Mercoledì 8 Agosto
Dormito bene su brande. La doccia non funziona, per lavarsi occorre usare le taniche piene d’acqua nel cortile dietro la casa, sempre osservati da un grosso ramarro con la testa esagonale, che dicono essere velenoso. Alle 8:30 facciamo colazione tutti assieme, questi del GVC sono davvero brava gente. Marco sente che sto finendo i rullini fotografici e me ne regala due in bianco e nero. Prima di rimetterci in moto facciamo pure in tempo a dare un rapido sguardo al centro di Gabù, una piacevole cittadina con eleganti case attorniate da ampie balconate coperte in stile coloniale.
La prossima tappa è Piche, distante 33 km al costo di 100 Peso, e qui ci blocchiamo per mancanza di mezzi. A Camajaba, nei pressi del confine ad altri 13 chilometri, non ci va nessuno. Un locale però si offre di portarci con il suo trattore per 1500 Peso: lo consideriamo un colpo di fortuna. Giunti a Camajaba, qui davvero non c’è anima viva che vada al villaggio di frontiera di Buruntuma, situato ad altri 15 chilometri. Bisogna rassegnarsi a fare il percorso a piedi in un territorio costituito principalmente da savana. Dicono che la pista è in gran parte inondata, di conseguenza non passano neppure i camion che normalmente la percorrono durante la stagione secca. Importante, a questo punto, che non ricominci a piovere. La riflessione di Valentina, dettata dalle circostanze: “Che peccato che Marco abbia il Land Rover rotto”.
Decisi, partiamo a piedi che sono le 12. Per fortuna si aggrega a noi il taciturno Amiur, un ragazzino di 17 anni che conosce la zona e fa lo stesso percorso. Procediamo a zig-zag tra le buche d’acqua da aggirare. Siamo davvero nell’entroterra africano. Da un gruppo di capanne dei bambini appena ci vedono smettono di giocare e scappano via urlando. Le donne corrono a proteggere quei bimbi che piangono terrorizzati, dicendogli: “Se non fate i bravi vi facciamo mangiare dall’uomo bianco” (traduzione di Amiur). Straordinario, esattamente quello che si diceva da noi ai bambini bianchi sull’uomo nero. Ogni tanto incontriamo un contadino al lavoro in campi sperduti, da sembrare la terra di nessuno, e ogni volta chiediamo quanti chilometri mancano al confine. Chi risponde 5 e chi 3 “kilo”, nessuno sa dirci la distanza esatta ma sembra sempre “dietro l’angolo”.
Cammina e cammina ma qui i kilo non calano mai. Arriviamo alla dogana della Guinea Bissau di Buruntuma alle 16:30 e solo adesso capiamo che per i contadini dell’entroterra la percezione della distanza è diversa: un loro “kilo” in realtà corrisponde a 2-3 chilometri dei nostri. Non c’è mai da fidarsi. Inoltre, per le molte deviazioni quei 15 chilometri sono certamente diventati almeno 20. Abbiamo i piedi “cotti”. Nel controllare lo zaino il poliziotto mi chiede una maglietta color nocciola e gliela lascio assieme a dei dolcetti per niente buoni. Ci mostrano i fori di mitraglia degli scontri a fuoco durante la lotta per l’indipendenza dal Portogallo.
Bisogna affrettarsi. La dogana della Guinea Conakry chiude alle 18 e manca ancora un chilometro, da percorrere sempre tra sentierini scivolosi e acqua dovunque. Da questo valico di frontiera, aperto comunque da poco, dicono di non avere mai visto passare dei bianchi. Inoltre, in un contesto remoto come questo, il visto firmato da un ambasciatore incute sempre un’attenzione reverenziale. Da un rigido regime dittatoriale che dura da più di un ventennio mi aspettavo fastidiosi e scrupolosi controlli e invece non ci controllano neppure i bagagli.
Inizia a diluviare e il valido Amiur è sempre con noi. Soreboido, il primo abitato oltre confine, dista 13 chilometri ma per evitare un punto allagato i chilometri diventano 16. Arriviamo alle 22 completamente fradici, bagnati fino alle ossa e distrutti dalla fatica. Questa marcia in fila indiana, su e giù per colline di fango senza fermarci un attimo, ad un passo forsennato e al buio, zoppicando per una storta alla caviglia destra sotto un acquazzone monsonico tropicale è stata la cosa più hard e massacrante che abbia mai fatto: quando la realtà supera la fantasia. Complimenti a Valentina per la forza, d'altronde, kilo dopo kilo, ci siamo trovati costretti a continuare: quando abbiamo vagamente capito che poteva essere molto dura era ormai troppo tardi per tornare indietro.
