C'è mancato in questi anni il talento cristallino di Patrizia Laquidara. Ne sono passati sette, dal suo ultimo cimento discografico. Da qualche settimana invece è in distribuzione C'è qui qualcosa che ti riguarda (Believe), un disco affascinante per quanto ruvido, che vibra e risuona secondo un circolo parecchio virtuoso, la cui forma melodica slitta continuamente, declinato in una lingua asciutta e precisa che risuona come se fosse stata incisa sul ghiaccio, ma con un calore del tutto familiare.

“Non è stato facile ritornare a pensare a un disco -afferma l'artista- sentivo la responsabilità di dover portare a termine qualcosa di importante, di dire qualcosa che rispondesse alle aspettative degli altri, di chi da tempo mi aspettava, in primis il mio pubblico. Sentivo la responsabilità di riassumere tutte le mie esperienze, il mio vissuto in poche tracce. Così a un certo punto sono partita, ho cominciato a scrivere. Ho capito che l'unica cosa sensata da fare sarebbe stato più che mai essere sincera e parlare di ciò che sono ora. Ad ogni costo, senza dover dimostrare per forza qualcosa, ma solo la verità, la mia faccia di adesso. Nei 7 anni che sono passati rispetto al mio ultimo disco ho attraversato una serie di esperienze in vari campi artistici, realizzato tour all’estero, ho avuto collaborazioni varie e partecipazioni cinematografiche, ho anche scritto un libro di poesie, ma più di tutto questo ho vissuto. Anzi, confesso che ho vissuto per citare Pablo Neruda, un poeta a me molto caro. Ed è stata questa la cosa più importante che ho fatto”.

Il fluire della scrittura è stato placido, tempestoso, immediato?

Non ho gettato nulla di ciò che mi è arrivato via via: almeno quattro canzoni del disco sono arrivate di notte, come già scritte, tutte nella stessa settimana. Le ho guardate a lungo con diffidenza. Brani come Sopravvissuti, Marciapiedi, Preziosa avevano qualcosa di diverso da ciò che avevo fatto prima... nei testi, nella voce, nelle composizioni. Ma ho deciso di affidarmi a quella mia nuova me che mi si mostrava... una altra parte dell'altra per citare una canzone manifesto presente nell'album. Ho seguito questo nuovo corso e ho affidato gli arrangiamenti e la produzione artistica ad Alfonso Santimone, perché sapevo che lui, conoscendomi bene, avrebbe dato una veste e un sound unico, originale, coraggioso. Così siamo arrivati alla fine del disco. E non è stato facile. Per niente facile. Ma ce l'abbiamo fatta.

Hai una fan base importante, ritengo sia stata decisiva nella concretizzazione di un album che pone il sigillo su una conquista importante di questi tempi, ovvero l'assoluta libertà di scelta nella produzione dei propri materiali in barba a qualsiasi logica imposta da un management discografico tradizionale, che hai scelto volutamente di non aspettare…

Prima di intraprendere questo lavoro, che sapevo sarebbe stato molto impegnativo per me, come del resto lo sono stati tutti i miei precedenti dischi. Ho riflettuto molto su come e cosa volevo dire, sui tempi che corriamo, su ciò che vuol dire essere un artista oggi. Alla fine mi è stato chiaro che il bene più prezioso che l’artista può offrire al suo pubblico sono il suo immaginario e la sua autenticità, caratteristiche da mostrare in maniera incondizionata e originale. L’artista può scegliere di far sopravvivere la parte artistica, immaginifica, emotiva, e per farlo non può delegare, deve anzi essere in prima linea su tutto ciò che direttamente o indirettamente, contribuisce a un progetto discografico: dalla dimensione artistica, come il concept di un videoclip a quella imprenditoriale. Per fare questo ci vuole libertà artistica e per avere libertà artistica spesso devi avere anche quella economica. Quindi è stato fondamentale per me l'apporto del crowdfunding pubblico, che in questa prospettiva ha rappresentato una strategia perfettamente sintonica, raggiungendo ottimi risultati fin nelle prime due settimane. Alla fine abbiamo superato di quasi il doppio la cifra stabilita in partenza. Grazie a questa operazione il pubblico non è stato un mero contenitore vuoto in cui calare un prodotto predefinito, creato da esigenze di mercato. Piuttosto è diventato un elemento attivo, dotato di autocritica, che ha contribuito alla realizzazione di un progetto, diventando partner e ascoltatore attento, oltre che investitore. Certo, non posso negare di aver anche cercato una casa discografica che appoggiasse e sostenesse tutto questo. Ma per un motivo o per un altro non è arrivata. Il prodotto è completamente indipendente, ma non nel senso di indie che è un concetto che non esiste più. Ora non so se questo sia un bene o un male, di certo è tutto molto più faticoso. Il lavoro a volte sembra titanico, ma di certo posso dire che “io non mollo mai”, come sottolineo in Marciapiedi, il primo singolo estratto.

