Il cielo era del colore della notte, interrotta solo da due torce che rischiaravano la piazza della platea magna. In sella al suo stallone bianco, Antonio, sembrava un’apparizione. Ai fianchi i due ferali mastini si confondevano con la notte. Quando Ugo fece un cenno, tutti gli uomini si mossero all’unisono e in silenzio. Solo lo scalpiccio degli zoccoli sul selciato indicava il loro passaggio nell’ora più buia della notte, quella che precede l’alba. Il gruppo di cavalieri percorse la via principale della cittadina, dalla Platea Magna fino alla via che portava alla collina di Montevergine e arrivò fino alla Porta Stesicorea. Poi, Ugo diede ordine a una guardia assonnata di aprire la porta della città e il gruppo proseguì alla volta di Palermo per via di terra.

I cavalli andavano al piccolo trotto per la maggior parte del tempo e si facevano tre soste in corrispondenza dei pasti. Brevi e solitari di giorno erano tutt’altra cosa di notte. Ci si fermava presso fattorie o conventi, si accendevano i fuochi e si cantava in compagnia, mentre a turno si raccontavano fatti veri o inventati. Una delle guardie mussulmane di nome Ibrahim, quella che aveva la cicatrice che gli attraversava la faccia, quando si accampavano alla sera, era solita condividere uno strano oggetto in vetro e metallo che gli uomini usavano per fumare. L’oggetto dalla forma allungata, che chiamavano narghilè, era costituito da una serie di ampolle sovrapposte, con delle pipe che si collegavano alla parte alta della struttura. Il narghilè veniva riempito con acqua e alla fine si inseriva del tabacco in una ciotolina posta in cima alle ampolle e lo si accendeva. La particolarità di quest’oggetto consisteva nel fatto di dover condividere una o più pipe (con le quali si muoveva l’acqua nelle ampolle) con altre persone. Dopo aver fumato a piacimento occorreva passarle al compagno posto alla propria destra. Durante la strada che percorse da Catania a Palermo, Ugo, ebbe modo di provare diverse essenze di tabacco. Fra le altre ebbe modo di fumare del tabacco aromatizzato con l’essenza di rose, che gli piacque molto.

Si diressero nel cuore della Sicilia, verso la marca dei saraceni. Attraversarono torrenti, zone paludose, selve e pianure. Combatterono continue scaramucce, dove Antonio si distinse per coraggio e valore. All’inizio subirono alcuni attacchi da parte di briganti cristiani e saraceni. Poi, quando i tagliagole si resero conto di aver a che fare con guerrieri esperti, si diedero a una fuga precipitosa. Man mano che procedevano verso il centro dell’isola non furono più disturbati da alcuno e il resto del viaggio proseguì tranquillamente. Il paesaggio, progressivamente, da pianeggiante si fece collinare. Fino a quando, penetrando in profondità nel territorio, non scorsero più il mare. Adesso il sole si era fatto più caldo e la vegetazione era più rada. Effettuarono diverse soste, ma spesso si fermavano solo per fare rifornimento di cibo per sé e per gli animali. L’unica città che incontrarono e in cui sostarono per alcuni giorni fu Castrogiovanni. Situata al centro dell’isola sopra un monte che dominava le colline circostanti, la città era ben fortificata e aveva per questo meritato il nome di Urbs inexpugnabilis, come ebbe modo di ricordare Ugo, aggiungendo anche che fu infatti l’ultima a essere strappata dalle mani dei Normanni da Enrico VI. Il cavaliere di Troina, vantandosi della sua conoscenza del latino, tradusse quindi la frase con: "città inespugnabile". Passarono quindi per la porta di Janniscuru ed entrarono nella città. Alla fine dopo ulteriori marce, giunsero a un imponente castello nominato dalla popolazione “castello dei lombardi”.

Finalmente attraversarono le mura esterne della fortificazione e furono guidati dai soldati di stanza al castello, verso le camerate a loro adibite. I cavalli, invece, furono portati nelle stalle dai servi accorsi per aiutarli. I soldati di Federico senza porre tempo in mezzo, trovati dei tavolacci, si disposero a dormire senza neanche mangiare o togliersi di dosso la polvere del viaggio. Invero questa prima parte era stata veramente faticosa. Allo stesso modo Antonio si stava accingendo a sdraiarsi su un tavolaccio libero che aveva trovato, quando Ugo lo chiamò.
«Potresti venire con me Antonio?»
«Uhmm… sicuro Ugo tanto non avevo sonno», disse abbozzando un sorriso subito corrisposto dal suo commilitone.