Soreboido è un abitato agricolo formato da poche case e qualche capanna. Nella fascia di terra da Gabu a Koundara si parla Fula, un’etnia dedita alla pastorizia. Il bravo Amiur ci trova da dormire presso la casa di Madame M. Balia, che sarebbe anche bar ristorante ma non ha nulla da mangiare. Cerchiamo di asciugarci anche se tutto è bagnato. Madame ci assegna dei piccoli letti in corda con grossi nodi che non conciliano il sonno. Notte quasi in bianco per tutti.
Giovedì 9 Agosto
Sveglia alle 7, aria fresca. Oggi è il nostro terzo e ultimo giorno del visto di transito nel Paese e siamo ancora all’inizio. Anche a Soreboido non ci sono mezzi di trasporto, solo trattori che nel rimorchio caricano persone sotto compenso. Per Koundara, la nostra destinazione intermedia, mancano ancora 30 km e chiedono 100 Sily a testa. Abbiamo dei Peso da smaltire, Amiur dice che 1 Sily, la moneta locale, equivale a 2 Peso. Sempre Amiur trova chi ci cambia 2200 Peso per 1100 Sily. Alle 10, assieme ad una decina di altri viandanti, saliamo sul rimorchio del trattore che in due ore e mezzo ci porta a Koundara, una cittadina di quasi 20mila abitanti sperduta nell’estremo nord-ovest della Guinea Conakry. Prima di mezzogiorno il trattore ci scarica davanti all’Auberge Assifat, l’unico alloggio presente a Koundara.
Lasciamo gli zaini nella hall dell’albergo ma non alloggiamo poiché entro oggi dobbiamo uscire dal paese a causa del visto. Di fronte all’albergo ci sono camion e Land Rover strapieni di gente diretti in Senegal, chi va a Velingara, paese alla porta del Gambia, e chi a Tambacounda sulla via per Dakar, la nostra destinazione. Entrambi i mezzi e per entrambe le destinazioni chiedono 1500 Sily a persona. Un poliziotto in borghese ci valuta il dollaro 250 Sily, con il consenso di Amiur cambiamo 20 dollari per 5000 Sily e prenotiamo subito la cabina del Land Rover. Tuttavia, non c’è orario, partono soltanto quando i mezzi sono stracarichi di persone, pigiate all’inverosimile, persino negli abitacoli riescono a farcene stare 5 o 6, una addosso all’altra in un viaggio votato alla sofferenza.
Salutiamo Amiur e leghiamo con Lansana, per gli amici Leonard, “Assistant Contre Maitre Prevention”, un impiegato del villaggio di Kasmar che ama fare pratica d’inglese con gli stranieri e ci assiste in tutto, passo dopo passo. A Leonard chiediamo come mai tanti paesi hanno adottato il nome “guinea”? Leonard sale in cattedra: “Il nome deriva da un’espressione berbera che indica il paese dei neri e un insieme di regioni costiere comprese tra il Senegal e lo Zaire affacciate, appunto, sul golfo di Guinea”. In altre parole, la definizione Guinea si riferiva alle terre abitate dal Guineo, un termine collettivo per indicare il popolo africano che proveniva dalle regioni a sud del fiume Senegal.
Leonard è contro il regime di Sékou Touré e lo esprime senza timori: “Vuole mantenere tutti analfabeti per usarli meglio, odia la gente colta e ostacola chi sa leggere e scrivere”. Ecco perché nessuno sa leggere e scrivere. Famosa la sua frase: “È meglio vivere in povertà ed essere liberi che avere tanto denaro e dipendere da altri”. La stessa chiusura isolazionista seguita dall’Albania, la quale però dipende dall’Unione Sovietica. Suggerisce di fare comunque attenzione a parlare di politica: “In giro ci sono molti poliziotti in borghese, anche se non sembra perché troppo giovani o vestono di stracci, lavorano per il governo”. Cambiando di nuovo argomento, chiediamo a Leonard se c’è il modo di spedire una lettera o qualche cartolina; risponde che in Guinea non esistono cartoline e neppure souvenir. Alla capitale, Conakry, si trovano forse nel mercato centrale ma non qui.
