“Ho paura di cadere, di perdere le forze, ho il cuore che scoppia … mi sento morire!” oppure “Sono tutto sudato, tremo dentro e fuori, non sento più le gambe, stanno cedendo … non posso uscire, non ce la faccio...” o anche “Mi manca l'aria, non respiro più, torniamo a casa, ho paura di svenire … vedo male, mi sento strana...” o “Sto troppo male, stammi vicino, non posso stare sola, se poi muoio?”. Queste sono tra le più ricorrenti, tragiche implorazioni che sibilano con terrore le persone afflitte da attacchi di panico.

La sindrome da attacchi di panico è una sofferenza ormai diffusissima nella nostra società frenetica: basti pensare che ne soffrono fino a una persona su 25 e un uomo ogni due donne; la loro comparsa avviene soprattutto in adolescenza e nella fascia d'età compresa tra i 25 e i 35 anni e si manifesta per lo più nelle persone che vivono in grandi città. Oltre tutto, è una patologia piuttosto giovane, che pone tuttora interrogativi e sollecitazioni agli psicologi e agli psichiatri che si stanno confrontando con la sua dinamica, le sue manifestazioni e le modalità per domarla, sì, per domarla, come se fosse una bestia feroce sempre in agguato che, quando meno ce lo si aspetti, si avventa, attanaglia e fa a brandelli la sua preda.

Ma che cosa sono, in realtà, gli attacchi di panico? Un’adolescente li racconta così: “Non riesco a stare nei luoghi affollati perché se non sento il mio respiro si scatena il panico”. Forse allora si può “semplicemente” dire che gli attacchi di panico sono il guardare in faccia la paura. Paura di morire, paura di impazzire, paura di avere paura. Le parole delle persone in preda ai sintomi del panico, come abbiamo visto, sono eloquenti in tal senso. I sintomi più comuni sono vertigini, mancamenti, tachicardia, sudorazioni, tremiti, senso di soffocamento, blocco allo stomaco, contrazioni viscerali, disturbi alla vescica, paura di perdere il controllo, tutti questi patimenti estremi sono accompagnati dall’urgente e indomabile bisogno di scappare, di aggrapparsi a qualcuno, di trovare un posto sicuro con la speranza di mettersi in salvo e di poter sopravvivere.

Gli attacchi si manifestano all'improvviso, apparentemente senza nessun motivo, e per la loro dirompenza e la loro forza, paralizzano l'individuo che, improvvisamente, può solo focalizzarsi sul suo star male per cercare di controllarlo e di non soccombere; di conseguenza si estranea dalla realtà alla quale solo apparentemente sembra partecipare, ma in verità è completamente ingaggiato, nel suo mondo interno, in un'estenuante lotta di vita o di morte con la bestia devastatrice. Anche se si trova in mezzo ad altre persone, è separato dall'esterno da una specie di vetro trasparente su cui cola il gelido sudore del terrore, non vede nessuno, non ascolta nulla, non gli arrivano gli affetti e il calore dell'ambiente, ma è disperatamente solo alle prese con l'angoscia senza nome che lo invade e lo manda in mille pezzi.

Tra l'altro, la paura richiama paura, infatti insorge anche la paura della ripetizione dei sintomi e allora deve escogitare modi per sfuggire a tale nefasta evenienza, per esempio evitando scrupolosamente i luoghi e le situazioni in cui gli è capitato di star male in precedenza come se fossero maledetti, attribuendo perciò a quel posto o a quella circostanza la responsabilità del malessere. Senza rendersene conto, mette così in atto un pensiero magico che ricorda quello dei bambini piccoli che, quando nei loro primi passi sbattono la testina contro il tavolo, lo picchiano, lo sgridano: “brutto tavolo, cattivo”, ritenendolo colpevole del loro incidente di percorso. Questa analogia di pensiero, allora, può essere un indizio per riflettere sul perché si verifica e da dove origina l'attacco di panico. Forse è proprio lì, nell'infanzia e nel pensiero infantile, quando il bambino si sente solo e spaventato e insufficientemente contenuto dai familiari, che il mostro-panico comincia a svilupparsi e a nutrirsi per poi ricomparire all'improvviso anni dopo, magari in un momento di debolezza emotiva della persona, inconsciamente costretta a regredire fino agli albori della sua vita.

