What the eye brought back è una mostra che raccoglie i lavori di undici artisti che espongono per la prima volta da P420. Tutto nasce dal viaggio, da quella particolare condizione esistenziale dell’osservatore che si muove attraverso il mondo, testimone mobile che raccoglie segni, immagini e presenze senza l’urgenza di definirle. La mostra è una costellazione di sguardi restituiti, di incontri, con le opere e con gli artisti, sedimentati nella memoria visiva e affettiva di chi guarda. What the eye brought back è un progetto costruito a distanza, quando il tempo è passato e legami non lineari persistono solidi.
Gli artisti selezionati, incontrati nel tempo e in vari contesti, non rispondono a un principio tematico comune, ma abitano uno stesso orizzonte di sensibilità. Il loro accostamento si fonda su una logica da taccuino, da archivio aperto e organico. Ogni opera esposta invita a considerare lo sguardo non solo come strumento ottico, ma come dispositivo di pensiero. In questo senso, si avvicina all’idea di uno spazio mentale in cui ogni lavoro è un punto di intensità che risuona con altri, senza necessità di gerarchie o sequenze.
What the eye brought back rappresenta il tentativo di ricostruire una geografia visiva fatta di visioni che si riattivano a distanza, di immagini che migrano da un contesto all’altro, portando con sé memorie, desideri e sottili tensioni. È una mostra sull’atto del vedere come forma di memoria, di ascolto e di apertura, come chiarisce Matteo Binci nel testo critico che accompagna la mostra:
«Ogni mostra è una forma di scrittura e montaggio. Alcune si presentano come narrazioni lineari, altre come poesie visive o saggi tematici. What the eye brought back espande le possibilità del taccuino, del quaderno di viaggio in cui gli appunti non obbediscono a una logica sequenziale, ma all’urgenza del momento, all’intensità di un incontro. What the eye brought back nasce da un processo intimo e rizomatico: la memoria di incontri sedimentati negli ultimi tempi dai fondatori di P420 e riemersi in questa mostra come frammenti di un archivio desiderante. Edouard Glissant parlava del ‘diritto all’opacità’ come condizione della relazione: ciò che incontriamo non è mai pienamente trasparente, ma conserva la sua irriducibilità. Questi artisti, nomi appuntati come note private, ora si offrono in una costellazione di opacità che invita alla relazione più che alla decifrazione.»
Artisti in mostra: Hamra Abbas (1976, Kuwait City, Kuwait – vive e lavora tra Lahore, Pakistan e Boston, USA), Majd Abdel Hamid (1988, Damasco, Siria – vive e lavora tra Beirut, Libano, e Ramallah, Palestina), Maha Ahmed (1989, Lahore, Pakistan – vive e lavora a Londra, Regno Unito), Bekhbaatar Enkhtur (1994, Ulaanbaatar, Mongolia – vive e lavora a Torino, Italia), Edgar Calel (1987, Chi Xot, Guatemala – vive e lavora a Chi Xot, Guatemala), Leonardo Devito (1997, Firenze, Italia – vive e lavora a Torino, Italia), He Xiangyu (1986, Kuandian, Cina – vive e lavora tra Milano, Italia e Beijing, Cina), Khaled Jarada (1996, Gaza City, Palestina – vive e lavora a Parigi, Francia), Xian Kim (1992, Seul, Corea del Sud – vive e lavora a Seul, Corea del Sud), Iva Lulashi (1988, Tirana, Albania – vive e lavora a Milano, Italia), Brett Charles Seiler (1994, Harare, Zimbabwe – vive e lavora tra Città del Capo, Sud Africa e Lipsia, Germania).