Capita spesso, nella vita degli uomini, di doversi misurare con uno scarto, una distanza - a volte incolmabile, e in quanto tale fatale; tra le proprie ambizioni, i propri desideri, e le possibilità - siano esse oggettive o soggettive - ad esempio. Altre volte, questo scarto attiene alla misura che separa la sostanza vera di qualcuno, e l'immagine che vorrebbe dare di sé.

Talvolta, ciò si può riscontrare nei figli di grandi personaggi, su cui il peso di questo passato familiare grava come un macigno, spingendoli a mostrarsene all'altezza anche laddove non lo siano. Sono, il più delle volte, delle storie umane al cui fondo ristagna l'amaro dell'infelicità, della sconfitta. Ancor peggio è, quando questa distanza riguarda non più un singolo, ma un'intera comunità, una nazione. È - temo - ciò che accade al nostro paese.

Poco tempo addietro, mi sono trovato ad ascoltare Uliano Lucas, famoso fotografo, che nel presentare un suo libro ha ripercorso la storia del fotogiornalismo in Italia. Nel quadro tracciato da Lucas, due erano le costanti che emergevano: una serie di figure di grandissimo rilievo, anche internazionale, che hanno costellato questa storia, e un generale arretramento del paese nel suo complesso, rispetto al resto del mondo. Anche se la riflessione era del tutto incentrata sul fotogiornalismo, m'è sembrata una metafora perfetta dell'Italia nella sua interezza. Davvero una straordinaria fotografia di questo nostro paese. Che, dal momento in cui si è presentato nel consesso delle nazioni (e non a caso, con gran ritardo rispetto al resto d'Europa... ), ha sempre misurato questo scarto tra la propria realtà e quella altrui, tra le proprie ambizioni e le proprie capacità, tra il proprio passato e il proprio presente.

Dall'avventura giolittiana in Libia al fascismo, ad altri più recenti - per quanto fortunatamente assai più modesti - la nostra storia unitaria è punteggiata da tentativi di credersi grandi, al pari di altri, o quanto meno di raccontarsi in tal veste. La verità, nuda e cruda, è che non siamo mai riusciti a recuperare questo gap, e che ogni qual volta ci si è provato lo si è fatto nel modo sbagliato: o illudendosi che si potessero imboccare scorciatoie di vario genere, o semplicemente raccontandosi un'altra realtà, diversa da quella vera, ma più rassicurante - quando non del tutto mistificante. Mai che si prendesse la via diretta: rimboccarsi le maniche, armarsi di tenacia e pazienza, guardare in faccia la realtà.

Forse l'unico momento in cui questo afflato ha realmente percorso il paese, è stato nell'immediato dopoguerra, quando forte era la speranza e la determinazione a ricostruire - ma in modo finalmente diverso. Ma quella stagione durò davvero poco, subito soffocata da una normalizzazione, imposta certo da un contesto internazionale, ma alla quale le classi dirigenti del paese subito si accomodarono in modo più supino che altrove. E forse fu quello, il peggior tradimento dello spirito della Resistenza; non già la mancata realizzazione di una democrazia piena e compiuta, quanto piuttosto la mancata modernizzazione del paese, semmai fossero cose diverse. Che si scelse consapevolmente di mantenere nella sua arretratezza, anche per meglio mantenerne il controllo. Né il processo di emancipazione da questa condizione, che pure prese ineluttabilmente il via negli anni '50, ebbe mai la velocità necessaria a recuperare il ritardo.

Oggi la globalizzazione, con tutto ciò che ha portato con sé (comunicazione istantanea worldwide, proletarizzazione dei viaggi aerei, ecc.), rende più evidente che mai questo scarto atavico. Basta andare qualche giorno in una qualunque città europea, per capirlo. Continuiamo a raccontarci che la nostra economia è tra le prime perché siamo nel G7 (omettendo il fatto che questo è ormai nient'altro che un organismo politico sovranazionale), come se il PIL fosse la misura di tutto. Paragonate Napoli a Barcellona, Roma a Berlino, Milano a Stoccolma. E non sto parlando della bellezza - di cui in larga misura siamo debitori a chi ci ha preceduto; parlo di qualità della vita.

