Seduta sulla poltrona di velluto rosso, vestita di un abito di taffetà del colore di un glicine fiorito, la bambola di biscuit si mostra in tutta la sua bellezza senza tempo. I grandi occhi profondi e imperturbabili osservano da secoli le creature viventi che si aggirano e mutano attorno a lei in una sorta di danza alla quale di tanto in tanto è stata invitata a partecipare.

Son passati molti anni da quando rimase a lungo adagiata sul meraviglioso letto nuziale coperto di quel pallido rosa che soltanto il raso sa assumere nella sua avvolgente lucentezza. Era stata felice di essere donata alla giovane sposa che ogni sera si prendeva cura di lei: con mani delicate la sollevava per metterla a sedere su quel delizioso canapè, blu come la notte scura, ben appoggiata e protetta da due morbidi cuscini di seta.

Si sentiva amata e serena: la sua bellezza non poteva sfiorire, fermata in quell’eterna giovinezza che avrebbe per sempre ricordato alla sua graziosa “madrina” quei giorni felici e innamorati. Fu alla fine del mese d’Aprile, in un pomeriggio già tiepido, le finestre socchiuse per lasciar entrare una brezza lieve e profumata: “Non saprei dire come accadde; fu un istante di distrazione, un pensiero triste scivolato nel cuore, il caso senza alcuna altra spiegazione, ed ecco che le sue mani che sempre avevo sentito rassicuranti e forti ebbero un piccolo sussulto e inesorabilmente mi ritrovai a terra, spettinata, senza il mio bel cappello con nastri e merletti, il viso contro il pavimento freddo e la sensazione intensa che qualcosa nel mio corpo si fosse rotto irreparabilmente. E fu così, anche se la cura e l’attenzione amorevole che subito mi furono riservate resero meno forte il dolore. Cercai di capire che cosa mi fosse successo, quali sarebbero state le conseguenze di questo inatteso incidente. La sentii dire che non era stato poi così grave: una sottile incrinatura sulla fronte, il filo di una minuscola cicatrice quasi invisibile. Ne fui rassicurata e mi piacque molto l’idea che quella lieve imperfezione che aveva segnato la perfetta bellezza del mio volto sarebbe stata il nostro segreto”.

Questa dolce storia d’antan per accogliere il desiderio di una importante, complessa parola che da tanto mi chiede di aver posto tra le mie predilette: wabi sabi viene dal Giappone, il Paese del Sol levante, come un tempo si usava dire, ma la definizione di “parola” non basta per presentare quello che è piuttosto uno stato dello spirito, una condizione della mente che rimanda all’indicibile e talora invisibile fascino dell’imperfezione.

Ed è con sacro rispetto che mi avvicino e rendo omaggio a questo prezioso termine che racchiude in sé la sapienza dei secoli e trae alimento dall’antico sapere taoista.

Sono due in realtà i vocaboli che entrano a formarne il corpo: wabi e sabi, entrambi evanescenti e difficili a definirsi, entrambi sfuggenti quando si cerca di catturarne un preciso significato, di ricondurli ad una pura forma esteriore, entrambi ispirati all’idea di transitorietà e mutevolezza che attraversa la loro cultura d’origine.

È un insegnamento profondo quello che sottende a questa complessa espressione, è qualcosa che, con passo lieve, va verso territori nei quali la Natura ci insegna grandi verità: niente è perfetto, niente dura per sempre, tutto è impermanente. La bellezza, come ogni cosa, è in continuo divenire, si muove nel silenzio e talora si manifesta là dove fino a quel momento non avevamo avuto occhi per vederla.

Wabi parla del Bello senza ostentazione, l’eleganza fatta di piccoli tocchi, quasi “frugale”, che ritroviamo in manufatti, luoghi e riti della tradizione giapponese. Sono le superfici ruvide e di colore non uniforme delle ceramiche, è la sobrietà con la quale il Maestro prepara il padiglione del the per l’ospite, quasi a dire che ciò che l’occhio distratto percepisce come mancanza è invece pienezza di vuoto in cui potranno trovare posto generosità, rispetto, umiltà, silenzio e ascolto. È il fiore solitario che nell’arte dell’ikebana ci ricorda che ogni creatura ha una sua irripetibile bellezza, che racchiude in sé la ricchezza del suo essere un frammento del Tutto. È una via di accesso alla realtà che si riesce a percorre quando l’attenzione si fa sottile, premurosa e capace di cogliere le sfumature molteplici dell’invisibile: è lo sguardo lieve, tranquillo che va oltre l’apparenza per incontrare il cuore delle cose.

È quando accarezziamo la ruvida corteccia di un ramo caduto, ne percepiamo la memoria di vita e, come per incanto, ci viene donata la possibilità di vedere il Tempo. È lo stare nelle cose con semplicità, senza infingimenti.

È anche il piacere della solitudine a contatto con la Natura, la serena malinconia che ci attraversa nel fuggevole attimo in cui ritroviamo un luogo che abbiamo amato, la semplicità di camminare lungo un torrente e di raccogliere di tanto in tanto un piccolo sasso levigato dal tocco incessante e mutevole dell’acqua.

