Il 14 ottobre, al tramonto, dal molo di Castel Sant’Angelo partirà un battello. Ma non si tratta di una crociera né di un semplice evento culturale: è il tentativo di far scorrere un racconto sull’acqua. Fotogrammi dal futuro, curato da Lorena Magliocco e Raffaele Quattrone, organizzato da Stefano Maina (Rome Boat) con la produzione artistica di Raffaella Lione, nasce come esperimento di attraversamento estetico, un dispositivo che mette in dialogo fotografia, musica e città. Lungo il percorso che da Castel Sant’Angelo conduce all’Isola Tiberina, il Tevere diventa così non solo scenario ma protagonista, un corpo liquido che riflette immagini, luci e suoni, restituendo a Roma una forma inedita, più sfuggente e più vera.
L’evento non si presenta come una mostra in senso tradizionale, né come concerto o performance. È piuttosto un’ibridazione, una narrazione visiva e sonora che si svolge nello spazio mobile del fiume. Nel cuore di questa esperienza troviamo le fotografie di Federico e Marco De Gregori, gemelli e fotografi, che hanno accompagnato l’ultimo tour del padre, Francesco De Gregori. I loro scatti, più che raccontare un concerto, cercano di cogliere un ritmo, un respiro condiviso: il modo in cui la musica si trasforma in volto, gesto, luce. È un lavoro che si muove tra documento e poesia, dove la cronaca cede il passo a un’indagine sull’intimità del vedere.
Le immagini dei fratelli De Gregori sono poi rilette dall’artista Stefano Del Bravo, che interviene su di esse con la tecnica della polaroid manipolata, sovrapponendo strati di colore, texture digitali e materiali analogici. In questo gesto di trasformazione si apre la dimensione più concettuale del progetto: la fotografia come materia viva, come archivio instabile che si riscrive ogni volta. Del Bravo non si limita a reinterpretare: trasforma le immagini in portali, in passaggi temporali dove passato e presente convivono. Le sue opere funzionano come “fotogrammi dal futuro” nel senso più letterale — non come anticipazioni profetiche, ma come memorie già proiettate avanti, visioni che chiedono di essere rilette.
In questo dialogo tra il lavoro dei gemelli De Gregori e l’intervento di Del Bravo si riconosce un tema centrale della contemporaneità: la memoria come costruzione, non come testimonianza. Le fotografie del tour di De Gregori padre non sono infatti reliquie di un evento, ma punti di partenza per una nuova narrazione visiva. Il passaggio dal reportage alla visione artistica produce uno slittamento semantico che riguarda anche la nostra relazione con le immagini. Oggi la fotografia non è più solo un atto di conservazione, ma una pratica di riscrittura. Ogni scatto è una possibilità aperta, una materia che può essere rielaborata, contaminata, ibridata. In questo senso Fotogrammi dal futuro si inscrive in una linea di ricerca che attraversa molta arte contemporanea: quella che mette in discussione la stabilità dell’immagine e la fissità dell’opera. L’evento sul Tevere è dunque anche un esperimento curatoriale che porta il linguaggio fotografico fuori dagli spazi neutri del museo per farlo vivere in un ambiente instabile, in continuo movimento. L’acqua, con la sua capacità di riflettere e deformare, diventa il medium perfetto per raccontare la precarietà della visione contemporanea.
Il percorso del battello — da Castel Sant’Angelo all’Isola Tiberina, passando per il molo Cavour — disegna un itinerario simbolico attraverso la memoria di Roma. Ogni tratto del fiume corrisponde a un frammento di storia: i ponti barocchi, le mura, le luci che scendono dalle strade, i gabbiani che tagliano la superficie dell’acqua. Tutto diventa parte della scenografia. Ma ciò che conta non è la spettacolarità del paesaggio, bensì la possibilità di guardarlo da un’altra prospettiva. Roma, osservata dal fiume, appare diversa: meno monumentale, più fragile, quasi sospesa tra epoche. È una città che si riflette e, nel riflettersi, si interroga. L’idea di collocare una mostra sull’acqua porta con sé una riflessione sulla transitorietà. L’acqua non trattiene nulla, ma accoglie tutto. Riflette e cancella nello stesso gesto. È un archivio mobile, un archivio che si rinnova continuamente. Le fotografie dei gemelli De Gregori e le manipolazioni di Del Bravo trovano in questo contesto la loro risonanza naturale: come il fiume, sono immagini che non si lasciano possedere del tutto, che vibrano e cambiano a seconda dello sguardo. Ogni riflesso, ogni movimento del battello, modifica la percezione delle opere e ne riattiva il senso.
