Cinquanta anni fa, nel luglio del 1975, nello spazio, accadde qualcosa che nessun diplomatico avrebbe mai osato immaginare dieci anni prima: due astronavi, una americana e una sovietica, si incontrarono in orbita, si agganciarono l’una all’altra e aprirono i portelli. Gli uomini a bordo si strinsero la mano. Era una stretta simbolica, certo. Ma anche qualcosa di più. Perché quella mano tesa tra Thomas Stafford e Alexei Leonov rappresentava una svolta: era la dimostrazione che, nonostante decenni di rivalità, diffidenza e corsa agli armamenti, l’umanità poteva ancora guardare in alto, unita da un sogno comune. Lo spazio, per un attimo, smise di essere terreno di sfida tra superpotenze e divenne davvero il palcoscenico di una cooperazione planetaria.
Eppure, arrivare a quel momento fu tutt’altro che semplice. L’idea di una collaborazione spaziale tra Stati Uniti e Unione Sovietica era nata più di un decennio prima, durante l’amministrazione Kennedy. Ma a inizio anni ’60, con la Guerra Fredda al suo apice e la corsa alla Luna già lanciata, non c’era spazio per collaborazioni sincere. Krusciov, il leader sovietico, respinse le aperture americane, e per anni le due agenzie spaziali si tennero a distanza, concedendosi solo qualche scambio di informazioni scientifiche di poco conto. Ma i tempi, si sa, cambiano. E con la vittoria americana nella corsa alla Luna, per i sovietici si aprì la necessità — e l’opportunità — di rimodulare il confronto. Se non potevano arrivare primi, potevano almeno dimostrare che erano ancora tecnologicamente all’altezza della sfida. L’idea di un aggancio in orbita tra navicelle di due nazioni rivali cominciò così a prendere forma. E fu proprio su quella linea di confine — non più tracciata con missili, ma con moduli di attracco e protocolli tecnici condivisi — che iniziò la lenta marcia verso Apollo-Soyuz.
A dare la spinta decisiva all’idea di collaborazione fu Thomas Paine, all’epoca amministratore della NASA. Paine credeva fermamente che l’esplorazione dello spazio non dovesse fermarsi alla Luna e, anzi, immaginava un futuro fatto di stazioni orbitali, missioni congiunte e persino viaggi su Marte, proprio ciò che sta accadendo oggi. Dopo l’Apollo 11, inviò una lettera che proponeva un'offerta di cooperazione, al presidente dell'Accademia delle Scienze Sovietica, Mstislav Keldish. Un illustre fisico, specializzato in meccanica spaziale, che si era "calorosamente" congratulato con gli Stati Uniti, per il successo dell'atterraggio e del ritorno lunare. Keldish, rispose a sua volta con tono cordiale, lasciando intravedere spiragli di dialogo. Entrambi sapevano che il clima politico era complicato, ma proprio per questo intravedere una cooperazione nello spazio rappresentava una possibilità nuova, quasi rivoluzionaria.
Il progetto prese forma lentamente. A Leningrado, nel 1970, in occasione della tredicesima assemblea della Commissione per la Ricerca Spaziale, COSPAR, si svolsero i primi colloqui ufficiali. George Low per la NASA, e ancora una volta Keldish per l’URSS, misero nero su bianco la disponibilità a esplorare un’operazione congiunta. Gli americani proposero un attracco tra una Soyuz e lo Skylab, ma i sovietici non erano entusiasti all’idea di mandare una loro navetta verso una stazione tutta americana. L’idea si evolse: invece di usare strutture già esistenti, perché non organizzare una missione specifica, in cui entrambe le parti inviassero un proprio veicolo nello spazio, incontrandosi a metà strada, in orbita? Una missione che avrebbe collaudato un sistema universale di attracco utile in caso di emergenze nello spazio. Così nacque la missione Apollo-Soyuz Test Project, che avrebbe avuto luogo cinque anni dopo.
Dal punto di vista tecnico, la sfida era tutt’altro che semplice. Le due navicelle erano frutto di filosofie ingegneristiche opposte. L’Apollo era più grande, più potente, ma anche più rigido nei suoi standard operativi. La Soyuz era compatta, sofisticata nella semplicità, ma pensata per sistemi chiusi e autonomi. Per farle incontrare, ci voleva qualcosa in mezzo. Fu così che nacque il Docking Module, una sorta di “tunnel” pressurizzato sviluppato dagli americani, che avrebbe permesso l’attracco e il passaggio sicuro tra le due cabine, compensando le differenze di pressione, atmosfera e volumi interni. Dietro questa mediazione tecnologica c’era un uomo: Vladimir Syromiatnikov, l’ingegnere sovietico che progettò il meccanismo di aggancio, e che negli anni successivi avrebbe lavorato anche sui futuri moduli di attracco delle missioni Shuttle-MIR e ISS. Ironia della storia, fu proprio lui, l’uomo che aveva servito il programma sovietico con dedizione, a costruire il primo ponte spaziale tra Est e Ovest. E infatti non si dovettero risolvere solo i problemi tecnici ma anche i problemi psicologici derivanti da anni di reciproca diffidenza.
Il lancio avvenne il 15 luglio 1975. Da Baikonur, in Kazakistan, decollò la Soyuz 19, con a bordo i cosmonauti Alexei Leonov — il primo uomo ad aver compiuto una passeggiata spaziale — e Valeri Kubasov. Poche ore dopo, da Cape Canaveral, partì la capsula Apollo, con Thomas Stafford, Deke Slayton (alla sua unica missione spaziale, dopo essere stato escluso dai voli per anni a causa di un’aritmia cardiaca poi risolta) e Vance Brand. Le due navicelle impiegarono due giorni per raggiungere l’orbita d’incontro. E il 17 luglio, 225 km sopra la Terra, avvenne l’aggancio. I portelli si aprirono. Dopo il successo dell’aggancio tra le due navicelle, Stafford e Leonov si incontrarono nel modulo di collegamento. Leonov esclamò in inglese: “Very good to see you!” Stafford rispose in russo: “Ochen rad!” (Molto felice!) . Questo scambio di parole, semplice ma carico di significato, rappresentò un momento simbolico di distensione durante la Guerra Fredda.
Durante i giorni successivi, gli equipaggi si visitarono reciprocamente, condivisero esperimenti scientifici, scambiarono doni (una matrioska, una bandiera comune, medaglie commemorative), e soprattutto dimostrarono che, con volontà politica e compromessi tecnici, la cooperazione era possibile. Fu anche un evento molto seguito dai media: le immagini dell’incontro furono trasmesse in diretta e seguite da milioni di persone in tutto il mondo, a dimostrazione che lo Spazio, da palcoscenico di rivalità, poteva diventare un’arena di pace. La missione Apollo-Soyuz durò in tutto nove giorni. Dopo la separazione, le due navicelle proseguirono per conto proprio. L’Apollo rientrò con successo, non senza qualche problema: un errore nel sistema di ventilazione fece inalare ai tre astronauti vapori tossici di idrazina, provocando nausea e malori, fortunatamente senza nessuna conseguenza grave. La Soyuz, invece, atterrò senza intoppi nella steppa kazaka.