Quello che porta alla creazione della parola è un processo lungo, accidentato, denso di fratture, di lacerazioni e di ricuciture, spesso lento, impercettibile e proprio per questo difficile, talora incomprensibile, fatto di entusiasmi e di malinconia, di attimi drammatici e di gioie improvvise e dirompenti, di silenzi e di ascolto, di attese e di slanci, di visioni e di fantasmi, di immaginazione e di rimandi apparentemente senza legame alcuno, di associazioni di pensieri, di giustapposizioni di suoni, di segni, di percezioni, di viaggi con o senza ritorno, di prigionie e di evasioni, di lacrime e di sorrisi guardati soltanto allo specchio, di animalità e di raffinatezza, di falsità e di verità, di concessioni e di rigorosi dinieghi, di ammissioni e di rifiuti, di percosse e di carezze, di tenerezza e di violenza, di follia e di lucida coerenza, di piccole sfumature e di forti colori, di morte e di rinascita, un processo che non ha fine come non ha fine il respiro, il soffio che dà nutrimento e crea la trama sonora sulla quale la voce tesse le forme della parola, un processo che contiene il mistero della vita.

Per questo il tessuto della scrittura ha a che fare con la fatica della nascita, con la pazienza che ne accompagna l’attesa, con la capacità di percepire i segni che ne sono preludio: parole come semi che devono essere accolti, deposti, ascoltati crescere fino a transumanarsi in emozioni che alimentano e sono alimentate dalle vibrazioni dell’anima. Nella tradizione indù la Parola assume le sembianze di Vac, la sposa di Brahma ed è Lei che si fa portatrice del doppio nutrimento, quello corporeo e quello che passa attraverso le sillabe prime e dà vita al linguaggio, a mostrare così l’intreccio originario della materia sottile con la fisicità ed a testimoniare la sacralità della parola e il suo legame ancestrale con la potenza generante.

La parola fatta nascere con amore invade i sentimenti, induce la commozione poiché al di là dei segni che vediamo distendersi a disegnare il testo c’è l’infinito, invisibile universo di sentire e di sapere che sottende all’esperienza creatrice, un mondo di sensazioni che rimanda a memorie lontane, che passa attraverso il gesto della mano che scrive srotolando e facendo scorrere tra le dita il filo dei ricordi come su un antico telaio. La capacità di ricordare ovvero, secondo la bellissima etimologia di questa parola, di ‘riconsegnare al cuore’ le caleidoscopiche immagini che la memoria ci rimanda, è un dono prezioso, capace di contrastare la tirannia del tempo e dello spazio. I ricordi, come energie sottili partite chissà da dove, alimentate da fonti misteriose, ci attraversano come linfa vitale, toccano i nostri sensi assuefatti ad odori globalizzati e sapori seriali per ricondurli in giardini segreti, profumati di malinconia dove si può assaporare la dolcezza di frutti proibiti.

Attraverso questa rete del cuore il tempo dell’intensità che non ha durata prende la sua rivincita, i confini angusti della vita reale si dilatano, possiamo accogliere cose, figure, voci, sentimenti che si presentano a noi per annodare i fili che ci tengono fortemente attaccati alla nostra matrice. Mi piace usare questa parola di un lessico fortemente connotato al femminile poiché la memoria ha origine in un corpo di donna. Mnemosine, la dea che nell’Olimpo greco la personifica, è la figlia del Cielo e della Terra ed è a lei che Zeus si unisce per generare le Muse, e dunque voglio pensare che non ci sia arte senza ricordi e che non ci siano ricordi senza il prezioso “lavoro di cura” che sempre le donne hanno fatto per custodire la lingua del cuore. I ricordi sono i fili dell’ordito sui quali va ad intrecciarsi la trama di altri ricordi a formare il tessuto ossia il testo sul quale sono tracciati i segni che testimoniano il nostro essere nel tempo, ma anche la nostra capacità di condividere e raccontare mondi che, attraverso la memoria dei sensi, si sono depositati nel nostro corpo e lo percorrono come il reticolo del sangue.

Memoria antenata che si batte per sopravvivere all’ideologia del presente che cerca le proprie ragioni in sé; memoria emozionale che è anche bisogno di immergersi nelle sorgenti del nostro essere e del nostro sapere: un incontro empatico che si accompagna ineluttabilmente alla nostalgia, una parola che vorrei riammantare di tutta la sua intensità. Nostalgia è il desiderio doloroso del ritorno, è un sentimento forte e tenero, un impasto di dolcezza e di malinconia, di tristezza e di gioie fuggite lontano, una teoria di ombre che sfilano davanti agli occhi della memoria come le piccole sagome delle miniature di Norimberga. Attraverso la nostalgia luoghi e persone ritrovano l’innocenza nel senso originario della parola: non possono più nuocere ma soltanto suscitare rimpianto per ciò che si è perduto e di cui ancora si sente il desiderio. E se il rimpianto è un ‘rammentare piangendo’ allora la nostalgia ha anche il compito di saziare la sete di lacrime che Platone riconosceva come parte della nostra anima: un piacere liberatorio che è compito del poeta provocare.

E come negare che ciascuno di noi soffre ed è al tempo stesso sedotto dal desiderio di un nostos, di un ‘ritorno’: ad un amore, all’infanzia, ad un antico ideale. Poco importa quale sia la meta poiché sempre la nostalgia è ritorno alle terre incantate di un sogno. Non lasciamo morire la nostalgia. E’ preziosa. Senza di lei nessun Ulisse potrà ritrovare la propria Itaca e nessuna Penelope potrà riabbracciare l’amore perduto, senza di lei non c’è desiderio di ricordare e di raccontare, non c’è musica che rapisce i sensi, non c’è parola spesa con generosità, donata con passione e con le parole bisogna essere generosi, bisogna lasciarsi innamorare.

Questo mio scritto vuol rendere omaggio ad alcune parole a me molto care: pazienza, attesa, commozione, ricordo, malinconia, memoria, nostalgia, innocenza, rimpianto, e chiede a chi leggerà di dedicare qualche attenzione e amorevole cura alle antiche Signore che hanno accettato di apparire in questo verbodramma.

A cura di SAVE THE WORDS™