È il 2020 quando Olga Piccolo, storica dell’arte e ‘investigatrice’ nell’arte, viene contattata in seguito all’acquisizione, ad un’asta svoltasi in Germania, di un dipinto che raffigura un Giovane ignudo che fugge nella cattura di Cristo, soggetto di un quadro del Correggio che la critica ritiene da tanto tempo perduto. Si tratta di un’opera su tavola di 60,5 x 46,4 cm che reca al verso un’etichetta, abrasa ma parzialmente leggibile agli ultravioletti, con un’annotazione importante sulla provenienza Barberini e la stima, molto alta per l’epoca, di «1.000 scudi». Di questo soggetto la storia critica annovera più copie e non è immediato capire di che tipo di manufatto si tratti. Comincia così, a detta di Olga Piccolo, lo studio «matto e disperatissimo» necessario a espertizzare il quadro che potrebbe essere l’originale perduto di uno dei più grandi maestri del Rinascimento, databile al 1530 circa.

A distanza di cinque anni dalla scoperta del dipinto, lo scorso 5 Giugno 2025, Olga Piccolo ha infine ultimato il volume che raccoglie i risultati della sua ricerca avvalendosi dei contributi di più studiosi1 che, grazie a prospettive di analisi diverse, hanno permesso di definire criticamente le caratteristiche materiche, stilistiche, storiche, iconografiche e iconologiche del quadro per collocarlo nell’alveo della produzione del Correggio.

Quello che porta nel 2020 il Giovane ignudo all’attenzione della studiosa è solo l’ultimo dei rocamboleschi passaggi di mano che l’opera subisce nel corso di ben cinque secoli. Procedendo a ritroso, il dipinto ritorna in Europa dopo essere transitato per il Continente americano. Nel 1957, infatti, Frederick William Schumacher, proprietario di miniere d’oro, lo dona al Columbus Museum dell’Ohio che, incautamente, nel 2012 se lo lascia sfuggire mettendolo all’asta da Christie’s a New York, per finanziare l’acquisizione di nuove opere d’arte.

A sua volta Schumacher aveva acquistato il dipinto all’incanto da Parke-Bernet a New York nel 1949, dopo che era deceduto l’allora possessore Alexander von Frey, collezionista e mercante d’arte ungherese a cui l’aveva venduto Max Rothschild, figlio di David S. Rothschild di Manchester, da cui lo eredita nei primi anni del ventesimo secolo. Quando il dipinto è a Londra, attira l’attenzione di studiosi come Georg Gronau che lo ritiene l’originale perduto e, proprio su proposta di Alexander von Frey, lo storico dell’arte Adolfo Venturi lo inserisce tra le «Nuove attribuzioni» a Correggio nella mostra che si tiene al Palazzo della Pilotta di Parma nel 1935.

Grazie ai documenti ora ritrovati, sappiamo con certezza che il dipinto si trova in Inghilterra già tra il 1774 e il 1779. Ricaviamo inoltre notizia che uno degli ultimi possessori, prima dell’arrivo del dipinto a Londra, è l’antiquario inglese, che vive a Roma, Thomas Jenkins per il cui tramite risaliamo infine a una delle tre nobildonne che risultano collezioniste del quadro tra il sedicesimo e il diciottesimo secolo: Cornelia Costanza Barberini. Cornelia, infatti, per far fronte ai debiti contratti dal marito, nel 1767 deve vendere a Jenkins molti capolavori di famiglia, tra cui evidentemente anche il «Giovine nudo del celebre Correggio». Ai Barberini il dipinto era pervenuto dalla collezione di un’altra nobildonna, Caterina de’ Nobili Sforza di Santa Fiora, che ne era in possesso almeno dal 1595 e da cui il cardinale Antonio Barberini lo acquista grazie a un prestanome nel 1630.

