Metà degli anni Cinquanta. Quando la banda era al completo, arrivavamo a dodici; ma già in sette o otto eravamo capaci di sviluppare una tale mole di chiasso e di grida da suscitare le vibratissime proteste dei condomini.

Avevamo tra i sette e i dieci anni, tutti con la passione del pallone, vietatissimo dalle regole che disciplinavano la nostra permanenza nel cortile condominiale. Sul rispetto delle proibizioni vigilava l'odioso custode dello stabile coadiuvato dai soliti casigliani più anziani, arcigni e rompiscatole. Il pallone era responsabile del baccano prodotto da calciatori in erba che difendevano la propria squadra con tenace impegno agonistico e contemporaneo tifo da stadio, accompagnato dal boato dei frequenti goal segnati contro le saracinesche di due box per auto, adottate come porte. In un condominio nel quale il silenzio era sacro, finivano per essere fortemente osteggiati anche tutti gli altri giochi fatalmente chiassosi, come il nascondino, il guardia e ladri, o le guerre tra gli Sioux e il soldati blu. “Basta con queste urla!” strepitavano continuamente dalle finestre. Ma come potevamo evitare d’alzare la voce quando il malcapitato era scoperto nel suo nascondiglio o quando infuriava la giocosa riproduzione giovanile della battaglia di Little Bighorn o di Forte Alamo? Come si poteva morire colpiti da una pallottola del Winchester nemico o da una freccia apache senza lanciare almeno un urlo di dolore?

Le ragazzine se la cavavano con le bambole e il silenzioso gioco a fare la mamma. Per alcuni di noi maschietti, non ancora in età di cotta, non restava che trasferirci al condominio confinante col nostro, violando il divieto dei genitori di allontanarci oltrepassando il limite del cancello. Qui c'era assai più da stare allegri, con spazi più larghi, più tolleranza dei regolamenti e, soprattutto, cospicua presenza di coetanei americani, sempre provvisti di chewing-gum e di cioccolato, dispensatici con la stessa supponente generosità dei loro nonni, alleati e invasori. Ci attiravano moltissimo anche le sontuose automobili dei rispettivi padri con la targa AFSE (Allied Force Southern Europe), che sfoggiavano tutto il lusso sfrenato dei gloriosi liberatori pieni di dollari, che, alla metà degli anni Cinquanta, non si erano rintanati tutti nella loro cittadella fortificata alla periferia della nostra città.

Erano le stesse macchine che vedevamo nei film, esagerate e gigantesche, scintillanti di cromature: larghissime Pontiac con doppi fanali e luci di posizione enormi, massicce Dodge tutte spigoli e linee taglienti, station wagon Buick lunghe come autobus. Per lo più bicolori, sfoggiavano abbinamenti cromatici sgargianti e vivaci, che ci piacevano moltissimo. Che lusso! Che sfarzo! Naso schiacciato sui cristalli dei finestrini, ammiravamo le meraviglie di quegli interni. E che discussioni sui modelli e sulle marche! Il primato della bellezza era assegnato all'unanimità a una Thunderbird decapottabile, quella stessa che qualche anno dopo sarebbe stata resa tristemente famosa dalla tragica fine di Fred Buscaglione.

Rientrati nel nostro cortile, misuravamo con un poco di mestizia, la differenza tra i genitori di quei giovanissimi americani e i nostri, dalla evidente diversità delle rispettive auto. E noi ragazzini esaminavamo con attenzione il livello sociale delle nostre famiglie dal tipo di macchina posseduta – Fiat, Alfa Romeo, Lancia che fosse - pronti a litigare e a darcela di santa ragione quando il giudizio coinvolgeva uno dei nostri genitori, compresi quelli che non possedevano l’auto, verso i quali le giovanili sentenze erano implacabili. Poi, quasi improvvisamente, il segnale di nuova uguaglianza e nuova democrazia coinvolse il cortile, con l’aumento delle macchine e con il via ai sanguinari contrasti per la gestione del posto di parcheggio: arrivò la Fiat 600. Esordita con successo al Salone di Ginevra nel marzo del 1955, cominciò a diffondersi nella nostra città ai primi del ‘56. Piccola e resistente, con il rivoluzionario motore posteriore, era all’esterno più contenuta, ma all’interno, più spaziosa della Topolino che veniva a soppiantare.

Il 31 maggio del 1955 prese il via un raid di due Seicento da Calcutta a Roma; arrivarono a destinazione dopo un percorso di tredicimila chilometri e mezzo in 11 giorni, alla velocità media di 48 chilometri orari anche con clima avverso e per strade non sempre agevolissime. Un cinegiornale della Settimana Incom comunicò la notizia con toni trionfalistici. Il successo della nuova automobile si annunciò subito sicuro e duraturo. Il prezzo di lancio di 590 mila lire fu reso accessibilissimo dalle cambiali. Bianco, azzurro pallido, verde acqua, grigio erano i colori dei primi esemplari, assai più miti e pacifici di quelli delle macchinone americane posteggiate nel condominio vicino.

Era una macchinetta che sembrava sancire l’uguaglianza di tutti; ma c’era la possibilità di personalizzarla con piccolissimi accessori, con trovate fantasiose di piccolo arredamento dell’abitacolo e soprattutto con minuti magneti, non diversi da quelli che oggi attacchiamo ai frigoriferi. Eravamo molto religiosi e devoti, per cui i magneti più diffusi erano dedicati ai nostri protettori per vigilare sulla sicurezza dei viaggi e, con un pizzico di superstizione, sul rischio del furto: a cominciare dal più diffuso, il San Cristoforo, protettore degli automobilisti, seguito a ruota dalle immagini della Madonna. Ma non mancavano piccoli portafotografie con stampigliature dorate di motti invitanti alla prudenza, del tipo “non correre” o “sii prudente”, al fianco delle quali occhieggiavano, dalle foto, i familiari del guidatore.

L’enorme diffusione della Seicento, smorzò le discussioni della nostra piccola commissione giudicatrice del censo dei casigliani; ormai quasi tutti potevano possedere l’auto e, i componenti della banda, cominciando a crescere, finirono per indirizzare gli interessi, dal pallone e dalle automobili, alle ragazzine. E crescemmo quasi parallelamente alle evoluzioni della Seicento arrivando alla metà degli anni Sessanta, noi coi diciotto anni in età da patente, e lei, la Seicento, con i suoi dodici anni di vita, alla rivoluzione delle portiere controvento. Ma noi, ormai giovanotti irrequieti ci innamorammo subito della piccolissima e divertente 500, pensando alla Seicento, come compassato e spartano mezzo di trasporto dei nostri genitori, ritenuti allora sempre un po’ matusa.

Della Seicento, se mai, continuarono ad attirarci le elaborazioni della Abarth: piccole belve di aggressività, con carrozzerie allargate e abbassate, minacciose marmitte a due canne, spettacolari volanti da gran turismo. Della sportività avevano più e oltre che la velocità, il ruggito del motore e il fragore degli scappamenti, tormento, quando entravano nel cortile, dei soliti casigliani fastidiosi e insofferenti. La Seicento, prodigio tecnologico della metà degli anni Cinquanta è stata la macchina che ha consentito a tutti di possedere una macchina, quando, con quello che sembrava, e forse era, il miracolo economico, nutrivamo tante speranze: speranze che ci tornano alla mente con un pizzico di malinconia quando rivediamo in televisione nei vecchi film in bianco e nero, la nostra gloriosa Seicento.