto a terra vicino al sepolcro, ricorda una logica posizionale simile all'incensiere atterrato dell'angelo clavigero dell'Apocalisse nella Melancolia I di Dürer. Il piccolo drago è emblema duplice: il fuoco del mondo ridotto a poca cosa, pietrificato, addomesticato, e il Fuoco celeste corporificato, preparato per la secca sepoltura, concentrato, fissato a terra per esservi seminato. Gesù tocca il fondo dell'universo con le proprie spoglie, con il dono del proprio involucro immacolato, e il fondo risorge, si accende, si chiarifica.

Il pianto delle tre Marie sotto la croce e nel conseguente compianto trova un parallelo oggettuale e trasformativo a livello di Opus nel metodo del “bagnomaria”, dove, similmente umidore e calore si congiungono in un’opera di “salizzazione”, di igneizzazione. Tre donne e tre uomini attorno al figlio di Davide, a formare un vivente sigillo di Salomone: le tre Marie, Giuseppe d'Arimatea, Giovanni e Nicodemo. Il triangolo dell'acqua è femminile, quello igneo, maschile. L'oro, Cristo, scende nell'acido freddo e amaro dello Stige e riempie il buio con la propria luce. Maria è la luna eclissata unita al Sole adombrato, come nell'Annunciazione. La Luna resta accanto al nuovo Saturno, Cristo, che è ponte di passaggio fra la secchezza fredda del piombo e il fuoco vitalizzante dell'oro. Cristo appare spiritualmente androgino quale Uomo Universale perché unisce la femminilità lunare dell'accettazione passiva della morte con la persistenza maschile dell'inalterabilità del proprio essere.