Poco più che ventenni. Eravamo fuori dal bar nonostante il freddo e una leggerissima pioggerella invernale. S’era un gruppetto di quattro o cinque, il solito gruppetto di fantasiosi iscritti alla facoltà di lettere con tanti sogni e tanti progetti, pur con la certezza di un futuro lavorativo incertissimo: tra noi la ragazza di cui eravamo un po’ tutti innamorati, non particolarmente bella, ma dolcissima e affascinante.

Si parlava, si parlava molto perché sentivamo un gran bisogno di comunicare, di sfogarci, di protestare, di arrabbiarci; allora era per noi inimmaginabile, pur con la suggestione delle letture di Asimov, di Bradbury e di Orwell, la perversione dei telefonini che ci avrebbero incapsulati nel nostro ego, separandoci l’uno dall’altro pur stando fisicamente vicini vicini.

Si parlava e si fumavano sigarette economiche. Di fronte a noi la straordinaria monumentale facciata della sede centrale dell’Università, col suo ampio frontone neoclassicheggiante, il colonnato imponente e la larghissima scalinata col flusso ininterrotto di studenti che salivano e scendevano. Alcuni blindati nell’eskimo di gran moda sembravano insensibili alla pioggia. Quella grande facciata aveva tutta la meravigliosa magniloquenza, la grandezza sontuosa e l’autorevolezza accademica, che le università di oggi sembrano aver irrimediabilmente perso confinandosi negli anonimi campus extraurbani, fatti di cubi di cemento per contenere aule e maisonette, disseminate tra spazi verdeggianti e vagamente americanizzanti.

Di fronte a noi la grande facciata, alle nostre spalle il jukebox del bar dal quale venivano, trascinanti come una ventata che riempiva i polmoni, le note di Imagine, la voce discreta e un po’ triste di John Lennon, uno struggente accordo di pianoforte che non avrebbe mai smesso di commuoverci e le parole semplici di un messaggio di pace che tutti condividevamo.

Quell’accordo risuona ancora dentro di noi ogni volta che pensiamo agli anni dell’università ora che ci avviamo alla settantina e che evitiamo quasi di incontraci e di ritrovarci, forse per paura di contarci dopo che, prima fra tutti, ci ha lasciato la nostra carissima amica, o forse per paura di paragonare quello che viviamo adesso a quello che allora speravamo di vivere. Meglio ricordarci come eravamo allora, arrabbiati sognatori che aspettavamo le grandi cose che – ne eravamo certissimi - stavano per accadere. Che ricordi!

Era il 1971. Ma altro che pace da immaginare con John Lennon, altro che certezza di un mondo unito che chiudeva l’indimenticabile Imagine. A febbraio le truppe del Vietnam del Sud, sostenute dall’artiglieria e dagli aerei americani, entravano nel Laos; a marzo deflagrava la tremenda guerra del Bangladesh. Ne soffrivamo davvero, come tre anni prima avevamo sentito quasi sulla pelle il dolore per l’invasione dei carri armati sovietici a Praga e per la tragica fine del giovanissimo Jan Palach. Ne soffrivamo e seguivamo come potevamo, nel caldo dei primi d’agosto di quell’anno, da lontano con le nostre radio, il grande Concerto per il Bangladesh, bruciando dal desiderio di essere presenti fisicamente a New York, al Madison Square Garden, per stringerci intorno a gli ex Beatles George Harrison e Ringo Starr, a Bob Dylan, Eric Clapton e tutti gli altri che avevano accettato di esibirsi a favore di una terra sventurata.

E intanto, proprio quell’anno, sui primi numeri della rivista il Dramma, riportato in vita da Giancarlo Vigorelli, scoprivamo la letteratura e il teatro praghesi dissidenti, cui proprio lo strappo dell’invasione sovietica aveva fornito una spinta di conoscenza in Europa: soprattutto Pavel Kohout, e Vacklav Havel che sarebbe diventato presidente fino allo scioglimento della Cecoslovacchia. Erano tempi nei quali anche la musica ogni anno ci portava lo scossone di una rivoluzione. Proprio in quegli anni venivamo travolti anche dalla musica soul, dal rhythm and blues e dagli intensi messaggi di dolore, amore e speranza che i testi di quelle canzoni trasmettevano.

E aspettavamo. Aspettavamo il mondo unito che vagheggiava John Lennon. Poi nell’Ottanta, John Lennon venne ucciso da un folle, mentre i giovani universitari che lo ascoltavano al jukebox di un bar di fronte la facciata principale dell’università, arrivavano al traguardo dei trentanni, quando ormai si smette di sognare e di aspettare. Alla fine non è successo nulla di quello in cui credevamo. Probabilmente ci siamo illusi e ci hanno illuso. Ma forse l’essere stati in trepidante e fiduciosa attesa di qualcosa di importante e di nuovo per l’uomo, e che non è mai accaduto, ci riempiva la vita di tensione e ci dava forti emozioni.

Ai giovani di oggi che ascoltano ovunque flussi interminabili di musica infilati in testa con le cuffie, abbiamo tolto il senso dell’attesa e la capacità di indignarsi, lasciando loro o la noia o la necessità dell’emozioni nello sballo della musica che non si ascolta ma si subisce e dell’alcool che non si beve ma che si ingoia.