Che fretta! Un antico proverbio, banale forse come tutti i proverbi, e contraddetto dal proverbio di segno opposto, recita che la gatta per la fretta partorì cuccioli ciechi. È questo, grosso modo, il testo dell'antico adagio. Se avete tempo da perdere andatevene in internet e troverete tutte le possibili e immaginabili varianti proposte da uno straripante numero di navigatori. Possibile?

Possibilissimo, perché, nonostante il conclamato bisogno di fare presto, c'è chi invece si ferma ad arrovellarsi sulla più corretta forma letteraria del proverbio. Così mentre ci affanniamo, uomini e donne vittime di questo frenetico secondo decennio del duemila, a star dietro alla velocità, con treni sempre più rapidi, comunicazioni sempre più fulminee, processori sempre più istantanei, c'è chi dedica il suo tempo alla definizione della forma autentica del proverbio. Tutti i partecipanti al dibattito sono convinti, basta leggere quello che scrivono e misurare la temperatura delle loro convinzioni, che sia cosa importante e interessante appurare come siano andate realmente le vicende della gatta incinta e frettolosa.

Siamo seri, potrebbe commentare uno dei tanti maestri del tutto, nel nostro caso un etologo esperto di gatte partorienti, si tratta del solito bamboleggiamento dei grafomani in rete, superfluo, se non dannoso, e inutile. Inutile, appunto: questo è il problema. Forse - potrebbe obiettare un altro psicologo da talk show - ci manca l'inutile e, forse, il piacere di praticarlo. Troppo presi dal perseguimento dell'utile abbiamo certamente perso il gusto dell'inutile e con esso, tanto per citarne uno, quello della lettura. Diceva un noto polemista che la lettura più bella è quella che si fa con la consapevolezza che non servirà a niente.

Sembra, allora, di tutta evidenza, una volta appurato il vero testo del proverbio, che la fretta sia pericolosa, oltre che stressante, e che la velocità, altrettanto angosciante, sia, a volte, assolutamente superflua. Prendete i motociclisti italiani; sono scattanti e nervosi, sono sempre i primi in pole position al semaforo, s’infilano zigzagando pericolosamente tra le automobili, corrono anche quando non è necessario, anche quando non sono in ritardo a un appuntamento importante o non c'è il rischio di non arrivare in tempo alla la chiusura della scuola per il prelievo del figlio. Corrono, hanno fretta e basta!

I telegiornali brevi sono diventati telegrafici e congestionati; gli speaker raggiungono la velocità delle voci fuori campo che nelle pubblicità dei medicinali raccomandano in quattro o cinque secondi, Dio solo sa come fanno, di stare attenti che si tratta di un medicinale e che bisogna leggere attentamente il foglietto illustrativo, o di quelle che dopo aver pubblicizzato i più perfidi e peccaminosi giochi, mettono in guardia sul pericolo della dipendenza. Insomma si corre sempre.

Nei treni non si chiacchiera più; si armeggia col computer per prepararsi una relazione o si gioca nervosamente per evitare che la fantasia e l'immaginario del viaggio possano suscitare qualche umano sentimento; ci si dispera col cellulare per lasciare le ultime raccomandazioni a chi ci si è lasciato alle spalle e fornire i primi annunci a chi si va a trovare. Si fa così perché si guadagna tempo, perché si produce meglio, perché si ottimizza. Verrebbe voglia di dire “basta!” Riprendiamoci il piacere e la calma dell'inutile. Ci sono cose la cui conoscenza non serve assolutamente a niente, se non al solo sfizio di saperlo.

Ho fatto una prova con amici frettolosi; efficienti, rapidi, organizzati e programmati; di quelli che ottimizzano tempi e metodi e vanno a centosessanta all'ora in autostrada parlando di lavoro in viva voce; che mangiano un pezzetto di cioccolata energetica mentre guidano e si fermano ad una stazione di servizio solo per il tempo di far rifornimento o di andare di corsa in bagno, quando non ce la fanno proprio più. Bene, a questi tipi, dicevo, ho provato a raccontare il perché e il per come di alcune parole dal significato etimologico sconosciuto. Risultato? Gli amici ottimizzatori del tempo si sono sorpresi a divertirsi tantissimo esclamando: “chi lo avrebbe detto!” e per un attimo, con un salutare sorriso, hanno staccato la spina dal programmatore a corrente continua che hanno nel cervello.

Di qui è nata un'idea da proporre a un editore. Considerando che oggi si pubblica di tutto, si potrebbe suggerire un Dizionario delle cose inutili. Un dizionario delle cose che non servono a niente, da affidare a un pool di esperti dell'inutile – in Italia, in fondo, ce ne sono tanti – e da consultare ogni tanto, per decongestionare la mente dall’ingombro dell'information overflow esondata quotidianamente dalle televisioni e dalle reti, con i risultati della borsa, gli stalli della politica, le nuove tasse, il meteo, la situazione del traffico autostradale, le mail da salvare, gli spam da eliminare. E per decongestionarci anche dallo stress dei videogiochi che sono compulsivi, ossessivi e sempre in lotta col tempo. Un dizionario tradizionale per voci alfabetiche.

Tre esempi soli ovviamente in sequenza alfabetica A,B,C

A. Come alibi. Lo sapete come si dice in inglese, in tedesco, in francese alibi? Si dice alibi. Ognuno se lo pronuncia come vuole. Perché alibi è un avverbio latino che significa “altrove”. L'alibi è dunque l'altrove rispetto al luogo del delitto.
B. Come bucato. Perché l'atto del lavare i panni si dice bucato? Bucato a mano o in lavatrice? Perché in realtà il bucato era l'antica operazione di sbiancamento dei panni. Che una volta lavati e puliti col sapone, venivano sistemati in una grande tinozza aperta alla base; sulla bocca della tinozza veniva steso un vecchio lenzuolo, così vecchio da essere cosparso di buchi. Si spargeva si di esso la cenere, che ha potere detergente, e si versava acqua bollente, che impregnata di cenere, penetrando tra i buchi del lenzuolo, sbiancava i panni. L'operazione prende dunque il nome dal lenzuolo “bucato” che filtrava acqua bollente e cenere.
C. come c/o, (ovvero “presso”). Se s’invia una lettera al signor Rossi che lavora alla Banca d'Italia, si indirizzerà così: Al Signor Rossi c/o Banca d'Italia. E per c/o tutti intendiamo “presso”. Ma perché c/o diventa “presso”? C/o è termine inglese; sta per care of: “a cura di”. Come dire: è cura della Banca d'Italia far giungere la busta al signor Rossi.

Queste sono le prime voci – citate solo per fare tre esempi - di un dizionario antistress dell’inutile. Aspettiamo che un editore, stanco di pubblicare cose, almeno per lui, utili e necessarie, condivida il bisogno di pubblicare consapevolmente l'inutile e raccolga l'idea. Fiduciosi attendiamo.