È solo andando indietro di qualche anno, però, che il dipinto risulta catalogato per la prima volta tra i beni del casato nobiliare che con ogni probabilità lo commissionò al Correggio, come ha ricostruito Olga Piccolo, e cioè gli Este, che avevano collezionato altri capolavori del pittore: l’Allegoria della Virtù, l’Allegoria del Vizio e gli Amori di Giove. È il 1592 e il Giovane ignudo compare, infatti, nell’inventario che censisce le opere di Lucrezia d’Este nel Palazzo Ducale di Ferrara. La duchessa possiede un piccolo oratorio «tutto dorato con quadri di diversi misterij» tra cui spicca il dipinto che viene allora descritto come «Una notte con San Giovanni quando il menegoldo lo volsi pigliarsi che gli lasciò il lenzuolo».

Giungiamo così al soggetto di un quadro che nel corso delle sue catalogazioni non è stato esente da fraintendimenti e che deve aver tacitamente suscitato il sapore dello scandalo o quanto meno della perplessità agli occhi di un pubblico dal punto di vista filosofico ‘indifeso’. Il soggetto, infatti, si inspira ad un passo dell’evangelista Marco e ritrae in primo piano un giovane discinto che si defila dalla presa di uno dei soldati presenti nel Getsemani al momento della cattura di Cristo. Il giovane, colto nell’atto di fuggire, lascia un lenzuolo dietro di sé, offrendo allo sguardo degli astanti parte della propria sagoma nuda che ha permesso che egli venisse anche inventariato come «Donna nuda in atto di fuggire».

Che il fraintendimento abbia portato a ravvisare la nudità femminile piuttosto che quella maschile non cambia di molto il fulcro della questione: la cronaca evangelica avrebbe inspiegabilmente evocato, agli occhi di un pubblico cristiano, i fantasmi della sessualità in un contesto di sacralità assoluta come quella del Getsemani. Marco non rivela infatti l’identità del giovane, ma il Padre della Chiesa Ambrogio sì, e ci dice che si tratta di Giovanni, il discepolo che Cristo «amava».

Per coloro, però, che conoscono l’importanza della simbologia nella cultura medievale e rinascimentale, è proprio qui, nello scarto sottilissimo e spesso invisibile tra significato letterale e significato simbolico, che la visionarietà degli antichi esprime al meglio le proprie soluzioni creative, schiacciando l’occhio ad un codice di valori e di significazioni noto solo agli ‘addetti’, cioè ad artisti del calibro di Dosso Dossi, Michelangelo, Tiziano, Raffaello e proprio Correggio, di cui gli Este si circondavano.

In questo ‘codice’, condiviso dalla discrezione necessaria imposta alle corporazioni dei pittori come agli edotti uomini di Chiesa, ogni dettaglio apparentemente insignificante trova una nuova veste e una nuova luce e infine riscatta il messaggio generale della scena del dipinto dall’immediato imbarazzo dell’ammiccamento sensuale.

Nella mito-poiesi tanto medievale quanto rinascimentale, seppur con formule variate e diverse, la narrazione cronachistica dei Vangeli subisce la medesima sorte dell’affabulazione mitologica e poetica: entrambe vengono sublimate in una superiore sintesi di simboli e di operazioni in cui ciò che è profano diventa sacro e ciò che è materiale diventa spirituale.

Non deve stupire allora la foggia femminea dell’apostolo Giovanni, il «Giovane ignudo» appunto, che all’interno di un superiore sistema di codifica va inquadrato come parte del tetramorfo, la costruzione simbolica, cioè, che unisce i quattro evangelisti mediante un codice animale (Giovanni è l’aquila), ma anche temperamentale (Giovanni è il sangue) oltre che attraverso gli elementi empedoclei e altre cifrature simboliche.

L’apostolo Giovanni, quarto di una serie di evangelisti, è inoltre anche il terzo di una triade di apostoli (con Giacomo e Pietro) che assiste alla trasfigurazione di Cristo sul Monte Tabor e alla sua veglia nel Getsemani, ed è già definito da Dante, «vergine lieta» nel venticinquesimo canto del Paradiso, secondo una simbologia evidentemente affine a quella usata dal Correggio in termini pittorici e che andrebbe finalmente studiata in senso storico-comparatistico.

