Dayanita Singh è una delle artiste indiane più apprezzate e tra le fotografe più famose sul piano internazionale. Con le mostre allestite negli ultimi cinque anni presso l'Art Institute di Chicago, la Hayward Gallery di Londra, il Museum Moderne Kunst di Francoforte sul Meno, il Kiran Nadar Museum of Art di New Delhi e la Fundación Mapfre di Madrid, nonché grazie alla presenza a due edizioni consecutive, nel 2011 e nel 2013, della Biennale di Venezia, ha canalizzato l'attenzione del pubblico su un'opera decisamente peculiare, straordinaria da vari punti di vista.

Esordisce nel fotogiornalismo e, in seguito, l'artista sviluppa incessantemente la propria ricerca fotografica. In collaborazione con Steidl, il suo editore, ha creato progetti editoriali molto originali nei quali le fotografie si susseguono con criteri e ritmi narrativi nuovi. Ne è un esempio il libro Privacy nel quale, sorprendentemente, Dayanita Singh ha ritratto l'India dei ricchi e i suoi interni, ha delineato per la prima volta un'India borghese e altoborghese, evidenziando un interesse di natura tanto antropologica quanto archeologica. I progetti e i libri si susseguono. In Sent a letter, Blue Book, Dream Villa e House of Love Dayanita Singh consolida la sua evoluzione, rivelando un’idea sempre più aperta di fotografia. Questo carattere aperto, sempre più performativo della sua fotografia emerge anche nelle mostre più recenti.

L'artista ha elaborato forme espositive molto personali, uno stile assai particolare di presentare le proprie opere: costruisce arredi, carrelli, paraventi o, appunto, ciò che lei chiama i suoi “musei” mobili, portatili, vale a dire strutture che le permettono di conferire alla fotografia sempre e ovunque una fisionomia e una presenza inedita, un significato nuovo. I suoi musei propongono allo sguardo dell'osservatore una sorta di gioco, un universo di immagini a metà strada tra l'archivio e la mostra, la collezione e la scenografia espositiva. Al MAST di Bologna l’artista italiana si presenta con la mostra Museum of Machines fino all’8 gennaio.

Nella Photo Gallery si trovano gruppi di opere incentrate sul lavoro e sulla produzione, sulla vita, la sua gestione quotidiana e la sua archiviazione. Tra le serie esposte spiccano Museum of Machines, Museum of Industrial Kitchen, Office Museum, Museum of Printing Press, Museum of Men e File Museum. Al livello 0 della Photo Gallery la mostra prosegue con Archives e Factories, due proiezioni di immagini di Dayanita Singh dedicate rispettivamente agli archivi e alle fabbriche, e con l’installazione del volume Museum of Chance. L’artista indiana ci spiega la sua mostra.

Cosa sono gli Storyboards che aprono la mostra?

Gli storyboards sono una sorta di omaggio alla fotografia analogica, in particolare alla Hasselblad dove la pellicola si muove in modo diverso alle altre macchine fotografiche. Si tratta di provini a contatto, ma le grandi dimensioni li trasformano in un’opera unica che in questo momento mi piace chiamare Storyboard. Gli storyboards hanno un andamento cinematografico del tutto assente dalla fotografia statica.

E cosa rappresenta Blue Book?

Blue Book è la prima opera in cui ho usato il colore. Prima mi attenevo rigorosamente al bianco e nero. Non mi interessava il colore perché il mio mondo era pieno di colori. In realtà è stato un incidente. Ho finito le pellicole in bianco e nero mentre ero in cima a una torre. E mi sono resa conto con meraviglia che una pellicola per luce diurna utilizzata nei primi dieci minuti dopo il tramonto rende ogni cosa azzurra.

E a proposito di Museum of Machines?

Mi sono ritrovata per caso a fotografare fabbriche. Ero stata incaricata da Fortune Magazine di eseguire un ritratto al proprietario di un’azienda, lui però non aveva tempo da dedicarmi. In modo un po’ paternalistico, mi mandò a visitare le sue fabbriche. E restai sbalordita. Ben presto ho imparato a riconoscere nelle macchine una personalità. Ma a interessarmi non erano solo le macchine nelle fabbriche, mi piacevano anche le macchine per la produzione alimentare, i distributori automatici di cibo, insomma tutto.

I suoi musei si presentano come una sorta di allestimento modulare. Come sono stati concepiti?

Mi interessano le architetture per le fotografie. Non si tratta di arredi, né di paraventi o pannelli divisori; le mie sono sculture. A volte le chiamo foto-architetture, a volte sculture. Conservano immagini, mostrano immagini, ma non sono strutture espositive, né mobili , sono opere in sé.

Perché ha realizzato con solo uomini Museum of Men?

Perché solo uomini? Ho sempre fotografato le donne e per una volta ho voluto concedere una chance anche agli uomini. Gli uomini non sanno come rapportarsi con una donna che li fotografa. Naturalmente come fotografa mentre scatto esercito un certo potere su di loro. E non ci sono abituati. Ma al tempo stesso hanno con me una confidenza che non sviluppano con altri fotografi.