Sono poche le artiste che possono vantare la coerenza e l’integrità di Maria Pia De Vito, che ha da poco pubblicato Core Coracao (vvj\jando music), che si candida ad essere uno degli album più ispirati dell’anno, un vero atto d’amore nei confronti della parola e la grande melodia, un amore pariteticamente diviso fra la poesia della natìa lingua napoletana e quella della lingua portoghese, di cui ci ha parlato in esclusiva.

"Sono stata esposta negli ultimi 10 anni in maniera intensiva alla musica brasiliana: il progetto Napoli-Bahia del 2006, l’incontro nel 2007 con Huw Warren con cui abbiamo suonato e registrato brani di Hermeto Pascoal, Chico Buarque e Edu Lobo, intercalandoli a composizioni originali con i testi in napoletano. Poi ho incontrato Guinga nel 2011, e li è avvenuto un "salto quantico”: ho tradotto in una settimana sei dei suoi brani in napoletano. L’esposizione al suo modo stupendo e particolarissimo di comporre e il suo incoraggiamento mi hanno spinto a imboccare questa nuova via, anche perché mi sono ritrovata davanti a testi meravigliosi di Paulo Cesar Pinheiro, Aldir Blanc, Josè Miguel Wiesnik (ordinario di Letteratura all’Università di San Paolo) e... Chico Buarque. Quando ho dovuto pensare a un titolo, mi è stato chiaro che dovevo parlare del fatto che il filo conduttore di questo lavoro, che ha avuto una gestazione di 6 anni, fosse la passione per questi due mondi apparentemente lontani ma uniti da melodia e parola, un amore ben saldo e corrisposto. Ho tradotto Vocè Vocè di Guinga e Chico Buarque, e Olha Maria di Buarque /Jobim/De Moraes. A quel punto sono entrata in contatto con Chico e... lavorare a contatto con la “fonte” è stato irresistibile. Ho cominciato a suonare i tanti brani che amavo e che via via traducevo con Huw, Mirabassi, Taufic, fondando il gruppo Sarau … poi ho deciso di affidare gli arrangiamenti a Roberto Taufic... e il risultato è quello che ascoltate".

Il livello delle composizioni che costituiscono il disco è sempre siderale, quanto è stato comunque difficile procedere a una selezione in cui necessariamente hai dovuto operare delle scelte?

In effetti ho tantissimo materiale già tradotto, e ho vissuto una grande difficoltà nel lasciare fuori tanti brani bellissimi e già pronti. Ho dovuto fare delle scelte sul piano della “densità”, perché in questo lavoro ho voluto onorare innanzitutto la parola e la composizione scritta. I miei lavori sono sempre stati connotati da una forte presenza dell'improvvisazione jazzistica. In Core-coraçao invece il jazz è nella "grana" della musica. Viene fuori naturalmente dal nostro inter-play. È un valore aggiunto che non prende però il sopravvento. È il disco in cui improvviso meno.

Posso immaginare la soddisfazione nel lavorare con Buarque, un nome davvero leggendario, che come tutti i veri grandi si è rivelato umile, divertito e collaborativo…

L’incontro con Chico, così come quello con Guinga, mi ha messo profondamente in subbuglio! In questi 6 anni di scambio epistolare, ragionando insieme sul senso e sul suono delle sue parole, mi sono divertita da matti, mi sono sentita onorata dalla sua amicizia, e sostenuta e confortata dal fatto che lui riuscisse a comprendere nel più piccolo dettaglio il lavoro poetico che stavo facendo. Lui parla perfettamente italiano, ama Murolo: io gli ho inviato le mie traduzioni sempre in napoletano con testo a fronte in italiano. Abbiamo scoperto molte somiglianze tra le due lingue. Gli ho spiegato espressioni idiomatiche, e lui si è divertito molto a impararne un po’. Adesso sa, per esempio, che a Napoli uno dei modi di dire "sono molto occupato" è "sono preso dai turchi": “sto pigliato d’’e turche"! È stato un processo emozionante e divertente. Ogni sua approvazione finale mi ha commosso; devo ammettere, sono scorse parecchie lacrime di gioia. È un tale maestro... come Guinga o Egberto Gismonti, gli altri due musicisti che omaggio nel disco. Il loro impegno con la musica è serissimo, spasmodico. C’è una grandissima disciplina dietro la loro musica.

Quando e come ti sei scoperta cantante? Hai avuto pensieri su altri strumenti?

