Per quanto ami la sua interprete, il titolo di questa mostra non ha nulla a che fare con l’omonimo brano di Ornella Vanoni: deriva da una suggestione emersa nel corso di una notte, mentre cercavo di riassumere il lavoro di Josefina Ayllón in poche parole, nella brevità di una frase a effetto.

Rendere conto di un percorso artistico non è mai semplice, ancor più se per farlo non si dispone di riferimenti biografici canonici, facilmente inquadrabili: una formazione in accademia (preferibilmente all’estero), una serie di mostre istituzionali e in galleria, premi o riconoscimenti di vario genere.

Josefina è un’artista autodidatta, il cui percorso si colloca in ambito cinematografico e teatrale. Non ha espresso, sin dall’infanzia, interesse per il disegno. Tuttavia, nel suo studio, il numero di tele organizzate nelle scaffalature testimonia di una pratica costante, un esercizio quotidiano che sembra coprire l’arco di una vita intera.

E in effetti la sua produzione si estende per circa venti anni: si direbbe una preparazione perpetua (che è poi il fondamento dell’esercizio), per l’occasione metaforicamente assimilata a un appuntamento.

Per quanto non debba intendersi come un traguardo o, peggio ancora, un coronamento di carriera, questa mostra equivale di fatto a un incontro: tra il pubblico e il lavoro di Ayllón, tra i volti che compongono il primo e quelli rappresentati sulle tele, tra serie e tecniche differenti. La sperimentazione con queste ultime e, più in generale, con la materia pittorica, sono poste a principio di ogni opera e in questo senso la figura umana, pure onnipresente, si profila quasi come pretesto per disporre il colore sul supporto e immaginarne il contenuto.

Benché alle volte suggeriscano tipologie rappresentative associabili a specifici generi pittorici, i soggetti sono soprattutto selezionati per le loro potenzialità formali e cromatiche. È il caso, per esempio, della figura con le mani levate, resa in verde scuro e dotata di una barba che, rievocando analoghe iconografie veterotestamentarie, viene in realtà adoperata come elemento di contrasto rispetto al resto della composizione. Oppure di quella intabarrata, ritratto “camusiano”, coperta da un pesante cappotto il cui bavero spezza l’unità di un volto livido, attraversato da venature bianche.

In questa estrema caratterizzazione non vi è nessuna necessità psicologica: al contrario, è l’interesse per un profilo, una fronte solcata da rughe, una capigliatura o ancora una postura, a determinare la selezione dell’immagine e, di conseguenza, la realizzazione del quadro.

Lo stesso approccio plastico-formale risuona, e trova una sorta di giustificazione, nella relazione che l’artista istituisce con il colore e la sua materialità. Steso per mezzo del pennello o della mano, quest’ultimo viene trattato come fosse argilla: crea rilievi, per certi versi si sostituisce alle ombre normalmente rese tramite chiaroscuro. E non è un caso che Ayllón sia approdata alla seconda tecnica solo dopo aver compreso i limiti della prima. Con il pennello il contatto risulta mediato, l’amalgama è instabile, pastoso e indefinito; con le dita, invece, la forma è tratta via dall’indeterminatezza mediante un movimento rapido e deciso. Due velocità sembrano così sottendere alla sua pratica: un atteggiamento riflessivo, si direbbe quasi schivo e impersonale, e uno istintivo, vitale.

La completa assenza di riferimenti autobiografici nei soggetti e nella loro caratterizzazione non impedisce d’altronde un suo coinvolgimento in termini più concreti: il corpo dell’artista, equivalendo al corpo della pittura, si unisce alla dinamica relazionale che sempre lega opera, suo artefice e pubblico, e partecipa segretamente all’appuntamento della mostra.

(Testo di Giulia Gaibisso)