Ed è la delicata tristezza della vite potata che piange a lungo dopo essere stata separata dal suo ramo.

Sabi contiene un’idea di bellezza imperfetta eppure, proprio per questo, ammaliante e piena di mistero. Una bellezza legata al passare degli anni, la patina che si deposita sugli oggetti e li trasforma. Sabi è la piccola, graziosa cicatrice sul mento di una fanciulla, un tocco sottile impresso sulla pelle vellutata che rende quel volto speciale: frammento di esistenza capace di raccontare una storia a chi vorrà ascoltarne la voce.

Sono le prime rughe che segnano la fronte di un bel volto di donna che ha attraversato la vita. È la macchia sbiadita lasciata sul guanto di pizzo da una goccia di colonia a ricordare l’attesa di un incontro.

È l’incompletezza mirabile di una lettera scritta per ritrovare un amore perduto e mai inviata: un inizio sospeso nell’intensità del non detto, nella indefinita tenerezza di ciò che non si è compiuto eppure tocca l’anima.

È la ferita di rossi chicchi che spacca il perfetto involucro di un frutto del melograno proprio quando il suo compito di meraviglia è giunto al culmine: un labile crinale tra principio e fine che è pienezza di colore e consapevolezza di mutamento.

È l’incantevole asimmetria degli occhi di Afrodite che emerge dal mare in tutta la sua luminosa sensualità.

È il tappeto di soffici petali che una folata di vento primaverile fa cadere dal prugno selvatico e che per un attimo imbiancano il terreno come soffice neve: un istante di stupore ed è già “mancanza” che lascia posto alla trasformazione. “Ombra d’un sogno è la beltà” e vano è ogni nostro tentativo di pietrificarla.

L’occhio trattiene l’immagine e già svanisce e neppure il più sofisticato mezzo fotografico può far rivivere la forza di quell’attimo di perfezione: può soltanto chiuderla in una cornice. E sarà come quando da bambini si metteva un piccolo animale dentro un barattolo di vetro non certo per fargli del male, ma per fermare per sempre la gioia che aveva suscitato in noi.

In natura tutto è transitorio, tutto muta, come il fiore dell’ibisco che nei dipinti di Gauguin sta posato tra i capelli delle ragazze tahitiane: bianco o rosso cremisi è simbolo di fugacità; la farfalla vive un giorno per mostrarsi e danzare; dura un attimo lo splendore che sprigiona la gardenia che non vorremmo lasciar sfiorire.

“Il wabi sabi insegna ad esercitare il distacco dall’idea di perfezione assoluta” e ci ricorda che possiamo riuscire a cogliere la ricchezza del poco, della mancanza di orpelli che appesantiscono la visione, e che niente è perfetto se intendiamo la perfezione come immutabile fissità.

La bellezza non è disgiunta dalla caducità delle cose ed è dunque in silenzioso e dinamico divenire; non può identificarsi con un modello, aderire ad una forma, ad uno schema poiché ognuno di noi è un universo cangiante con una propria armonia ed una propria mirabile unicità.

Solo immergendoci fino in fondo nella realtà della mutevolezza possiamo comprendere come le imperfezioni siano le frasi che raccontano il nostro vissuto e come possano aiutarci a leggere con indulgenza e tenerezza le nostre esistenze, ad amare anche la bellezza triste dei nostri occhi che faticano a vedere lontano, delle nostre mani invecchiate di ricordi.

Sabi è quella lieve devianza dalla perfezione che la cultura occidentale percepisce come il venir meno di una completezza, come difetto: una parola questa assai connotata in senso negativo come è proprio di una visione nella quale la non assoluta rispondenza al modello è considerata sbaglio, colpa, errore, quando non castigo.

Viviamo in un mondo nel quale la perfezione è d’obbligo: ogni sforzo va compiuto, ogni limite va oltrepassato, ogni ostacolo superato per non ritrovarsi “scartati” nella impietosa selezione che sancisce il nostro essere o meno idonei a partecipare alla “fiera delle vanità”.

Non è cercando disperatamente di adeguarci ai canoni che possiamo inseguire il sogno di eterna bellezza bensì disponendo il nostro cuore all’attenzione, all’ascolto, all’osservazione per cogliere le impercettibili sfumature che segnano il nostro corpo proprio come gli oggetti che stanno attorno a noi.

Sono la nostra consapevolezza, la nostra sensibilità che devono continuamente confrontarsi con la necessità di non restare vittime di modelli uniformanti.

Il broccato ha un dritto lucente ma anche un rovescio nel quale tutta la trama è perfettamente visibile anche se la definitezza del colore e del disegno appare elegantemente sbiadita ed è come dire che non è soltanto nell’esteriorità che possiamo scorgere il Bello, che possiamo intuire ciò che sta oltre le cose. Basta scegliere di guardare con purezza di cuore, con amorevolezza.

Rose color lavanda
Fragranza incarnata,
sacerdotale sfumatura d’alba,
spirito che si dischiude
Concediamoci di apprezzare la bellezza mentre il tempo fugge.

(Deng Ming-Dao, Il Tao per un anno, Guanda, 1993)

A cura di Save the Words®