Quando hai esordito, realizzare un disco era un traguardo molto importante: c’era gente che credeva in te e ti finanziava. Adesso, con tutto lo streaming e il mordi e fuggi di questi tempi, che significato possiede?

Un supporto essenziale, atto a contenere tutto ciò che hai da dire. Nello specifico è stato un diario di bordo di una lunga navigazione, il racconto di una persona che torna da un viaggio articolato e denso di cose. Può essere che nel futuro opterò per pause molto più brevi, allora forse non uscirò con un album, ma con un e.p., un singolo, un brano da mandare in streaming: mi piace giocare e usare anche i mezzi nuovi che abbiamo a disposizione. Di questi tempi occorre essere veloci. Ma oggi volevo offrire un disco capace di prestarsi a un ascolto paziente e duraturo nel tempo, in netta opposizione a una musica che vuole essere consumata in fretta in mezzo alle corse che la vita contemporanea ci impone. Un disco capace di proporre un sound opposto a un'idea patinata di suono, che desidera raccontare il più possibile ciò che sono ora e come vedo il mondo. Non ci sarei mai riuscita se non avessi avuto al mio fianco un produttore artistico come Alfonso Santimone che ha capito e sostenuto tutto questo fin dal primo momento, rendendo preziose tracce che a volte erano solo un appunto e portandomi verso lidi a cui nessuno ha saputo portarmi finora.

Ma è cambiato il tuo modo di scrivere in questi anni? Ti abbiamo scoperto anche come autrice di libri, e nell’aria c’è una novità importante che sta per arrivare…

Per necessità e anche perché spinta da una forte esigenza personale, mi sono avvicinata al mondo della poesia e dei racconti. Dovevo riuscire a esprimermi anche in un altro modo, senza dover per forza rimanere dentro la griglia di una melodia. Ho scritto le prime poesie pochi anni fa. In realtà sin da quando ero bambina ho sempre scritto tanto, ma non avevo il coraggio di mostrarle a nessuno. Poi ho notato che avevano in sé qualcosa di carnale, di organico, direi anche sanguinolento (il riferimento è a quelle raccolte in Alphonsomangorey, edite da La Vencedora, un auto-produzione n.d.r.), qualcosa che si esprimeva appieno solo lì, in quella forma. Dunque le ho fatte leggere a qualche poeta che stimavo e mi hanno incoraggiata. Un editore mi ha chiesto poi di pubblicare e l'ho fatto. A ottobre sono stata invitata al festival internazionale di poesia “L'orecchio di Dionisio”. Fra pochi mesi invece pubblicherò il mio primo libro ufficiale di racconti per una casa editrice molto quotata. Mi sembra incredibile: è merito di questa attitudine da mister Magoo che mi ritrovo... Amo scrivere racconti, ben presto sono diventati autobiografici. Sto su un racconto, una frase, ore e giorni e giorni. Parlano della mia infanzia e descrivono contemporaneamente un'Italia che non c'è più. Un mondo antico che ho solo sfiorato, essendo io nata negli anni ’70. Una dimensione che poi ci siamo lasciati alle spalle, per immergerci nella modernità e da lì in questo mondo liquido, anzi, direi quasi vaporizzato. Amo questi racconti, perché tutti abbiamo un'età grandiosa, favolosa da raccontare, e questa è stata la nostra infanzia, nel bene e nel male, che sia stata popolata da orchi cattivi o da fate buone.

