L’infarto modifica profondamente la personalità del malato, lo rende timoroso con pensieri di morte, di recidiva, di invalidità. Compito del medico è di aiutare il paziente a razionalizzare i motivi di preoccupazione e di favorire il suo reinserimento nella famiglia e nel lavoro. Particolari soggetti sono peraltro in grado di considerare anche i lati positivi dell’esperienza di malattia e di prendere coscienza di aspetti della vita rimasti fino ad allora sconosciuti.

Conoscenze e attitudini dei pazienti

Le convinzioni errate e i preconcetti sulla propria salute giocano un ruolo molto importante, tanto da essere tra i maggiori predittori negativi di ritorno a una vita normale. Ad esempio, la convinzione del paziente dell’inevitabilità di una ridotta funzionalità fisica e la percezione di una propria minore capacità di affrontare la malattia, predicono un outcome peggiore, probabilmente perché influenzano la motivazione con la quale il malato affronta la ripresa delle proprie attività.

La tendenza a minimizzare o negare la malattia, la sua gravità o l’impatto sulla vita, riducono la compliance nei confronti delle prescrizioni farmacologiche e/o comportamentali. Il paziente che minimizza è particolarmente pericoloso per la sua scarsa lamentosità, il suo ottimismo, che spesso non richiamano l’attenzione del medico, più vigile in caso di soggetti marcatamente depressi o con comportamenti vittimistici.

Alcuni studi hanno evidenziato che i pazienti infartuati ritengono lo stress causa principale della malattia. Questo orientamento psicologico tende a scaricare prevalentemente sulla società, sugli altri, la responsabilità della malattia, limitando in tal modo le responsabilità individuali. In altri studi i pazienti hanno attribuito l’origine dell’episodio infartuale ad eventi in realtà solo scatenanti, ad esempio accessi di collera. Queste attribuzioni causali profane devono essere individuate e, se è il caso, corrette perché in grado di condizionare l’atteggiamento dei malati nei confronti delle terapie e la motivazione a modificare lo stile di vita. Il paziente che considera l’accesso di collera la causa principale dell’infarto avrà come principale motivazione quella di evitare questa situazione emozionale, in particolare la persona o la circostanza che l’ha provocata, tenendo invece in minore considerazione altri fattori di rischio probabilmente più importanti.

Fattori psicosociali

La letteratura è molto ricca di studi riguardanti l’importanza dei fattori di rischio somatici, mentre i dati relativi agli aspetti psicosociali sono sempre un po’ in ombra, in parte perché i primi possono essere misurati con facilità mentre i fattori psicosociali sono sicuramente di più difficile inquadramento, in parte per il motivo che i risultati degli studi sono non univoci e spesso contraddittori. Il distress psicologico è infatti il risultato di una complessa interazione tra pressione ambientale e capacità individuale di fronteggiarla.

Quello che è stressante per una persona può essere piacevole e stimolante per un’altra. Ognuno di noi è dotato di uno spettro psicologico altamente personale che riflette gli eventi quotidiani in maniera diversa.

Spesso complesse problematiche psicologiche profonde e non risolte sono difficilmente rimovibili senza una psicoterapia di lunga durata. Questa peraltro non è facilmente accettata dai pazienti, che spesso attribuiscono il raggiungimento dei loro obiettivi di vita proprio al loro modo di essere. Tale atteggiamento può condizionare e mantenere uno stile comportamentale che, talvolta, tende addirittura all’esacerbazione, come risposta alla minaccia per la propria efficienza rappresentata dall’evento infartuale.

Le strutture e le reti sociali, riferite sia al numero di contatti della persona, sia alla loro qualità, potrebbero infine agire come tampone per gli effetti di numerosi fattori di stress ambientale. La semplice presenza del coniuge rappresenta in genere un fattore di protezione. Fornire la possibilità di contattare singole persone o associazioni di volontariato può consentire la possibilità di scambi sociali a persone che altrimenti non sarebbero in grado di provvedere in maniera autonoma. In certi casi consigliare il possesso di un animale domestico può contribuire a lenire una solitudine.