In realtà la musica è sempre venuta a prendermi! Io pensavo di dipingere, o scrivere. Ma qualcuno veniva sempre a propormi di cantare! A dieci anni mi feci comprare una chitarra, e a 13 chiesi che venisse portato a casa da noi il pianoforte dei nonni, che non c’erano più. Ho preso poche lezioni in entrambi i campi nell’adolescenza, non pensavo di diventare una musicista. La musica era la mia gioia privata.

E invece qual’è stato l’episodio rispetto al quale hai compreso che la musica sarebbe diventata veramente la tua ragione di vita?

In realtà gli episodi sono due. Il primo, credo avessi 8 anni: ho sentito la mia voce amplificata, cantando da solista in una piccola chiesa. E ho provato una stranissima sensazione di… potenza, ho avuto la sensazione che la mia persona potesse essere “ascoltata” attraverso il suono. Ne sono rimasta abbacinata! Più avanti ho capito che non è esattamente così!). La seconda a 19 anni, quando ho capito che volevo cantare ed essere libera da schemi prefissati, e ho scelto il jazz, ho capito che dovevo dedicarvi tutta me stessa, altrimenti non sarei andata da nessuna parte di altrettanto interessante. A quel punto ho cominciato ad affinare con maestri la tecnica vocale, e prevalentemente da autodidatta il jazz, studiando sia il pianoforte che la chitarra.

Che obiettivo ti eri prefissata con la tua voce ai tempi di un lavoro antesignano come Phonè e dove ritieni di essere arrivata oggi, in altre parola come si è evoluta la ricerca del “tuo” di Suono?

Mi piace questa domanda... prima di Phonè c’è stato Nauplia: un lavoro, con Rita Marcotulli, che riportò a galla il suono ancestrale della lingua napoletana nella mia pratica della musica, che al tempo era basata su jazz afroamericano e jazz. Phonè venne come una necessità, in conseguenza di conversazioni con un mio amico filosofo sulla tematica della voce e della Phonè nella filosofia contemporanea. Io, non essendo filosofa ma musicista, ho provato a chiedermi cosa fosse la voce prima del linguaggio, il rapporto tra voce, ritmo e ritornello, come la voce esprimesse affetti ed emozioni in culture diverse. Non so dirti dove sono arrivata oggi, o dove io voglia andare. So solo che le esperienze che faccio in musica mi trasformano, e io mi lascio trasformare. Amo ancora l’elettronica, e la libera improvvisazione, come il rinascimento napoletano o il songwriting di Joni Mitchell. Mi sono quasi sempre consentita di cantare quello che amo, e cerco di essere sincera in quello che canto. Il jazz mi ha insegnato il valore e l’importanza di essere nel presente, “in the moment". La musica per me è il momento in cui il chiacchiericcio mentale si ferma, come nella meditazione. Il palco è un luogo sacro, dove io voglio stare bene, essere in un eterno presente.

Napoli ventre del sud… penso che sia un imprinting definitivo per chi c’è nato… Cosa hai aggiunto tu nel percorso per alcuni versi imprevedibile\sorprendente che hai impresso alla tua carriera?

In qualche modo ti ho risposto prima. Aggiungo che essere nata a Napoli è stata una immensa fortuna. La città “porosa” è sempre stata internazionale, accogliente rispetto al diverso, meticcia come le città di mare, ma con un quid “tellurico" che forse è troppo facile da spiegare con la vicinanza del Vulcano. Le tracce dello spirito e della vitalità della cultura napoletana sono rintracciabili dal 1200 ad oggi. Un progetto che sto ultimando al momento è Moresche ed altre invenzioni, basato su lettura/rilettura delle Moresche di Orlando di Lasso, che si ispirò alle villanelle napoletane ma anche ai canti di schiavi e liberti dell’Africa Nilo Sahariana, che vivevano nelle corti dei Nobili della Napoli del '500. E poi il barocco napoletano, l’opera settecentesca, le canzoni del periodo d’oro di inizio secolo… una miniera. Nella mia adolescenza a Napoli erano attivi Roberto de Simone e la Nuova compagnia di canto popolare, nascevano Napoli centrale e le prime produzioni di Pino Daniele. Forse è proprio in questi esempi da intravedere il perché io mi sia data il permesso di esplorare cose tanto diverse. Lo scat di Ella, My favourite things di Coltrane, i Weather Report e il trio Azimuth li ho conosciuti nel giro di un anno. Mi è piaciuto tutto. Ho studiato tanto, e di gusto. Quando sono diventata più matura mi sono sentita pronta a cantare quello che ho amato e studiato. Non tutte le ciambelle riescono col buco, come si usa dire, ma io ci ho provato.