Le situazioni che inducono questa fragilità psichica riguardano, in genere, i periodi di cambiamento perché comportano inevitabilmente stress e ansia: i passaggi di età, come per esempio l'adolescenza, la fine degli studi, il matrimonio, il primo figlio, il cambiamento di lavoro, un lutto e così via. Il disturbo di panico, dunque, affonda spesso le sue radici in un'infanzia non sufficientemente accompagnata emotivamente e/o in una insufficiente capacità personale di tollerare i dolori mentali, ma in alcuni casi l'origine potrebbe essere un trauma psicologico o fisico, come un abbandono o uno stupro, molestie, oppure incidenti, aggressioni: tutte situazioni che scatenano terrore e rabbia e che non trovano un contenitore adeguato per essere accolte e trasformate.

L'attacco di panico dà sensazioni tremende anche se non porta realmente alla morte come temuto, ma nonostante le rassicurazioni avute in tal senso, la persona che ne è vittima è completamente sprofondata nella paura e soffre atrocemente. Il fatto è che non può più controllare il suo corpo che si disorganizza, gli sfugge, ha la sensazione che gli muoia tra le mani; tra l'altro è un male indicibile, sia perché non ci sono davvero “le parole per dirlo”- e chi non ha mai sofferto di attacchi di panico, non potrà mai veramente capire di che cosa si tratta -, sia perché c'è la vergogna di svelarlo, di farlo sapere agli altri, come se questo “male oscuro” fosse una colpa, una debolezza, un qualcosa da nascondere.

Se non ci sono seri pericoli per la salute, perché tanta paura? Se non si attuano comportamenti riprovevoli, perché vergognarsene? Paura di cosa? Vergogna di cosa? Allora di che tipo di sofferenza si tratta? Forse possiamo dire che si soffre dei propri pensieri “selvatici”, di quei pensieri cioè che non si conoscono e che non si sospetta neppure di pensare ma che vagolano e infestano inesorabili il mondo interno, si soffre delle proprie emozioni mai riconosciute, delle proprie fantasie inconsce inaccettabili e quando la mente è popolata da questi contenuti mai pensati, essi si manifestano in sensazioni corporee estremamente forti e concrete che colonizzano la persona fino a paralizzarla dalla paura. È una situazione emotiva che ricorda per intensità e pregnanza quella dell'infante solo nella sua cameretta, terrorizzato dalle ombre che formicolano nel buio, che è annientato dal terrore senza nome che lo può divorare se non arriva qualcuno ad accendere la luce, a fargli compagnia e a tranquillizzarlo.

È proprio il non poter riconoscere i fantasmi della mente che scatena l'attacco, è il permanere nel buio della non conoscenza che fa sì che i sentimenti inquietanti che popolano la psiche, si insedino nel corpo sotto forma di sintomi somatici annientanti. In pratica, il dolore mentale intollerabile, può essere percepito come un male fisico devastante. Allora la paura che tinge di buio gli attacchi di panico, possiamo anche pensarla come paura dei propri pensieri, dei propri sentimenti, delle proprie emozioni non riconosciuti. E c’è bisogno di un altro, dell’essere in due per poter dar loro ospitalità, in modo da riconoscerli, nominarli, tollerarli e metabolizzarli; se sono contenuti significa che hanno un limite e non possono essere così onnipotenti e dannosi.

La mente umana è dialogica e, alle origini, si accende solo nella relazione, dove la danza continua del guardare ed essere guardati, dell’accogliere ed essere accolti, del riconoscere ed essere riconosciuti permette di creare immagini, di sognare, di pensare per dare forma all’impensabile, dotandolo così di senso e di storia, rendendolo dunque accessibile alla mente in quanto presenza connotabile e, dunque, non spaventosa e indifferenziata come se fosse un fantasma, ma tollerabile perché bonificata dall’esperienza sublime della dualità.