Ci sono viaggi che restano nel cuore per i paesaggi, altri per i sapori, altri ancora per le persone. Poi ci sono viaggi che ti attraversano tutto insieme: gli occhi, lo stomaco, le gambe, la memoria. Uno di questi per me è stato il Tratt Tour, tra Cesena e Faenza, nel cuore della Romagna più vera, più faticata, più bella.
Un'esperienza che già nel nome è dichiarazione d’intenti: si parte a piedi, zaino in spalla e calice al collo, e si cammina. Da una cantina all’altra, da una collina all’altra, tra ciliegi in fiore e filari ordinati, sotto il sole che comincia a indorare le viti e i sorrisi. Non sei un turista, sei un pellegrino del gusto, un viandante del vino. E ovunque tu ti fermi, ti aspettano mani, strette di mano forti, mani che sanno accogliere. Quelle dei produttori, dei vignaioli, delle famiglie che aprono le porte delle loro aziende, ma anche delle loro case.
In un’Italia che corre e che dimentica, qui ci si ferma. Si beve. Si ascolta. Si condivide. Ho incontrato aziende come Zoli Paolo, dove tre generazioni – nonno, padre e nipote, quasi mio coetaneo – erano tutte lì, presenti in una domenica di lavoro e accoglienza, a raccontare con orgoglio la propria storia e il vino che la contiene. Ho conosciuto un altro produttore, della cantina Leone Conti, che più delle vigne mi ha fatto vedere i nidi di rondine sotto il suo casolare, fiero di mostrarli come fossero figli, e in fondo lo erano: simbolo di un equilibrio tra natura e uomo che si è quasi perso altrove.
A ogni tappa, un vino. Ma anche un salame. Una piadina calda. Una fetta di formaggio. La Romagna non ti lascia bere da solo. Qui il vino è sempre accompagnato da qualcosa: un gusto, una storia, un accento, un proverbio. E anche se il trattore ti aspetta per il prossimo tratto, è a piedi che scopri la verità di un territorio: nei passi lenti tra le vigne, nel profumo della terra, nelle chiacchiere in dialetto, nelle risate improvvise.
Come sommelier, come amante del vino e della terra, porto dentro gli sguardi felici di chi quei vini li fa. Occhi lucidi di chi sa che non entrerà mai nei salotti del Chianti Classico, ma che continua a vinificare con amore il proprio Sangiovese di Romagna, il Pagadebit, la Luganega, il raro e curioso Clementino. Uve poco conosciute, forse dimenticate, ma piene di dignità e di potenza, pronte a raccontare un'altra Italia, fuori dalle rotte delle guide e dei listini stellati.
Sono vini che ti sorprendono per la loro beva immediata, la preziosa rusticità, la sincerità del sorso. Spumanti metodo Charmat e Metodo Classico, ottenuti da vitigni improbabili per la spumantizzazione, ma capaci di regalare franchezza, leggerezza, gioia. Perché non sempre il vino deve essere complesso: a volte deve solo farti stare bene, raccontarti la stagione e la mano che lo ha fatto nascere.
Ho bevuto vini genuini, senza l’uso smodato del legno, senza spezie forzate o tostature da rivista. Vini che sanno di uva, di suolo, di emozioni. Vini veri, che non si nascondono. E sono proprio questi i vini che, da italiani, ci fanno battere il cuore. Vini che parlano la lingua della nostra terra, che sanno di vendemmia e di famiglia, di tempo e di attesa.
Vini che portano nel bicchiere gli aromi primari, quelli che provengono direttamente dal vitigno, dall’essenza stessa dell’uva: profumi di frutti freschi, fiori, erbe aromatiche e balsamiche, note leggere di terra e vento, che raccontano il paesaggio e la stagione.
E poi gli aromi secondari, quelli che nascono durante la fermentazione alcolica – quel momento in cui gli zuccheri si trasformano in alcol e calore, liberando molecole aromatiche complesse, capaci di evocare caratteri varietali e fermentativi, senza artifici, ma con naturale espressività. È lì che il vino prende voce e comincia a raccontare: in quel sorso che sa di campo, di pietra, di mani.
È questo il vino che vogliamo: genuino, leggibile, vivo, non mascherato da un legno invadente. Perché troppo spesso il legno – specialmente la barrique – è stato usato in maniera eccessiva, piegando il vino a gusti internazionali, standardizzati, pensati per stupire una clientela turistica che, pur sostenendo la nostra economia, rischia di deformarne l’anima.
Ma noi dobbiamo resistere. Dobbiamo proteggere la nostra identità.
L’uso del legno ha un senso quando è intelligente, misurato, rispettoso. Le botti grandi, ad esempio, possono accompagnare con grazia l’evoluzione di un vino, senza imporgli aromi terziari troppo marcati, senza sovrastarne la voce. Perché il vino non ha bisogno di profumare di vaniglia o cioccolato per essere elegante. E se il legno serve solo a mascherare un’uva imperfetta, a dargli forza e corpo artificiosi, allora meglio lasciarlo da parte.
Troppo spesso si incontrano vini scomposti, pesanti, fuori asse: costruiti per impressionare, non per emozionare.
E allora diciamolo, con amore: continuiamo ad amare i vini autentici, quelli da bere col sorriso, senza fatica. Vini da tavola, nel senso più nobile del termine. Vini che si siedono accanto a un piatto di tagliatelle, a una grigliata, a una piadina ancora calda. Vini vivi, che parlano italiano, che cantano la nostra storia.
Perché, come dicono da queste parti:
“Se arrivi dal nord e ti offrono un bicchiere d’acqua, sei in Emilia. Se ti offrono un bicchiere di vino, sei in Romagna.”
E allora fermiamoci.
Spegniamo il motore, saliamo su un trattore o scendiamo a piedi, tra i filari.
Inseguiamo i colli, i tramonti, le storie.
Beviamo un calice di autenticità, in compagnia di chi ha fatto del vino non un business, ma un gesto d’amore.
Perché è questo che serve, oggi più che mai:
vino che racconta, vino che unisce, vino che emoziona.
E la Romagna lo sa fare.