Mentre salivano sugli spalti e raggiungevano una posizione lontana da orecchie indiscrete, nessuno parlò. Fino a quando trovandosi a osservare il meraviglioso panorama a est, Ugo ruppe il silenzio e disse: «Sai perché ti ho chiesto di venire con me adesso?».
«In effetti no!», rispose semplicemente Antonio.
«Ebbene è presto detto. In questi giorni ti ho osservato e ho avuto modo di vedere che il tuo coraggio e la tua allegria ti hanno conquistato un posto fra gli uomini che comando. Sei molto giovane, è vero. E anche un po’ avventato. Ma il tuo cuore è buono e il tuo braccio è forte. Ho avuto modo di parlare a lungo di te con il mio amico Gerardo, e inoltre c’è l’insignificante particolare dell’agguato giù a Catania…».
«Questione di fortuna!», soggiunse Antonio.
«… Non interrompermi (al ché Antonio si mise sull’attenti per celia), quindi ho deciso. Salvo la ratifica di Federico, ti nomino membro della guardia del Re!», e accompagnò le parole con uno schiaffo sonoro sul viso di Antonio che lo fece rintronare e per poco non gli fece perdere l’equilibrio.

Riavutosi dalla sorpresa iniziale, Antonio non proferì motto. Era quello che aveva sperato fin da quando aveva sentito parlare del famoso Ugo di Troina. Antonio non finiva di sorridere e il cuore gli si gonfiava nel petto, ma non disse nulla. Si limitò soltanto a osservare più attentamente Ugo, che nel frattempo aveva ricominciato a parlare.
«Bene! E adesso che tutto è fatto posso dirti del motivo della mia venuta a Catania, senza contravvenire alla consegna del silenzio che ho fatto al nostro Re. D’altra parte ne sto parlando con un commilitone adesso! Devi sapere che il sultano di Damasco, che ha donato al nostro sovrano uno dei suoi più preziosi tesori – sia detto questo a titolo di cronaca che Federico ama più la scienza che non l’oro - , un planetario d’argento, è molto malato. Pare che in tutto il mediterraneo esista un solo medico che possa aiutarlo. Indovina chi è costui?»
«Gerardo!»
«Indovinato!», ribatté Ugo.
«Questo è il motivo per cui mi sono recato a Catania con parte della guardia di Federico stesso, che mi ha raccomandato la massima prudenza e segretezza possibile. In realtà mi trovavo nei pressi della chiesa di Santa Maria delle Grotte, da solo e all’imbrunire perché non volevo che nessuno mi vedesse e tantomeno sapesse cosa vi ero andato a fare. Padre Giovanni, in effetti, mi diede qualcos’altro che doveva essere assolutamente consegnato al sultano. Ma ne parleremo un’altra volta. Adesso riposati e mangia perché tra un paio di giorni si riparte alla volta di Palermo. Dovremo essere veloci e non potremo permetterci di fare più soste così lunghe».

Detto questo Ugo si allontanò per i camminamenti della ronda, lasciando il compagno immerso nei suoi pensieri. Antonio dal canto suo rimase a guardare lo splendido panorama che si poteva godere dal castello. L’azzurra montagna di fuoco dell’Etna, tanto cara ai suoi ricordi, si stagliava limpida in lontananza e gli ricordava la sua amata Catania, lasciata da poco. Non sapeva se vi avrebbe fatto ritorno. Insieme alla nostalgia per la sua patria un vivo dolore, questa volta, gli ricordava che aveva lasciato a Catania qualcosa di più caro della patria: quella che un giorno sarebbe diventata sua moglie! Ne era certo, era solo questione di tempo ma sarebbe tornato per reclamarla e avrebbe dimostrato a tutti che ne era degno. Per adesso era contento. No! Era felice! Adesso era parte della guardia del Re e avrebbe potuto conoscere il sovrano e vivere meravigliose avventure al suo seguito.

Con questi pensieri si accinse a scendere le lunghe scalinate che portavano alle mura esterne del castello. Non aveva più sonno ormai. La stanchezza delle membra aveva lasciato il posto a una eccitazione tale che non gli permetteva di fermarsi un attimo. Aveva voglia di gridare, di correre di dire a tutti che faceva parte della guardia reale. Ma rattenendosi uscì tosto con Alessandro, un commilitone che era anche lui sveglio e fu felice di andare in giro per la città con Antonio. Dopo soli due giorni da che erano arrivati ripartirono alla volta della capitale del regno. Questa volta non facevano che due soste al giorno e poi riprendevano a galoppare. Quando i cavalli erano stanchi gli uomini smontavano e li portavano per la briglia, senza permettersi di riposare oltre.

Continua il 13 Giugno...