Il titolare dell’albergo di nome Dawi, un tipino neutro, non sorridente ma neppure serioso, ci avverte che in una camera alloggia un altro italiano che ha però dei problemi ed è malmesso. Ci conduce da lui che troviamo coricato sul letto. Con nostro immenso stupore vediamo l’amico di Modena Nando Rabitti in un mare di guai, in pessime condizioni di salute ed in evidente stato confusionale. Conosco Nando di vista essendo benzinaio in una frazione di Modena chiamata “Bruciata”, so che ama viaggiare in moto e che abita in centro, vicino al cinema Scala. Mi è capitato parecchie volte di incontrare amici o conoscenti modenesi in giro per il mondo ma qui a Koundara e in questa circostanza è un flash di adrenalina unico.
A causa della politica di regime e della remota posizione geografica, da Koundara raramente passa qualche occidentale, in tanti non ne hanno mai visto uno, ed ora di colpo ci sono tre uomini ed una donna bianchi e … curiosamente, diciamo noi, tutti di Modena. Nando, di anni 43, racconta di avere attraversato il deserto con la sua moto Guzzi TTV 650 Enduro, ma a 25 chilometri da Koundara è caduto malamente mentre seguiva un camion, sul quale è stato poi caricato sofferente e claudicante. Il giovane capitano “Comandante di Brigata” che viaggiava col mezzo gli ha guidato la moto fino a Koundara, già pregustandone il possesso. Nei giorni che sono seguiti, l’alto ufficiale di nome Keita è riuscito a scucirgli tutti i soldi, la macchina fotografica e ogni altro gingillo e arnese di qualsiasi valore, rifiutandosi inoltre di restituirgli la moto.
Per completare il quadretto di per sé già drammatico, a Nando è caduta una candela accesa sul letto bruciando parte del materasso, parte dei bagagli e mezzo passaporto che ora è trattenuto al commissariato di polizia poiché Dawi chiede di essere risarcito dei danni subiti nella camera. Nando è malconcio ma cammina, si muove bene, solo confuso e sprovveduto. Lungo il tragitto, ha subito l’odissea di dogane che inventano tasse fasulle per lasciarti passare. È partito due mesi fa da Modena con 7 milioni di lire e adesso non ha più nulla, solo spiccioli. Racconta che a 130km da Arlit, nel Niger centrale, la moto si è rotta e si è messo a piangere perché ha dovuto abbandonarla in pieno deserto. Ad Arlit, poi, ha pagato 750 mila lire ad un camionista per andarla a recuperare.
Decidiamo di portare Nando fuori da questo “buco infernale”, pagandogli i danni e il viaggio in Land Rover assieme a Valentina, mentre Franco e io portiamo la Guzzi. Il problema è come recuperare la moto da Keita, oltre alla faccenda della scadenza del visto e del driver del Land Rover che ci prende in giro assicurando ogni volta di essere pronti ma poi rinvia la partenza di ora in ora per tutto il giorno. Ad attendere siamo in diversi. Nell’attesa mi diletto a fare il gioco del fazzoletto che sparisce dalla mano, grazie al pollice di plastica al quale infilo dento il leggero tessuto, e tutti saltano sorpresi come fosse vera magia o un potere divino. È un successo di pubblico che si meraviglia e ho dovuto smettere lo show per non ripetere il trucco all’infinito. Ed anche perché sento una fitta alla pancia fortissima, devo assolutamente trovare un bagno al più presto.
Chiedo al driver e mi dice: “Se mi spieghi la magia del fazzoletto ti faccio entrare in una casa di amici”. Certo, ecco fatto! Il driver è soddisfatto e di parola, a pochi passi apre il portone di un grande cortile racchiuso da alte mura e mi fa entrare. All’interno, di fronte ad una ventina di metri c’è la casa, sulla destra ad una decina di metri ci sono quattro donne ritte che stanno chiacchierando e sulla sinistra una costruzione circolare in mattoni larga circa un metro e alta 50 centimetri con un foro al centro. Una versione dei gabinetti “alla turca” in uso anche in Italia fino agli anni 50. Salire di corsa su quella piccola piattaforma senza pensare a nulla, abbassarmi i pantaloni e fare i miei bisogni, all’aperto e in presenza di sconosciuti, per loro sarà normale ma a me crea un enorme imbarazzo. L’esibizione è pubblica, mentre per lavarsi le parti intime c’è la stanza col bidone d’acqua.
