In una piovosa sera di ottobre si trovano insieme tre amici, un Napoletano, un Friulano e un Veneto trapiantato in Toscana. Così potrebbe esordire una delle tante barzellette che ironizzano sui diversi modi di vedere la vita in Italia, che terminano per lo più con la battuta di spirito del napoletano, che del terzetto è sempre il più ignorante, il più affamato e proprio per questo il più estroso e imprevedibile.

Così, invece, comincia una storia vera: un fatto realmente accaduto, che, tuttavia, se non della barzelletta, almeno del paradosso sembra avere tutte le caratteristiche. I tre amici parlano dialetti diversi, ma si capiscono perché sono accomunati da un inattuale amore per il libro e, questa sera, anche dall'appetito. È stata per tutti e tre una giornata faticosa, di quelle che sconvolgono gli abituali orari quotidiani, compresi quelli dell'alimentazione.

Uno è arrivato da Napoli, con un'alzataccia in ora antelucana e un viaggio di sei ore in treno, estenuanti e interminabili, nonostante tutte le comodità che una moderna freccia ferroviaria offre. L'altro è arrivato dopo un lungo viaggio in treno da Udine. Il terzo del gruppo è arrivato in macchina da Arezzo. Sono convenuti a Torino – questo il teatro del fatto- per presentare un libro importante nella sede di un circolo importante. La presentazione è iniziata alle nove di sera e si è protratta fino alle ventidue e trenta. I tre amici, per la congiura degli orari, hanno saltato il pranzo e sono, per usare un avverbio oggi di moda, diversamente affamati. Come se non bastasse, piove; niente di catastrofico, intendiamoci, ma quanto basta a far venire un fastidioso raffreddore.

Il più difeso dal freddo è naturalmente il napoletano, che, fedele alla tradizione meridionalistica sancita da un celebre film di Totò e Peppino De Filippo, si è attrezzato come se dovesse affrontare il freddo di Stoccolma. Nessuno dei tre ha pensato a portare l’ombrello, lasciato in albergo. E dire che il napoletano appena arrivato a Torino ne ha comprato uno in un composto negozio un po' vintage, pagandolo a un prezzo al quale ne avrebbe potuto avere un'intera collezione da un extracomunitario, che in zona ferrovia non ha trovato. Il friulano, con l'aria di chi sa tutto in fatto di alimentazione, li guida a un ristorante che ha già adocchiato. Eccolo! Tutto illuminato e accogliente, come s’intravede dall'esterno; ma la porta di cristallo non si apre. Che sciocchi sono stati! C'è un campanello al quale bussare; qui sono tutti educati e gentili. E poi, di questi tempi, con tanta brutta gente in giro bisogna stare attenti; anche se - sarà un caso di questa sera - gente in giro, brutta o bella che sia, non se ne vede. Bussano pieni di speranza di poter tacitare i morsi che di quella che, da appetito che era, è diventata fame da lupo; un cartello annuncia che il locale è aperto fino alle ventitré e trenta. Grazie a Dio c’è ancora un'ora a disposizione, ai tre amici per mangiare e al ristorante per sfamarli. Del resto non sono mangiatori di grandi pretese, uno di loro è pure un vegano.

Apre la porta una gentile e graziosa signora, giusto per lo spazio necessario a infilare il naso, come si fa quando a casa arrivano il rappresentate di commercio che vuole vendere una batteria di ottanta pentole, l'agente dell'enciclopedia degli animali che tenta di piazzare un'opera di trenta volumi o il testimone di Geova in cerca di persone da convertire. In questa posizione difensiva dice che no, non si può mangiare, perché alle dieci hanno spento le cucine. “Come - viene da obiettare ai tre amici all’unisono - e perché, se state aperti fino alle ventitré e trenta, spegnete le cucine alle ventidue?” La signora, ignora la domanda e si mostra irremovibile; non è indotta alla pietà dalle loro facce visibilmente sofferenti per fame e dalle teste bagnate. Fanno presente che basterebbe anche solo un'insalata, che al vegano andrebbe benissimo, o una fetta di pane con una pummarola, che farebbe sentire il napoletano come un re, o un pezzo di formaggio e un'ombra di vino, che al friulano andrebbero a fagiolo. No, niente da fare, non è ora e non danno da mangiare.

