La vera difficoltà nell’affrontare una riflessione su questo film è la striscia di ingiustizie che ha subito Samia Yusuf Omar, la giovane atleta cresciuta a Mogadiscio. Sarà forse perché è la sua storia, una storia vera, che inizialmente ci sentiamo afferrati da un senso d’impotenza tanto profondo da voler rinunciare al compito. In genere i film che hanno come protagonisti degli sportivi, con l’eccezione di quelli ambientati nel mondo della boxe, prefigurano gli exploit della caparbietà, della resistenza, dell’incrollabile spirito di sacrificio. Ma qui siamo in Somalia, un paese devastato dalla guerra tra bande di fanatici con l’alibi della religione, e quegli attributi, da soli, non bastano.

Una ragazzina che a diciassette anni arriva sulla pista di Pechino per correre i duecento metri alle Olimpiadi vestendo i colori del proprio paese e il portafortuna regalatole dal padre, sembra il prototipo ideale dell’eroina destinata all’oro della vittoria. E alla lunga forse lo sarebbe diventata, se non avesse deciso di correre quella gara senza il velo, un gesto che prelude ad una ineluttabile condanna appena sarà tornata a Mogadiscio. La gara l’hanno vista tutti, non solo i familiari e i parenti assiepati davanti a una tv sgangherata, ma anche i membri del terrorismo fisico e psicologico che stanno prendendo il potere in città e imponendo la sharia, o magari solo un’interpretazione estrema e belluina di quella irreprensibile condotta morale.

Le conseguenze della sua passione per la libertà, che per lei significa correre, esistere come giovane donna con un preciso obiettivo da realizzare, non si fanno attendere e Samia si vede costretta a lasciare il paese per non diventare vittima dei tribunali islamici che amano sbrigare le loro pratiche per strada con minacce e condanne immediate. Si può campare in una realtà del genere?

Cosa le resta del suo sogno di rivincita, della possibilità di gareggiare nuovamente alle prossime Olimpiadi di Londra e rifarsi di quel patetico ultimo posto che le è toccato a Pechino. Certo, lì se l’è vista con atlete blasonate, ben nutrite, ben allenate, toste sul serio, con scarpe che prima lei non aveva mai avuto ai piedi. Vogliamo parlare della povertà di mezzi in cui è cresciuta? Però, niente scuse, quella sconfitta fa male ed è dura da digerire.

Noi sappiamo che siamo diverse dalle altre atlete. Ma non vogliamo dimostrarlo. Facciamo del nostro meglio per sembrare come loro. Sappiamo di essere ben lontane da quelle che gareggiano qui, lo capiamo benissimo. Ma più di ogni altra cosa vorremmo dimostrare la nostra dignità e quella del nostro paese.

D’altra parte, una volta tornata a casa, sarebbe pericoloso e umiliante doversi allenare di notte, in segreto, nello spiazzo bitorzoluto circondato da un recinto di lamiera, col rischio di essere scoperta da invasati giovanotti che pretendono d’incarnare la giustizia divina. Ed è significativo e toccante che a consigliarle di andarsene sia proprio il suo compagno di giochi, un cugino che anni prima si era offerto di allenarla, visto che lei lo batteva sempre nelle sfide mattutine per arrivare primi a scuola.

Ora quel cugino è cresciuto e si è formato alla meglio nelle madrase dove cova il fanatismo. A Mogadiscio, un attentato dopo l’altro, le cose sono cambiate con la stessa velocità che Samia ha messo nelle sue gambe quando ha deciso di diventare la ragazza più veloce della Somalia. Suo padre ne ha persa una, colpito da un proiettile vagante in una sparatoria avvenuta davanti a un bar, e quando è riemerso dalla depressione per l’invalidità, una bomba lo ha spedito in cielo. Samia ha perduto il suo puntello, il riferimento a cui rivolgersi. Quindi suo cugino, per salvarla dalle ritorsioni degli esagitati come lui, le offre i soldi per fuggire dal paese, affrontando un viaggio pieno di pericoli, il solo e unico viaggio che tocca ai tanti disperati che sognano un’altra vita in Europa.

Yasemin Ṣamdereli, la regista tedesca di origini turche, ha ripreso la storia di Samia che lo scrittore Giuseppe Catozzella aveva fissato sulle pagine del suo romanzo, e l’ha tradotta in un film dove la potenza dei volti è intagliata nella semplicità, nell’immediatezza delle emozioni. Dimentichiamo presto che il film è frutto di un accurato lavoro di ricostruzione; entriamo quasi con pudore nella casa spoglia e dignitosa della famiglia di questa ragazzina che ha scelto di diventare una campionessa di velocità.

Nessuno gliel’ha suggerito, tra l’altro non rientra affatto nelle preferenze e nelle competenze delle ragazze della sua età; e inizialmente viene vista come una stramberia anche da sua madre. Il padre però ha colto qualcosa che agli altri sembra sfuggire e le ha regalato un talismano, una fascia bianca da indossare sulla fronte durante le gare che affronta e vince per farsi notare dai vertici sportivi che formano la squadra di atletica da mandare alle Olimpiadi.

Dopo la sua fuga da Mogadiscio, quel portafortuna è l’unica cosa di cui Samia non vuole privarsi quando viene costretta a consegnare tutto quello che ha, soldi compresi naturalmente, appena arriva in una delle famigerate carceri libiche al confine con il deserto. Una tappa obbligata per tutti i carichi umani che transitano sulle rotte dell’emigrazione clandestina. Ne esce viva, ed è già un risultato, ma poi, per proseguire il viaggio e alimentare il suo sogno, deve per forza salire su una carretta del mare e raggiungere l’Italia: destinazione Olimpiadi di Londra.

L’epilogo di questa ennesima sfida è un bivio che nega qualsiasi rivincita. Nella sua ultima corsa non la vediamo sfrecciare verso il filo di seta del traguardo. Le gambe che finora non l’hanno mai tradita sono costrette a muoversi in un elemento meno familiare della terra, annaspano in acque profonde per afferrare una cima gettata alla meglio da una motovedetta italiana, pigra e indolente abbastanza per non darsi la pena di salvare i reietti che invocano aiuto dalla barca in panne. Lei invece si è buttata in mare, perché ha fretta, vuole essere veloce anche in quella situazione, perché quando il mostro si fa avanti le hanno insegnato a dire che non ha paura.

Ritornando al corpo di Samia che affonda nelle acque del nostro mare, un mare che ha nutrito e alimentato la civiltà di cui siamo figli e figlie, quella che portiamo nei geni e nei rimpianti, mi resta solo un’emozione amara, crudele, un senso d’ingiustizia che non ha confini. Un peccato non recuperabile, una ferita che non sapremo rimarginare.

Da questo mare così amato, non dimentichiamo quanto amiamo e quanto abbiamo amato il nostro mare fin dall’infanzia, non vedo affiorare più alcuna gioia. Le ottuse facce di quelli che decidono e vogliono imporre regole al mare, non possono comprendere e tanto meno gareggiare con Samia né con il coraggio di quelli come lei, non sono iscritti alla stessa gara e alla fine saranno loro a perdere la dignità, un bene che non annega, non scompare, perché appartiene all’ordine superiore dello Spirito.