Ciò che ci rende compiuti e completi come individui si annida nelle radici del nostro albero genealogico. Si può fare lo stesso discorso anche da un punto di vista macroscopico della realtà, guardando all’origine della società e della cultura di un popolo, che definiscono l’identità di una regione geografica. Oggi ci sono situazioni nel mondo che lanciano campanelli d’allarme sull’unità dei Paesi, come l’Ucraina dove è in corso la guerra civile tra ucraini e separatisti, oppure alcune comunità del medio-oriente che non hanno ancora visto il riconoscimento della propria identità di popolo, come i curdi che continuano a opporsi alla tirannia turca e anche il conflitto tra i palestinesi e lo Stato d’Israele. E ancora si possono vedere i popoli africani ma anche medio-orientali lasciare la propria casa per superare il confine e arrivare in Europa.

Su ciò che comportano i confini, bisogna soffermarsi: spesso queste linee di demarcazione richiamano sangue; lo sappiamo bene noi italiani, come d’altronde anche il resto degli europei. I nostri nonni hanno subito la scia del trauma dei loro genitori – che hanno combattuto nella Prima guerra mondiale – e ancor di più hanno vissuto sulla loro pelle il secondo conflitto. Sappiamo bene cosa successe agli italiani che dovettero andarsene dalle terre di confine a nord-est. Prima di tutto furono vittime delle foibe, poi furono cacciati gli operai stalinisti italiani, perché anche se l’Ex-Jugoslavia era comunista, il suo leader Tito voltò le spalle al dittatore russo e perseguitò appunto i devoti del “tiranno rosso”. Spesso si dimentica però di ciò che successe ai triestini quando si addentrarono in Italia, come gli sputi alle stazioni dei treni al loro arrivo. Queste sono le ferite più recenti. Noi dobbiamo ricordarci anche di tutti quei soldati dimenticati nelle due guerre e di tutte quelle tombe mancate.

Tutti questi lunghi episodi di violenza che portano a spostamenti di contingenti, creano una diffusa schizofrenia – dal greco schizo (diviso) e phren (cervello) – nella società, che si ripercuote sulle radici dei popoli e dei singoli individui. Ora bisogna fare uno sforzo d’immedesimazione utilizzando una parola tedesca che rende bene l’idea Weltschmerz – dolore cosmico, utilizzata durante il periodo romantico per indicare la capacità empatica di ascoltare le sofferenze del mondo; attraverso essa possiamo comprendere la sofferenza di queste anime addolorate, la cui individualità è spezzettata da decenni se non secoli, come per gli africani, che hanno visto le loro terre e la loro cultura distrutta e depredata dal colonialismo prima, in cui gli europei divisero l’Africa col righello, poi dall’imperialismo, in cui l’occidente ha messo a capo dei paesi africani i dittatori che più gli facevano comodo.

Se non recuperiamo il dialogo con questi popoli, presto o tardi il mondo intero si destabilizzerà a partire dall’Europa. Questo significa che la globalizzazione sarà un fallimento totale. In sé la globalizzazione non è per forza la rovina del mondo, come molti politici qualunquisti ultimamente professano. John Nash, il matematico premio Nobel, ebbe l’idea della collaborazione applicata alla teoria dei giochi, proprio come mostrato nel film interpretato da Russel Crowe, A Beautiful Mind. Il punto cui voglio arrivare è questo: se l’uomo, e quindi i popoli, uscissero dallo schema delle molteplici identità vissute contemporaneamente, com’è raccontato da Pirandello, con i suoi romanzi e pièce teatrali, in cui mostra le molteplici sfaccettature che un uomo porta quotidianamente per non essere se stesso, o come spiega Nietzsche nella sua filosofia dell’oltreuomo in cui l’individuo supera una soglia per la quale può diventare una moltitudine di personalità diverse e così trascendere il proprio limite umano per diventare Dio, se riuscisse a liberarsi dalla prigione interna, autocostruita a causa della paura, che sistematicamente si aziona in concomitanza della frammentazione della personalità e della cultura, potremmo cominciare a fondare una società non più basata sulla sopraffazione del prossimo ma sulla collaborazione col prossimo. Questo paradigma risolverebbe la psicosi della politica che potrebbe poi guidare con più parsimonia e senso civico l’economia del proprio paese tenendo conto della situazione economica del vicino. Purtroppo bisogna anche riconoscere che a causa della colonizzazione, dell’imperialismo e delle sconsiderate economie di globalizzazione dettate dall’avidità delle multinazionali, tutto ciò ha portato a distruggere le radici dei popoli, i loro usi e costumi. D’altronde già Pasolini gridava allo scandalo della società dei consumi, in cui l’uomo vende la sua anima per un twist – il ballo dei bianchi – come ricorda la famosa pellicola La Ricotta. Or dunque cosa si può fare?

