Mi sono spesso vergognato della mia vita, perché ho sorpreso la mia anima a non avere il coraggio di fare ciò che la suprema follia - essenza della vita - mi gridava di fare; ma non mi sono mai vergognato tanto della mia anima come di fronte a Zorba.

(Nikos Kazantzakis)

Zorba, quell'Alexis Zorbas protagonista del romanzo di Kazantzakis, divenuto celeberrimo dopo che il regista cretese Michael Kakoiannis ne trasse un film con la straordinaria interpretazione di Anthony Quinn, quel vigoroso vecchio, crudele ed innocente, entusiasta come un fanciullo e risoluto come un antico guerriero che squassa, sconvolge e conquista l'anima del protagonista, un timido intellettuale intriso di cultura libresca, è stata per me la Grecia stessa.

Non ricordo le motivazioni che mi portarono, appena ventenne, ad andarci per la prima volta con alcuni amici, tutti ragazzi come me e freschi di studi classici. Probabilmente, più che dal desiderio di cercare lo sfondo naturale del Mito, eravamo spinti più prosaicamente dalla ricerca di occasionali avventure sentimentali estive in un posto bello, relativamente esotico e soprattutto, spiantati come eravamo, molto meno costoso di altre mete. L'euro era ancora di là da venire e la gloriosa dracma, con le effigi degli dei e degli eroi greci, ci scorreva tra le dita facendoci sentire dei principi sibariti con infinite possibilità.

Andammo a Corfù e ricordo che, sulla bellissima spiaggia di Pelekas, selvaggia e raggiungibile solo con una ripida discesa tra mirti e olivastri, cercai di abbordare una bellissima sirena che prendeva il sole nuda come mamma l'aveva fatta perché in quella spiaggia, segno dei tempi, era già permesso il nudismo. L'eterea ninfa, con mia grande delusione, non era stata generata dalle acque verdazzurre dello Jonio ma era più prosaicamente una turista americana, tanto bella quanto ignorante, almeno riguardo i miti e la gloria di cui era intrisa ogni pietra o sasso greco su cui era sdraiata al sole. Non sapendo come attaccare bottone (conoscevo meglio il greco antico dell'inglese), le raccontai la storia di Odisseo e di Calipso e di come si fossero amati. Guarda caso: proprio in quella grotta laggiù, e se avesse voluto gliela avrei mostrata. Lei con un malizioso sorrisetto accettò la mia proposta, con buona pace di chi sostiene che nella vita gli studi classici non servono a nulla.

Nuotammo insieme fino alla grotticella che aveva nel fondo una stupefacente spiaggetta di ciottoli bianchi come perle di marmo dove la luce, penetrando nella fresca oscurità dell'antro dal basso attraverso l'acqua, irradiava un meraviglioso lucore verdazzurro. In quell'accogliente alcova naturale le cose andarono secondo natura e, dopo, lei mi chiese di raccontarle altre storie. Fresco com'ero di studi classici, le recitai il VI canto dell'Odissea. Quando Ulisse naufrago solo e disperato incontra Nausicaa e la saluta con le parole più belle che un uomo possa dire a una donna, lavandaia o principessa che sia. Ricordo che mi emozionai più io a recitarle che lei ad ascoltarle, tutto sommato giustificata dal mio ridicolo inglese che ostinatamente anche ora si rifiuta categoricamente di entrarmi in testa.

Ma per fortuna nel cuore e nell'anima mi stava entrando quella terra, sull'onda della storia e dei miti che avevano popolato la mia prima giovinezza. Per la sua bellezza e la rude ma sincera ospitalità della gente, quando ancora non era corrotta dalle lusinghe del turismo di massa che devasta, stritolandolo, tutto ciò che tocca. Da allora, quasi ogni anno, ho viaggiato in Grecia con ogni mezzo. Percorrendola in lungo e in largo a piedi, in moto, in auto, in barca a vela. Ho esplorato i suoi laghi con decrepite città arroccate sulle rive, irte di minareti e di arkontikà lasciate dai conquistatori ottomani prima che, dopo quattro secoli di dominio, venissero cacciati dall'“Aquila bicipite” risorta dalle ceneri di Bisanzio.

