Un altro tesoro della Pinacoteca Il Divisionismo di Tortona. Un dipinto che mi ha sempre turbato: Pascoli montani di Carlo Fornara. Eppure sembra il dipinto più semplice del mondo: montagne, mucche, prati e boschi. Temi molto amati nella pittura di fine Ottocento e inizio Novecento, sia fuori che dentro il Divisionismo. Possiamo dire temi ormai senza tempo, divenuti non solo e non tanto cliché e canoni quanto esigenze vitali e spirituali dello sguardo individuale e sociale.

Da quando è iniziata la società industriale non a caso si è diffusa questa esigenza di rappresentazione, come in una compensazione globale, in una Nemesi planetaria. Quando l’uomo ha iniziato a sfruttare più sistematicamente la natura, ha avvertito pure l’esigenza di celebrarla, mentre la distruggeva, l’asserviva, la manipolava. Ma cosa ha di unico o almeno di differenziale, di identitario, questo dipinto che non sembra uscire da una pittura di genere, convenzionale? Ci vuole del tempo per approfondirlo.

È un’opera difficile. Da un certo punto di vista può ad essa applicarsi quello che Kandinsky diceva della pittura di montagna di Segantini, paragonandola a una pittura sostanzialmente astratta, concettuale, e quindi solo in prima apparenza realistica e sociale. Mentre in Segantini è la luce il focus principale in questo lavoro di Fornara sembra il colore il fattore individualizzante. Un colore steso in prevalenza orizzontalmente, con pennellate spesso riconoscibili, impattanti, grasse, ricche di bianchi luminescenti. La percezione complessiva è quasi allucinatoria, elettrificante, proprio per la potenza smaltante delle cromìe. Ma questa inquietudine che può indurre, come mi induce, il dipinto da dove proviene? Che radici possiede?

Occorre analizzare più in profondità i dettagli compositivi. Guardiamo alle mucche. Tre sono direzionate verso destra e tre verso sinistra. Il vitellino e una mucca appaino visivamente congiunti, quindi non contraddicono il bilanciamento percettivo. Gli animali sono immobili. Non sta accadendo nulla. L’attenzione agli equilibri compositivi propria di questa pittura e del Divisionismo in generale è straordinaria e si spiega solo con il grande studio accademico e tecnico-scientifico che connota tutti questi artisti. Dobbiamo risalire a Leonardo per trovare una simile attenzione e concentrazione compositiva. La scena è tripartita orizzontalmente. Un “dipinto flusso”.

Ma guardando più attentamente emergono altri due fattori caratterizzanti. Le pennellate non sono solo orizzontali e parallele. Abbiamo pennellate curve, di movimento, che danno ritmi mossi appena percettibili al prato e allo scendere delle colline. La prospettiva poi si rivela addomesticata. La mucca in primo piano presuppone uno sguardo di partenza non vicinissimo. Oppure appare eccessivamente piccola. Le case in lontananza appaiono troppo piccole rispetto agli alberi e troppo grandi rispetto alle ultime mucche. Così come le montagne innevate sembrano eccessivamente basse e piccole rispetto alle colline che le precedono.

Tutto viene piegato alle esigenze di armonizzazione della scena-flusso. Il grigio delle pietre del prato corrisponde al grigio delle nuvole piane e piatte che occupano il cielo. Le pennellate orizzontali del prato trovano compensazione nelle pennellate verticali delle rocce e delle macchie vegetali. Fornara ci insegna che la stasi è fatta e retta da lenti piccoli movimenti. Un divisionismo anche della dinamica e non solo della cromatica del dipinto. Perché tutto ciò? Per conferire totalità e intensità alla visione? Per lasciare che sia il colore l’unico protagonista con i suoi bianchi e con la complementarietà della dialettica del verde/rosso? È un dipinto realizzato sovrapensiero? Come in trance?

Ecco il suo enigma. Forse è questo il fattore di perturbazione che può emergere nella ricezione psichica di chi guarda. Forse è questo il fattore che diffonde una sottile inquietudine dentro la ricezione della scena pittorica. Non solo cioè non accade nulla nella rappresentazione ma le montagne di Fornara non sembrano declinate in alcuna accezione culturale, intenzionale. Non sono montagne sociologiche, documentaristiche per il folklore o le tradizioni antropologiche. Non solo montagne psicologizzate, spiritualizzate. Non sono montagne estetizzanti, o intellettualizzanti, o sentimentali. Eppure ogni dipinto, e questo non fa eccezione, rappresenta sempre un atto creativo e interpretativo, un atto di cosmogenesi.