Spesso interpreti anche brani di altri... perché ami farlo e come ti poni nei confronti dell'artista o delle parole che scegli?

Mi pongo con un'attitudine curiosa, come mi fosse concesso di addentrarmi in un mistero da scoprire e di cui aver cura. Le canzoni sono la nostra poesia popolare, raccontano la storia, ci commuovono. E a me piace entrare in altri mondi-canzone perché sono tutti da scoprire. Quando si canta ciò che si ha scritto invece si è già detto ciò che si voleva dire. Quindi è per me qualcosa di meno avventuroso. Ma sicuramente bello allo stesso modo.

Ti capita spesso di cestinare brani di cui non ti ritieni contenta?

Sono piena di brani che cestino e che ritrovo magari dopo anni dentro lettori mp3 che non uso più, di testi scritti dentro ai mille diari che tengo in casa…

Ma quando è stato che ti sei scoperta cantante, decidendo poi che avresti seguito questa strada per la vita?

Ho sempre sognato di fare la cantante. Chi mi conosce fin da quando ero piccola, i genitori, i parenti, ma anche i miei compagni di scuola, raccontano che sempre dicevo: voglio fare la cantante. Io non me lo ricordo esattamente. Ma tutti loro giurano che ho sempre detto così. Non è stato facile realizzare questo sogno, intanto perché non provengo da una famiglia di musicisti: fare musica a loro sembrava più un vezzo inutile che un lavoro vero. Così ne ho fatti altri, per almeno dieci anni. Finché qualcosa dentro di me ha deciso, mi sono fatta coraggio licenziandomi da quella dimensione che non mi apparteneva più, quindi sono partita e ho fatto l'artista di strada, poi sono cominciate le date vere, quelle nei teatri, mi sono iscritta al festival di Recanati e da li è arrivato tutto il resto... dopo un anno ero a Sanremo, avevo un disco mio. Lo ripeto, mi sento come una sorta di Mister Magoo. Mi succedono cose incredibili e io sto là in mezzo a viverle, spesso senza rendermene conto. Ho una vocazione innata per vivere fuori dal tempo e capire soltanto poi, a posteriori le esperienze che ho attraversato. C'è proprio una canzone, che un grande cantautore come Carlo Fava ha scritto pensando a me. Riassume questo tipo di inclinazione in cui mi riconosco e dice: “Ma come fa quel tuo sguardo a puntare il futuro E a fermarsi su tutte le cose E a passare attraverso quei mondi incantati E arrivare alla fine del mese…”.

In mezzo alle tante soddisfazioni e gli incontri importanti della tua carriera, lo spazio per un sogno ulteriore resta sempre: il tuo prossimo quale potrebbe essere?

La verità? Fare la casalinga felice per un anno intero. Occuparmi solo di lavare i pavimenti, canticchiare e fare la spesa. E poi quando mi pare scrivere poesie.

Come stai ipotizzando il tuo nuovo live?

Le prove sono in corso perché le prime date sono imminenti, il mood risulterà omogeneo rispetto a quello del disco. Il lavoro sarà seguito insieme a me da Alfonso Santimone e il concerto sarà eseguito dal cuore acustico che ha suonato nel disco: Nelide Bandello alla batteria, Stefano dalla Porta al basso, Daniele Santimone alle chitarre. Ma presumo ci sarà anche l’aggiunta di altri musicisti per rendere meglio il suono del disco, soprattutto per non rinunciare a quei leggeri soffi di elettronica presenti nelle incisioni. Sono molto felice di poter cominciare questa nuova avventura live con i cari amici torinesi del Folk Club il 25 gennaio: si tratta di un locale storico che da tanto tempo lavora con e per la musica italiana d'autore e non solo.