C’è anche una dimensione partecipativa in questo processo. Lo spettatore non osserva da una distanza protetta, ma si trova immerso nello spazio dell’opera: condivide il movimento, la luce, il tempo. In questo modo Fotogrammi dal futuro rovescia il paradigma tradizionale dell’esposizione statica e lo trasforma in un’esperienza relazionale. Non si tratta di un’arte che illustra, ma di un’arte che accade.
Il pubblico diventa parte del racconto, e la città stessa — con i suoi ponti e le sue pietre — diventa un elemento dell’installazione. È un gesto che richiama le pratiche site-specific, ma con una differenza: qui il “sito” non è un luogo fisso, bensì un flusso.
La scelta del Tevere come spazio espositivo non è solo poetica ma politica. Significa riappropriarsi di un luogo che troppo spesso viene percepito come margine, restituendolo invece alla vita culturale della città. Il fiume torna a essere arteria, luogo di passaggio, memoria collettiva. In un certo senso, Fotogrammi dal futuro riattiva la funzione originaria del fiume come connettore, come linea che unisce e racconta. L’acqua diventa medium e metafora, strumento e contenuto insieme.
La presenza di Eleonora Daniele come madrina e voce narrante aggiunge un ulteriore livello di lettura: il racconto orale, il giornalismo, la parola viva si intrecciano con l’immagine e la musica, creando un linguaggio ibrido. È un modo per restituire al progetto una dimensione collettiva, in cui il racconto non appartiene a un solo autore ma si costruisce nell’incontro tra media diversi. In questo intreccio si può leggere anche una riflessione più ampia sulla comunicazione contemporanea, sempre più intermediale, sospesa tra realtà e rappresentazione, tra esperienza e racconto.
Fotogrammi dal futuro è, in fondo, un laboratorio di percezione. Non propone risposte, ma domande. Cosa significa oggi vedere? Come si costruisce la memoria visiva di un tempo che cambia a una velocità senza precedenti? E quale ruolo può avere l’arte in un’epoca di immagini infinite e di attenzione frammentata? Il progetto non risponde, ma suggerisce una postura: guardare con lentezza, lasciare che le immagini respirino, che il loro senso emerga dal movimento e non dalla fissità. La forza di questo esperimento sta proprio nel suo carattere aperto. Nulla è definitivo: le fotografie, le manipolazioni, i riflessi sull’acqua, persino la musica che accompagna il viaggio, sono parte di un flusso in continuo divenire. È come se l’opera si scrivesse da sé, ogni volta diversa, a seconda di chi guarda e del punto in cui la si guarda. In questo senso, il titolo Fotogrammi dal futuro non rimanda tanto al tempo che verrà, quanto a un tempo che si rinnova continuamente: il futuro come condizione del presente, come tensione verso qualcosa che non è ancora ma che già pulsa nel nostro sguardo.
Nella sua dimensione simbolica, il progetto racconta una possibile via dell’arte contemporanea: uscire dagli spazi chiusi, ritrovare la relazione con la città e con la comunità, accettare l’impermanenza come linguaggio. Non celebra, ma interroga. Non monumentalizza, ma attraversa. È un gesto fragile e per questo potente: un invito a guardare Roma — e forse noi stessi — come un riflesso mobile, un’immagine che cambia con la luce, con il vento, con il passaggio di un battello.
Alla fine del percorso, quando il battello approda all’Isola Tiberina e le luci si spengono, resta l’impressione di un tempo sospeso. Le immagini non si chiudono in un archivio, ma continuano a scorrere nella memoria di chi le ha viste, come il fiume che non smette di muoversi. In quell’istante si comprende che Fotogrammi dal futuro non è un evento, ma un gesto poetico: un modo di restituire all’arte la sua funzione originaria, quella di creare connessioni. Tra passato e presente, tra reale e immaginario, tra l’acqua e la luce, tra ciò che è stato e ciò che deve ancora accadere.