Il napoletano accenna a una sceneggiata strappalacrime, piena di mamme e di figli denutriti, che però non fa breccia nel cuore della signora; e a nulla serve una sua successiva e accorata tirata sul turismo, sull'ospitalità di una città elegante e educata come Torino. Il friulano, pratico e sbrigativo, suggerisce di andare a cercare un altro posto. E continua a piovere! La città appare deserta. Il napoletano, abituato a una città affollata e caotica a tutte le ore e in ogni suo angolo, si dice stupito per non aver visto in giro nemmeno un ragazzo. Gli altri due del terzetto spiegano che i giovani sono da un'altra parte. Non tutto, però, sembra perduto. Trovano, non distante dal ristorante che li ha respinti, un altro posto, dove - evviva! - si vedono persone che mangiano. Li fanno perfino entrare. Ma nemmeno qui si può magiare. Le cucine chiuse? No! Spiegano due graziose signorine, che è un fatto burocratico. Burocratico? Che mai significa? A questo punto, il napoletano, inviperito, si sfoga, lanciando alle giovani un'offesa sanguinaria. Punta severo lo sguardo verso le ragazze, peraltro carine, e tuona: “Sembrate impiegate dello Stato!” e aggiunge “ Non mi aspettavo che Torino fosse così inospitale”. E vorrebbe puntualizzare che era pieno di falsità il giochino di parole che usavano da bambini per fare la conta a nascondino: “Torino, Torino è una bella città, si mangia, si beve, l'amore si fa!”.

Si accorge, però, che l'accusa lanciata ha colpito nel segno. Si sono offese. I tre amici più rassegnati che indignati se ne vanno; il vegano dicendo che una notte di digiuno in fondo è un atto di disciplina igienica, il friulano mormorando rassegnato che lo attende una notte tremenda ripetendo qualcosa di simile al “chi va a letto senza cena, tutta notte si dimena”, il napoletano borbottando in dialetto incomprensibili considerazioni su settentrione e meridione, su l'Unità d'Italia, sui Savoia e su Garibaldi. Ma una delle due negatrici del pasto ha un moto d’improvvisa resipiscenza, esce dalla bottega e li chiama; se non può proprio dar loro da mangiare, può aiutarli a frenare l’evidente disperazione alimentare. Telefona a un ristorante che sa essere aperto nientemeno che fino alla tre di notte, e li raccomanda. È fatta! Un tassista di questa Torino bella, ma un po' triste e deserta, spiega che stasera non c'è teatro e che i giovani, la storia è sempre la stessa, sono da un'altra parte. Alla fine i tre riescono a mangiare! Niente di eccezionale s’intende, ma la pancia è tranquillizzata.

Si domandano i tre amici mentre aspettano il taxi di ritorno all'albergo perché mai una città così elegante e sontuosa, che organizza a maggio il Salone del libro e ha due squadre di calcio importanti, appaia, alla fine, così inospitale. Si vede, commenta il friulano, che economicamente non se la passano tanto male, altrimenti non avrebbero mai respinto tre affamati avventori in una notte di pioggia. “Figuriamoci – riflette ad alta voce il napoletano - se a Napoli, un ristoratore respinge dei ritardatari”. “Si capisce - ribatte il friulano - con la fame storica che avete a Napoli!” La solita solfa su Napoli e i napoletani, vorrebbe replicare con sdegno il partenopeo; ma non lo fa e riconosce che il friulano in fondo ha ragione.

A pensarci, l'ospitalità, ci hanno insegnato a scuola quando ci facevano studiare la mitologia greca, non è di chi sta sazio e a piedi caldi, come recitava una canzonetta degli anni Cinquanta che inneggiava scherzosamente ai soldi, ma di chi ha a stento quello che gli basta. E ci raccontarono il mito di Filemone e Bauci. In breve: Zeus, nella sua sconfinata saggezza, ha stabilito che deve annegare tutti gli uomini in un diluvio universale, perché tra i peccati di cui essi si sono macchiati, c'è quello gravissimo di aver perso il senso dell'ospitalità. Decide, però, di andare con Ermes sulla terra per vedere se c'è qualcuno da salvare. E capitano nella capanna di Filemone e Bauci, che sono innamoratissimi e poverissimi. I due ricevono gli sconosciuti (gli dei greci hanno sempre avuto questa mania di scendere in terra sotto mentite spoglie con lo scopo di fregare i poveri mortali) e mettono loro a disposizione tutto quello che hanno, disponibili perfino a uccidere per loro l'oca che è l'unica ricchezza di cui dispongono. Ai due, risparmiati dal diluvio, per il loro senso di ospitalità, Zeus, rivelata la sua identità, domanda quale ricompensa chiedono. Di poter morire insieme, è la loro risposta. Saranno accontentati, trasformati in due alberi, alloro e tiglio, che resteranno sempre abbracciati.

Un altro esempio? La vecchia nutrice di Ulisse, un'altra poveraccia che vive di stenti, accoglie uno sconosciuto buttato sulle spiagge di Itaca dal mare, peraltro sporco e malandato, e, addirittura, per dovere di ospitalità gli lava i piedi, riconoscendo - ricordate? - la famosa cicatrice sulla gamba del suo Ulisse. Quando, dunque, studiavamo da ragazzini la mitologia antica e i poeti greci e latini, ci venne questa convinzione, che l'ospitalità non albergasse tra chi vive nel benessere, ma tra chi si dibatte nell'indigenza o tra chi ha raggiunto il suo benestare, ma non ha dimenticato l'indigenza vissuta. Forse era solo una fissazione di giovani condizionati da quella che chiamavano educazione umanistica. Della quale oggi non se ne frega più nessuno.