Non solo per ragioni economiche, è ripreso il flusso migratorio verso l'estero. Vanno via i giovani, tanto più se hanno qualità e competenze da spendere nel mondo, e vanno via gli anziani, per assicurarsi una vecchiaia più dignitosa. Londra o le Canarie diventano appetibili perché - persino quando si vive peggio (per il clima, per la lontananza dagli affetti) - si vive in realtà meglio. Così, risultiamo repulsivi per i nostri ragazzi, spesso i migliori (e su cui abbiamo investito risorse, per la loro formazione), e per nulla attrattivi nei confronti di quelli di altri paesi. Persino i migranti che sbarcano a migliaia sulle nostre coste, ci considerano solo una testa di ponte, il necessario punto d'approdo per raggiungere altre mete. Un limbo dal quale sfuggire prima possibile. Anche i poveri e i disperati ci considerano scarto d'Europa.

Seppure la scelta dell'emigrazione è una scelta individuale, che privilegia la ricerca d'una via d'uscita personale, rinunciando alla dimensione collettiva, indubbiamente essa nasce da quel "guardare in faccia la realtà" di cui si diceva. È, quasi sempre, una scelta di rinuncia (anche privata), perché non c'è speranza nel futuro. Perché la realtà è che siamo - e non da oggi - un paese in declino. E la globalizzazione non soltanto lo rende più evidente, poiché è più facile accedere alle opportunità di confronto, ma lo accelera. Perché, come già accadde con la rivoluzione industriale, l'avvento dell'era digitale ha dato impulso a una nuova fase di veloci cambiamenti, rispetto ai quali ancora una volta arranchiamo, ci attardiamo, cerchiamo di agganciarci a qualche carro che vada più veloce, ma non riusciamo ad essere protagonisti del processo.

E qui, si apre l'aggancio alla seconda riflessione di Lucas. L'Italia è stata, storicamente, paese di "santi, poeti e navigatori", insomma di grandi figure. Ma, da un certo momento in poi, non solo sono state sempre meno (e forse, anche meno grandi), ma soprattutto sono diventate sempre più isolate. Un paese in cui lo scarto tra una cultura alta, elitaria, e una cittadinanza incolta, è tra le cause della nostra arretratezza. Perché i grandi brillano di luce splendente, ma restano supernove sperdute nell'universo. Non fecondano, non lasciano dietro di sé che poco più del ricordo della propria grandezza. L'ultimo grande uomo di cultura, se ne è andato poco tempo fa, ed era un uomo d'inizio '900. Ricordava Lucas, che nella Germania di Weimar i giornali vendevano milioni di copie. Perché l'istruzione era obbligatoria sino alle scuole medie. Dunque, banalmente, i tedeschi sapevano leggere. In Italia, la scuola dell'obbligo arriva quarant'anni dopo...

Non c'è uno solo, dei grandi nodi che immobilizzano la società italiana, che sia realmente nell'agenda delle classi dirigenti. Perché affrontarli realmente non è facile, e richiede tempo. E invece esse sono frettolose, vogliono successi immediati, magari effimeri, o finti, ma che siano subito remunerativi; che inseguano ricchezza o consenso, poco cambia. Il declino è un piano inclinato. Comincia lentamente, quasi impercettibile. Ma si autoalimenta, e via via accelera. Se poi, nel contempo, il mondo intero accelera a sua volta, ma in direzione opposta, la percezione di velocità aumenta.

Ciononostante, c'è ancora chi continua a ripetere "tutto bene". E soprattutto, c'è chi vuole sentirselo dire. Ma, come suonano i titolo di coda del film La Haine, il problema non è la caduta. È l'atterraggio.