Il medico dovrebbe utilizzare questi dati per inquadrare più globalmente il paziente affetto da cardiopatia ischemica, non limitandosi alla correzione dei fattori di rischio classici.

Depressione e ansia

La depressione è di frequente riscontro nei pazienti con malattie cardiovascolari. Secondo gli studi più recenti sarebbe presente in percentuale tra il 15% e il 20%. La depressione limita le strategie adattative dei pazienti coronaropatici e il reinserimento nella vita produttiva, interagisce negativamente con la aderenza alla terapia e aumenta il rischio di esiti clinici sfavorevoli, compresa la morte prematura. Sfortunatamente, la depressione e lo stress psicologico spesso non sono riconosciuti dato che non esiste uno screening sistematico con strumenti validati. Nei pazienti con un livello di ansia elevato ma decrescente e stato riportato un alto rischio di eventi cardiovascolari.

In alcuni pazienti il trattamento dei fattori psicosociali, della depressione e dell’ansia con terapia farmacologica, psicoterapia e/o esercizio fisico può migliorare i sintomi e la qualità di vita e, secondo alcune evidenze, anche gli eventi cardiaci.

Come trattamento di prima scelta della depressione sono raccomandati gli inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina o interventi non farmacologici, cosi come e raccomandato un approccio collaborativo multidisciplinare.

Il lavoro

Alcune caratteristiche del lavoro, che in generale esprimono una disparità tra sforzo e profuso e riconoscimento ottenuto, il cosiddetto “job strain”, hanno dimostrato un legame diretto con la coronaropatia. Condizioni associate ad aumentato rischio di recidiva coronarica (ruoli subalterni vissuti in maniera frustrante, attività stressanti, ridotte gratificazioni sul piano economico o sociale) sono peraltro spesso le condizioni che hanno contribuito al verificarsi della malattia coronarica.

Al medico curante vengono spesso richiesti pareri sull’opportunità della ripresa del lavoro in queste situazioni e solo un’approfondita conoscenza, non solo degli aspetti clinici ma soprattutto del paziente come persona, può consentire di aiutare il malato e i familiari a decidere nel singolo caso.

I medici con maggiore esperienza ricordano la soluzione di molti casi, refrattari alle terapie farmacologiche e in lista di attesa per interventi di rivascolarizzazione, per effetto di cambiamenti di vita, ad esempio di un lavoro particolarmente stressante o di situazioni familiari vissute in conflittualità.

Il sesso

In genere il paziente mostra una certa ritrosia nel trattare l’argomento sesso e questo complica ulteriormente le possibilità di comunicazione. Con il dovuto tatto può essere lo stesso MMG a iniziare l’argomento e a invitare il paziente a sollevare eventuali problemi e perplessità.

Infatti spesso il malato sente il bisogno di recuperare le proprie abitudini di vita precedente, comprese quelle sessuali ma il timore di un attacco durante il rapporto costituisce il motivo di una rinuncia talvolta definitiva. La paura inoltre non è solo del paziente ma anche della partner. Il risultato è che circa il 25% dei soggetti post-infartuati non riprende l’attività sessuale e circa la metà la riduce. In realtà i dati in letteratura evidenziano un rischio relativo di comparsa di infarto nelle 2 ore successive all’attività sessuale analogo a quello dei soggetti non cardiopatici. Anche il rischio assoluto è molto basso (20 probabilità su 1 milione) e può essere notevolmente ridotto con l’esecuzione regolare di attività fisica.

Si può perciò consigliare al paziente di riprendere l’attività sessuale, e fisica in generale, con tranquillità, preferibilmente dopo aver dimostrato al test ergometrico la capacità di svolgere un’attività fisica pari almeno a 5 METs (consumo energetico medio dell’atto sessuale, paragonabile a salire uno o due piani di scale) senza sintomi o anormalità della frequenza cardiaca o dell’ECG.

Fondamentale è inoltre la condizione emotiva con cui si affronta il rapporto sessuale, che idealmente dovrebbe svolgersi in un contesto sereno, più facilmente ottenibile con il partner abituale.