Nel suo Pascolo Fornara nasconde con un’efficacia straordinaria la soggettività costruttivista e interpretante di se stesso quale artista. Non si vede l’umanità, non si sente, neppure come genesi pittorica, ideativa, concettuale. Una pittura che sottrae il senso di umanità e di soggettività implicito in ogni dipinto quale performazione, quale realtà interpretativa e interpretante, allusiva. La visione scenica annulla tutto nel suo “eccesso di equilibrio”. Il colore splende ma come in un’allucinazione statica. Non c’è fuga, né ascesi. Non c’è appiglio per una qualsiasi allusività. Come uno sguardo che non batte le ciglia. Diventa allora ben presto uno sguardo bruciante, insostenibile. Il filologo di Basilea avrebbe, penso, apprezzato molto questo dipinto, così fedele alla terra, così spersonalizzante, de-individualizzante nella trasparenza imperturbabile della sua immanenza.

Altro tesoro che offre la Pinacoteca di Tortona e che è utile accostare in modo dialettico ai Pascoli di Fornara è la Piazza Caricamento di Plinio Nomellini. Un’altra opera grandiosa, sinestetica, emblematica, pur nella sua prosaica semplicità. Il soggetto del dipinto è la Piazza. Il suo titolo è sincero. I due personaggi in primo piano che l’attraversano, ma non ne sono ancora usciti, sebbene siano caratterizzati in modo forte, identitario, sono come manifestazioni accidentali dell’anima di Piazza Caricamento di Genova. La Piazza quale luogo dell’anima, quale atmosfera spirituale, quale territorio di vita che permane e persiste oltre coloro che la vivono. Si comprende questo quadro se si comprende pienamente il significato dei concetti di ambiente, di “clima”, di atmosfera, di habitat. Possiamo definirli quali “sistemi organici”.

Meno cerebralmente quali insieme di relazioni e di percezioni condivise permeabili ai singoli accadimenti e incontri che la connotano ma persistente nella sua riconoscibilità quale unità differenziale, quale tono dominante, quale “coloritura” umanistico-oggettuale. Se in Ave Maria a Trasbordo il senso di unità vitale si irradiava dalla vicinanza fisica fra le persone umane e il gregge di pecore, in questo dipinto l’unità di vita è tra la piazza e le sue “comparse umane”, cioè tra l’umanità che lavora e traffica e il suo territorio, come dotato di una sua vitalità intrinseca, seppur non separabile dai dinamismi umani.

Questo dipinto non è lontano dei valori di Fiumana e del Quarto Stato di Pellizza da Volpedo, solo che li narra in senso fenomenologico, vitalistico, quasi spersonalizzante dal punto di vista dell’occhio del pittore che guarda. Non c’è una direzione se non dal centro della Piazza, che resta la protagonista incontrastata. Siamo di fronte a un dipinto di “temperatura”, “d’atmosfera” in senso umano, animico-sociale. Non è un quadro esistenzialista, né un quadro sociologico, ma sociale e spirituale sì. Un’opera di testimonianza pura, non ulteriormente dettagliata o declinata. Ogni altra considerazione andrebbe fuori tema, non sarebbe pertinente con la dimensione della Piazza lavorativa, che rifugge strumentalizzazioni o “colori” unici.

Il ritmo della Piazza è attrattivo ma anche convulso e dispersivo. Non ci sono spettatori o passanti in essa, neppure le due figure umane più in rilievo. Chi è nella Piazza ne prende parte, senza altre aggettivazioni. I colori e le pennellate strutturano toni cromatici dominanti, avvolgenti, come un grigio-ocra luminescente, una foschìa, una “macaia” tipicamente genovese. Si sentono i suoni, il vociare dei traffici, delle contrattazioni, delle discussioni. Si sentono i profumi, gli odori forti del mare e del suo commercio. Il tempo della piazza è il tempo continuo della storia, cangiante, processuale, fatto di innumerevoli piccoli accadimenti che si intrecciano e si stratificano, lasciando tutti una piccola traccia, una pennellata, che declina e dettaglia il luogo e la sua evoluzione. Dalla piazza si esce stanchi, disincantati, oppure ancora vivaci, desti, come il personaggio con il fazzoletto rosso. La credibilità delle loro espressioni minute convince. Ci si riconosce nei volti di due lavoratori di cento anni fa! L’enigma vitale della pittura che ricapitola incessantemente gli stati e i processi psichici.

Anche qui come sempre nella grande arte il valore cardine è forse proprio l’equilibrio. Nessun elemento figurativo, ideativo, prevale sugli altri ma tutti concorrono nell’unità della visione. Una grande lezione tipica del Divisionismo. Etica, prima che di tecnica pittorica.