Io credo toccherà a tutti quanti ritrovare dimora come fece ai tempi biblici Noè con la sua Arca. Anche il protagonista siciliano di Rocco e i suoi fratelli, film di Visconti, spiega cosa comporta costruire una “casa”: ti ricordi quando il capomastro comincia a costruire una casa? Getta una pietra sull’ombra del primo che passa: ci vuole un sacrificio perché la casa venga su solida.

Necessario sarebbe sacrificare certi usi e costumi che non collimano con l’individualità dell’essere, Qui e Ora, Hic et Nunc, invece non si fa altro che alimentare la scissione in minuscoli pezzi dell’anima, che ci portiamo dietro dall’antica Grecia, quando a un tratto l’occidente ha deciso di rinnegare gli atomisti, quali Leucippo e Democrito, perseverando nel so di non sapere socratiano e nella separazione tra mente e corpo attuata dalla religione cristiana. Essa rinnegò le teorie atomiste perché furono reinterpretate erroneamente dai romani che sostenevano la tesi secondo la quale l’atomismo fosse una dottrina dedita al piacere e al divertimento, quando in realtà fu l’esatto contrario.

Sarebbe ora di ritrovare la sicurezza propria delle radici della Grecia ionica – cioè delle coste dell’attuale Asia minore. Perché esse sono più vicine alle teorie della fisica moderna, che a sua volta si può sovrapporre alla filosofia orientale, che dichiara non so di sapere, aforisma dello Zen, dottrina e disciplina giapponese. Bisogna sviluppare una consapevolezza empirica che ci permetta di intuire e comprendere – anche se non appieno – che arriviamo tutti quanti dalla stessa terra dove sono cresciuti i nostri genitori. Questa considerazione è più che supportata dalla biologia che è in cerca da sempre del nostro antenato ancestrale, non del solo uomo bensì di tutti gli esseri viventi che sembrerebbe provengano tutti dallo stesso progenitore. Oltretutto si può osservare dagli embrioni dei vari animali, volatili piuttosto che rettili o mammiferi, che sono tutti quanti davvero molto simili.

Perciò, anche gli abitanti della terra hanno una madre e un padre in comune. Stessa cosa vale per le lingue. Fin dal periodo romantico i linguisti – in particolare Schlegel – studiarono i termini comuni delle lingue dei vari angoli della terra, così nacque la disciplina della linguistica comparativa. Forse nella globalità del susseguirsi degli eventi non casuali, l’uomo può ritrovare la coesione della mente e del corpo, per poi ritrovarsi a tavola con i propri cari, di seguito si riunirà con i propri compaesani per poi superare le soglie dei confini nel modo più corretto e pacifico possibile; cioè trovare l’unione con i nostri simili di tutto il mondo. Non bisogna credere però che sia un percorso semplice. Molti “profeti” non sono riusciti ad arrivare fino in fondo alla loro missione, come Martin Luther King, Pier Paolo Pasolini, Ken Saro-Wiwa, Thomas Sankara, Gandhi, Falcone e Borsellino e tanti altri.

Bisogna sperare senza illusioni. Come canta Francesco Gabbani elaboriamo il lutto con un Amen.