“Si cucina sempre pensando a qualcuno, altrimenti stai solo preparando da mangiare”.
Questa frase la ripeto spesso ai miei studenti. Alcuni sorridono, altri si fermano a pensare. Perché cucinare è gesto, è attenzione, è trasmissione.
Negli ultimi anni, abbiamo vissuto l’epoca d’oro della cucina gourmet. Ho avuto il privilegio di lavorare in contesti stellati, fino a due stelle Michelin: luoghi dove la precisione sfiora l’arte, dove ogni dettaglio — dalla mise en place al servizio — racconta un’esperienza. Una cucina che emoziona, che sorprende, che resta impressa nella mente.
Ma oggi sento che qualcosa manca.
Sento il bisogno di tornare a un’altra esperienza: quella semplice, calda, domestica.
Perché se la cucina gourmet è una sinfonia, la cucina tradizionale è una canzone popolare: la conoscono tutti, la canti insieme, ti scalda il cuore.
Una volta, l’innovazione nasceva dalla tradizione.
Oggi, la tradizione si sta perdendo. E senza radici, non si può inventare nulla.
Ricordo mia nonna Marina.
Le mani piccole ma forti, il grembiule sempre un po’ infarinato, e quell’odore inconfondibile che saliva dalle sue pentole. Era cucina toscana, quella vera: fatta di ingredienti semplici, gesti lenti, tempi lunghi. Il ragù che cuoceva per ore. Il pane raffermo che diventava pappa al pomodoro. La carne povera che, con pazienza, diventava festa.
Era tradizione.
Ma non la chiamavamo così.
Era semplicemente “cucinare”.
Quella era la base.
Quella era la scuola.
Chef intraprendenti potevano innovare, perché avevano alle spalle generazioni di sapori. Era normale aprire un libro di cucina, ma ancor più normale era osservare mamma o nonna. Rubare con gli occhi, imparare a memoria.
Oggi non è più così.
Oggi il tempo non c’è più.
Corriamo. Sempre.
Lavoro, traffico, impegni.
E cucinare è diventato un lusso.
Non lo insegniamo più ai nostri figli. Non lo pratichiamo più noi stessi.
Apriamo un pacco. Scaldiamo. Mangiamo in piedi.
Davanti a uno schermo, senza parole, senza odori.
La cucina si è spostata.
Dalla casa alle industrie.
Dalla padella al microonde.
Dalla tradizione all’etichetta.
Cibi elaborati, confezionati, pensati per durare — non per nutrire.
Senza stagioni. Senza territorio. Senza anima.
Ma il corpo ricorda.
E negli anni, ci presenta il conto.
Perché il cibo, quando è vivo, ci fa bene. Quando è morto, ci consuma.
C’è un fatto, però.
Quella cucina, quella tradizione… oggi in casa, spesso, non c’è più.
Le nonne non cucinano più. Le mamme non hanno tempo. I figli non imparano.
E allora dove la troviamo? Dove andiamo a riscoprire i sapori che abbiamo perso?
Nei ristoranti. Nelle osterie. Nelle trattorie di una volta.
Nei luoghi che resistono, che custodiscono le ricette come fossero poesie.
Nelle cucine che non hanno paura della semplicità.
Che non rincorrono mode, ma coltivano memoria.
Lì dobbiamo tornare.
Perché se la casa non è più la scuola del gusto, allora lo diventano quei posti sinceri.
Un’osteria può essere una macchina del tempo.
Una trattoria può raccontarci chi eravamo.
Un piatto di pici al ragù, un peposo fatto bene, una ribollita autentica — possono valere più di mille parole.
Non è solo mangiare. È ricordare.
È educare il palato e il cuore.
È un atto culturale.
Cucinare è un atto culturale.
È un modo di vivere.
È un gesto d’amore che si tramanda.
Quando cucini, non stai solo preparando da mangiare.
Stai costruendo memoria.
Stai intrecciando relazioni.
Stai continuando qualcosa di più grande di te.
È un momento di condivisione.
Di silenzi e parole.
Di mani che si muovono insieme.
Di figli che osservano, rubano con gli occhi — proprio come facevamo noi.
Cucinare insieme è un modo per restare uniti.
Per conoscersi davvero.
Per rallentare, anche solo per un’ora.
Perché il cibo non è solo nutrimento. È linguaggio.
È affetto. È cura.
È cultura viva, che si può perdere — o salvare.
E allora vi dico: cucinate, ragazzi. Cucinate, adulti.
Accendete un fornello, tagliate un pomodoro, fate il soffritto.
Non importa se non viene perfetto.
Importa che venga fatto.
Il futuro della ristorazione non è in contrapposizione.
Non è una guerra tra stelle e tradizione.
È una strada che unisce.
La cucina gourmet ci ha insegnato a sognare.
Ci ha mostrato che il cibo può essere arte, teatro, emozione.
Ma adesso dobbiamo ricordare da dove veniamo.
Dobbiamo tornare a mettere le mani in pasta, davvero.
Perché senza la base, non c’è evoluzione.
Senza radici, non c’è albero.
Il vero lusso, oggi, è la semplicità.
Un piatto di minestra fatto bene.
Un pane cotto in casa.
Una bottiglia di vino che sa di terra, non di marketing.
E allora sogno una cucina che sappia di domenica.
Che sappia di casa.
Che si mangi con le mani, se serve.
Che faccia chiasso, che lasci macchie sulla tovaglia.
Che non cerchi di stupire, ma di restare.
Sogno ristoranti con piatti imperfetti ma veri.
Sogno giovani che imparano a cucinare dai nonni, che raccolgono storie mentre pelano patate.
Sogno adulti che si rimettono ai fornelli, non per moda, ma per amore.
Perché ogni volta che cuciniamo, stiamo dicendo:
"Questa è la mia storia. Questo è il mio legame. Questo è il mio mondo".
E questa — questa sì — è la cucina che non verrà mai dimenticata.