Ho vagato per le sue montagne, tra i borghi in pietra della Zagoria dove giganteschi molossi dell'Epiro guidano da soli immense greggi di pecore e di capre a pascolare e se incrociano il tuo sentiero devi aspettare immobile che il branco passi, mentre tre o quattro colossali bestie ringhianti ti sbarrano il passo. Sono sceso sul fondo di orridi magnifici e spaventosi come le gole di Vikos in Epiro o le gole di Aradena sotto i monti Bianchi di Creta, ho bordeggiato le coste del Taigeto, nella penisola del Mani, terra di eroi ribelli che, asserragliati nelle loro assurde case torri, resistettero fino alla fine ai conquistatori ottomani. Ho navigato su agili vele tra le isole ionie, verdi come una manciata di smeraldi gettati su un mare turchese dove qua e là scogliere bianche come neve, percosse dalle onde, si consumano macchiando di latte l'azzurro di quel mare. Ho caracollato a bordo di indomiti piccoli battelli che facevano servizio tra le piccole Cicladi spazzate dal meltemi e ho ascoltato stormire i platani nel silenzio e nel mistero tra le rovine del Santuario dei Grandi Dei a Samotracia.

Qualche anno fa, ottenuto il Diamonitirion, il permesso del Patriarca ecumenico di Costantinopoli, sono approdato sul sacro monte Athos. Dove da più di mille anni antichissimi monasteri della Chiesa Cristiana Ortodossa, fortificati come castelli, si ergono simili a nidi d'aquila lungo la penisola più orientale della Calcidica. Dove, si dice, sia approdata la Madonna per salvarsi da una tempesta mentre fuggiva dalla Palestina, consacrando a Sé quel luogo per l'eternità. Assurdo, ma per quanto l'Athos sia consacrato alla “Prima di tutte le donne”, è proprio alle donne e a ogni essere vivente di sesso femminile che da secoli è vietato l'ingresso, ad eccezione delle galline per le uova, delle vacche per il latte e delle gatte per difendere i granai dai topi.

E ancora oggi, nonostante sia tanto cambiata e mi sembri oramai una bellissima cortigiana imbellettata con trucchi di pessima qualità che si offre a chiunque arrivi attratto da tanta bellezza a buon mercato, sono tornato in Grecia e in questo preciso istante mi trovo nel microscopico villaggio di Kottes, nell'estrema propaggine meridionale di quella dorsale montuosa ricoperta di foreste che è il Pelio. Kottes è un villaggio di pescatori, quelli veri, che sbrogliano le reti sul molo frantumando roccette, ricci e murici impigliati nelle maglie con un pestello di legno d'ulivo con metodica lentezza, roba che adesso, anche in Grecia, si fa fatica a vedere. E mentre una radio lontana trasmette un trasognato rebetiko, sto gustando, con la lentezza che richiede, un caffè greco che poi è come quello turco ma guai a farlo notare perché altrimenti, la gentile signora che me lo ha servito, sentendo l'ancestrale richiamo dell'eroe dell'indipendenza Kolokotronis, mi getterebbe in acqua inferocita. Perché se c'è una cosa che fa infuriare anche il greco più mite, è fargli notare come spesso le usanze elleniche ricordino quelle dell'odiato vicino turco, nemico di sempre.

Perché allora continuo a tornare in Grecia, nonostante orde di invadenti turisti balcanici: serbi, bulgari, rumeni che, arricchitisi negli ultimi anni, rivendicano la loro fetta di paradiso nel giardino del vicino di casa greco che è ben felice di accoglierli? Perché, nonostante tranquille baie siano oggi violentate da oscene moto d'acqua e da mostruosi gommoni sovralimentati che vengono noleggiati a dementi incapaci, più pericolosi per un bagnante dello Squalo del film di Spielberg?

Non lo so nemmeno io.

Sicuramente perché i vecchi amori sono duri a morire, tradirli sarebbe come rinnegare una parte di noi stessi e per di più la migliore, quella aperta al sogno e alla reminiscenza, quella che più direttamente parla allo spirito. Forse anche per quelle piccole cappelline bianche di calce, appollaiate su brulle colline; o per quei monasteri semiabbandonati che raggiungi solo dopo chilometri di sterrati e dentro i quali, a volte, ti accoglie un monaco con il saio un po' liso che ti offre uno zuccheroso cubetto di loukumi, simbolo di ospitalità.

O più probabilmente, come scrive nel suo Viaggi nel Peloponneso Sir Patrick Leigh Fermor, scrittore e viaggiatore britannico: “per lo sconfinato cielo greco: un cielo più alto, più leggero, che ti circonda più da vicino e si stende più in là nello spazio che in qualunque altro luogo del mondo. Non intimidisce, non sminuisce ma è ospitale e accogliente per l'uomo, suo elemento non meno della terra e pare che solo un errore di gravità inchiodi l'uomo alle rocce e al ponte della nave e gli impedisca di essere assunto nell'infinito".