Non deve sfuggire infatti come tutto nella scena del dipinto possa infine essere riportato ad una descrizione in codice: dalla capigliatura rossa, che ritroviamo tanto nel Giovanni dipinto da Correggio quanto in quello di Albrecht Dürer e – la cosa non sfuggirà agli appassionati di divulgazione esoterica – anche nel Giovanni dell’Ultima Cena di Leonardo da Vinci, al mantello pur sempre rosso che si stacca dal corpo dell’apostolo che come il mercurio – la femminea sostanza degli alchimisti – lascia dietro di sé la pesantezza del cinabro e prende a volatilizzare; dalla foggia dell’elmo del soldato all’elsa della sua spada con voluta ionica e testa d’aquila che richiama il valore simbolico dell’animale figurato dall’apostolo. Giovanni, ricordiamolo, oltre ad essere il profetico autore dell’Apocalisse, è anche colui che negli apocrifi è in grado di trasmutare le verghe in oro e i sassi in pietre preziose.

E un valore dovettero averlo anche la mano destra del soldato che incalza Giovanni tentando invano di ghermirlo con la mano sinistra che punta al suo orecchio, mentre sullo sfondo un Cristo più lontano e più sereno con la stessa mano destra cura la ferita dell’orecchio di Malco, tagliatogli da Pietro. E tutto in quel Getsemani, l’orto della frantumazione della ‘materia’, ‘frantoio’, dove compare diafana, impalpabile e femminea la sostanza raffigurata dal Correggio nel suo Giovane ignudo che oggi, dopo cinque secoli, grazie al lavoro di studiosi come Olga Piccolo, offre a tutti i sinceri cercatori della verità celata nella lettera, la nobiltà senza imbarazzo delle sue simboliche ‘grazie’.

Note

1 Correggio: il Giovane ignudo dalle collezioni Este, Sforza e Barberini. Studi e ricerche, a cura di Olga Piccolo, Premessa di Giuseppe Pavanello, Scripta edizioni, Verona 2025. Ne citiamo brevemente i contributi in ordine alfabetico: Lucia Calzona documenta la presenza dell’opera nella collezione di Caterina Sforza di Santa Fiora; Nella Coletta propone un’ipotesi di lettura iconologica del soggetto, spiegando come nell’originale i simboli hanno un preciso significato; David Ekserdjian, massimo studioso di Correggio a livello internazionale, indaga l’iconografia; Claudio Falcucci e Marta Variali discutono le analisi diagnostiche sul dipinto rilevando la tavola di legno di noce (come riportato nelle fonti) e la presenza dei pigmenti in uso all’epoca di Correggio; Claudio Franzoni, Presidente della Fondazione Il Correggio Onlus, ha scritto i saluti iniziali; Angelo Loda fornisce un ulteriore inquadramento iconografico del soggetto nella postfazione al volume; Marialucia Menegatti colloca l’opera in relazione al casato degli Este; Alessandra Pattanaro ha indagato sul dipinto di Girolamo da Carpi esposto in pendant nella raccolta di Lucrezia d’Este; Lorenza Mochi Onori ricostruisce la vendita dell’opera nella collezione di Cornelia Costanza Barberini; Giuseppe Pavanello, direttore della rivista «Ricche Minere», offre la possibilità a Olga Piccolo di pubblicare il dipinto sulla rivista (già nel 2021) e ha scritto la premessa al volume; Olga Piccolo ha coordinato i lavori degli studiosi compiendo allo stesso tempo le ricerche d’archivio che hanno permesso il reperimento delle fonti necessarie alla ricostruzione dei passaggi collezionistici dell’opera; Mary Vaccaro rileva il soggetto del quadro nella produzione di Francesco Maria Rondani, allievo di Correggio.