Andiamo poi alla stazione di polizia per riscattare il mezzo-passaporto di Nando saldando il debito con Dawi che chiede 20mila Sily. Assieme al commissario ci informiamo sui prezzi e tra materasso e lenzuola viene un totale di 13.500 Sily. Dawi da arrabbiato diventa docile e concede lo sconto. Paghiamo con 5 dollari e 100 Sily. Infine, verso il tramonto pare chiaro a tutti che oggi con il Land Rover non si va da nessuna parte. Il driver si scusa e, con tono fermo e sicuro, garantisce che domani mattina partiremo di sicuro! Per la scadenza del nostro visto assicura che penserà lui a spiegare in dogana l’imprevisto del tempo perso. Non ci resta che passare la notte da Dawi. Prendiamo una camera accanto a quella di Nando per 300 Sily a testa, con un secchio d’acqua in comune come bagno e nessuno specchio. Valentina si addormenta e noi due usciamo.
Tornando in albergo col buio, Franco ed io notiamo la Guzzi posteggiata sul retro dell’edificio e ne preleviamo subito le chiavi. L’ufficiale Keita e un altro milite, totalmente ubriachi, sono tornati per vedere cos’altro scucire al povero Nando, completamente succube e incapace di reagire ai soprusi. Con il nostro arrivo i due si dileguano barcollanti. Provano a trascinare la moto, imprecando ferocemente, ma il loro equilibrio è troppo precario e sono costretti ad abbandonare la motoguzzi nel prato. Il giorno prima si erano fatti dare da Nando 7000 Sily, dicendo che erano per il governo, e adesso ne volevano altri 16.000 che Nando non ha.
Venerdì 10 Agosto
Al mattino, noi tre stiamo parlando con il driver e Nando è seduto sullo scalino di una casa in disparte quando riappare il comandante Keita, ancora straripante d’alcool, che si avvicina a Nando per convincerlo a consegnarli gli ultimi spiccioli. Questi è talmente intimorito che cerca perfino di scusarsi perché non ha più soldi, ma non gli riesce di opporsi. Gli consegna gli ultimi 500 Franchi Francesi. Ora Nando è completamente al verde, neppure una manciata di centesimi sufficienti a mangiare qualcosina lungo il tragitto verso Dakar. Disgustato, mi intrometto dando origine ad una furiosa lite e vado direttamente a denunciare il fatto alla stazione di polizia, convinto, in cuor mio, che non avrei ottenuto granché, essendo certo che in definitiva sono tutti della stessa risma.
Invece, appena terminato il verbale, in un lampo vengono allertati il capo della polizia, il giudice, e allestito al volo un tribunale nella sala del commissariato, con tanto di banco per gli imputati e posti a sedere per accusa e testimoni. Una sorprendente efficienza “nordica”, forse il prodotto dei “tribunali speciali” della presente dittatura. Probabilmente, erano già al corrente delle malefatte del comandante; aspettavano solo che qualcuno facesse una denuncia e in effetti, soltanto uno straniero di passaggio poteva esser tanto sconsiderato da mettersi contro ad una autorità locale.
La gente accorre numerosa per assistere allo spettacolo del processo per direttissima, tanto che, ancora una volta, viene sospesa la partenza del Land Rover. Prelevato e portato a forza nella sala, l’ufficiale tenta invano di negare, ma io lo accuso a tutto spiano e Nando, sempre più confuso, si limita a rispondere alle domande del giudice sempre in dialetto modenese, obbligandomi a complicate traduzioni. Nando parla con disinvoltura il dialetto modenese spacciandolo per francese e s’incattivisce quando gli interlocutori non capiscono o, come dice lui, “non seguono”. Questo suo modo di parlare scatena spesso l’ilarità tra gli indigeni, che ben tollerano la genuina singolarità dell’individuo.