Fra le tue collaborazioni quali sono quelle che ritieni maggiormente significative oggi ancor di più rispetto a quando si sono verificate?

Ho imparato tanto dai tanti musicisti con cui ho suonato. La vera scuola rimane il palco, lo dico anche agli allievi di conservatorio… è lì che si impara. In qualche decennio di musica ho incontrato tanti musicisti meravigliosi, dimenticherei di sicuro qualcuno. Quindi ti menzionerò le collaborazioni più lunghe, e che sono ancora vive e vivaci: Rita Marcotulli, Enzo Pietropaoli, John Taylor, Ralph Towner, Huw Warren, ma anche gli incontri brevi ma fulminanti con Joe Zawinul, Michael Brecker, Peter Erskine, Mike Gibbs. E l’onda brasiliana con Guinga, Ivan Lins, Chico Buarque. E gli incontri, senza suonare (ancora) una nota insieme, con Egberto Gismonti o Wayne Shorter. Una conversazione con loro vale anni di studio.

Quando sei in studio con un produttore cosa ti aspetti da lui? Intendo fino a dove può arrivare rispetto alle tue idee e la direzione che senti istintivamente di prendere? Anche io per esempio vorrei sapere come è andata con Eicher, notoriamente un tipo che sentenzia piuttosto che mediare…

Devo avere comunanza di intenti col produttore, prima di entrare in studio. Ho lavorato con pochi produttori, ed è sempre andata bene. Anche con Manfred Eicher. Lui è sicuramente un volitivo, ma ascolta davvero tutto allo spasimo e vuole essere coinvolto nel suono in maniera totale. Ma, devo dire, tutte le osservazioni che ha fatto e le scelte che ha caldeggiato nella realizzazione del Pergolese mi hanno trovato d’accordo.
Quindi, esperienza positiva!

Cosa ascolti oggi e qual è elemento che riconosci nella musica degli altri che ti appassiona? Te lo chiedo anche nella tua veste di direttore artistico nella sezione jazz di un festival molto importante come quello di Ravello…

Ascolto musica di ogni genere... da Tigran Hamasian a Kendrick Lamar, da Django Bates a Dave Douglas, Becca Stevens, Sidsel Endresen, continuo a “scoprire" il Brasile... Mi appassiona chi si pone domande, e non si siede sugli allori. Pochi giorni fa, a Ravello, Wayne Shorter ci ha portato una ventata di ispirazione, intuizione e rischio in un concerto splendido con la sua band, avvezza alla “zero Gravity”. Mi appassiona chi sa operare sintesi tra linguaggi, chi non ha paura dell’ignoto. Mi piace chi è quello che suona, e suona quello che è. Anche se si trattasse si mainstream, l’importante per me è l’integrità della proposta musicale. Siamo tutti "sotto il cielo", parlandoti ora da direttrice della Sezione Jazz di Ravello. Abbiamo tanto da fare, in Italia, per riguadagnare alla musica pubblico, giovani e comunità, in un momento di grande difficoltà economica e destabilizzazione su molti piani. Io lavoro per una fondazione pubblica, sento profondo il dovere di fare delle proposte musicali che offrano al pubblico delle esperienze culturali importanti. Non si può disprezzare il favore del pubblico, ma non si può ragionare solo in termini di sbigliettamento. Io cerco, nella mia giovane esperienza in questo senso, di mantenere il timone su questa direzione. E desidero che si faccia sempre di più per avvicinare il pubblico giovane, mostrando esempi virtuosi di modernità, comunicazione e ricerca.

Cosa ti aspetta da qui alla fine dell’anno?

Intanto voglio girare il più possibile con Core Coraçao. Ci aspettano dei concerti in Germania e Italia, e a fine anno la partecipazione a Umbria Jazz Winter. Il 1° ottobre sarà presentato all’Auditorium il mio nuovo lavoro discografico, Moresche ed altre invenzioni il cui protagonista è il Large Vocal Ensamble Burnogualà da me diretto (20 voci, piano, contrabbasso, percussioni, e ospiti). A novembre, inoltre, sarò in tour in Argentina con Rita Marcotulli e Israel Varela.