Dal pubblico chiamo Leonard per aiutarci sia in francese che in lingua fula. E con noi, quando occorre, traduce il senso in inglese. Inaspettatamente, si presenta a nostro sostegno l’irreprensibile e temerario titolare dell’hotel, Dawi, testimone oculare dei misfatti del comandante. Lamenta che Nando non ha potuto pagare il danno dell’incendio solo perché i soldi glieli ha presi Keita. Il giudice invita a parlare un poliziotto e un signore in carne che alloggia in albergo, entrambi confermano il ricatto subito da Nando e pure il furto della macchina fotografica. Tutti molto onesti e coraggiosi a denunciare Keita in favore di Nando. La città è piccola e la gente mormora.
All’inizio Keita, ancora cotto dall’alcol, ha un atteggiamento da strafottente arrogante ma ben presto inizia a realizzare che la cosa è seria e l’espressione del volto si incupisce rapidamente. Il processo è lungo, con il giudice che raccoglie altre conferme, compresa quella dell’uomo che al mercato nero ha cambiato i 500 Franchi Francesi appena presi a Nando da Keita. Finito il dibattito, a Keita viene tolta la pistola dal fodero e dopo un breve consulto in “camera di consiglio”, il giudice stabilisce la piena colpevolezza dell’imputato macchiatosi di un reato gravissimo: “Con il suo operato criminoso nei confronti di stranieri, ha messo in cattiva luce la reputazione dell’intera nazione”.
Il comandante viene fatto alzare, degradato all’istante a soldato semplice tramite l’umiliante strappo delle mostrine, obbligato a scusarsi pubblicamente con noi e mandato in giro, con una scorta armata, a cercare di racimolare presso amici e parenti il denaro e gli oggetti sottratti a Nando. Dopo un’oretta torna con un enorme pacco di valuta locale, equivalente alla metà della cifra sottratta. Keita risponde che la parte mancante non riesce a restituirla, ormai l’ha spesa. Apre poi un fagotto di tela contenente la macchina fotografica, l’orologio, la chiave inglese, il coltello svizzero ed altri arnesi da viaggio. Tutto viene restituito a Nando.
Chiedono a Nando se vuole che Keita procuri comunque la somma totale ma lui, sempre più confuso, risponde che va bene così, quasi tende a scusare Keita ed è addirittura dispiaciuto di avere creato tanto scompiglio. Terminato il tutto, il giudice si scusa tantissimo con noi per l’accaduto: “È la prima volta che succede”. In verità non ci riesce di provare soddisfazione per un epilogo giusto, ma anche tanto sommario quanto inquietante.
Mentre mangiamo riso e manioca nella bettola di fronte alla stazione di polizia, sulla via passa l’ex ufficiale Keita scortato da due guardie col fucile a tracolla, ci vede e obbliga le guardie a deviare fino al nostro tavolo per consegnare altri 4000 Sily a Nando e per supplicarci, con gli occhi lucidi, di intercedere in suo favore presso il giudice: “Messieurs, ils vont me faire du mal” (“Vanno a farmi del male” ). Un brivido mi scuote la schiena. Lascio subito il ristorante e corro a parlare col giudice, spiegando che noi ci ritenevamo ampiamente soddisfatti e pregandolo di non usare troppo rigore.
Il magistrato mi rassicura, ma cosa sia successo in seguito all’ex Comandante Keita non ci è dato di sapere. Per certo, pensando a questo ultimo tratto di viaggio ho elaborato in proposito una suggestiva teoria: che qualcuno da lassù ci abbia sospinto a Koundara solo per soccorrere Nando, poiché ha davvero rischiato di non uscirne più.
Il driver del Land Rover ha atteso la sentenza finale alla quale tutti i passeggeri hanno assistito. Ma poi ha dovuto attendere noi per darci il tempo di risolvere i problemi con la polizia. Poliziotti e tutti si dimostrano dispiaciuti per il comportamento amorale di Keita. Leonard, nel ruolo di traduttore, ha aiutato molto Nando, il quale pare essere l’unico a non aver percepito bene l’intero accaduto. Preferisce parlare di continuo degli amici del bar Autodromo a Modena e l’impressione è quella che abbia attraversato il deserto per una sorta di scommessa con loro. Una scelta molto coraggiosa, meditata e desiderata per anni e che ha comunque portato a termine fino alla caduta.