La mamma è priparata la puddica, chena di cchiapparini e pumbitori, l’è fatta cu lu grano ti la spiga, è chena tutta casa ti l’andori.

[la mamma ha preparato la puddica, piena di capperi e pomodori, l’ha fatta col grano duro, ha riempito tutta la casa con l’odore.]

(Canzone popolare brindisina)

Una volta, di ritorno da un viaggio a Milano, ci trovammo all’altezza di Cesena ad ora di pranzo. Proposi una sosta per far provare alla famiglia quella che, da come ricordavo, era una delle migliori piadine (al netto di quella di mia zia cesenate, inarrivabile) in circolazione. Il posto era giusto vicino all’uscita dell’autostrada e fidavo di trovarlo ancora aperto, dopo tanti anni. Mi trovai invece subito davanti ad una grande negozio di hamburger, di cui volontariamente ometto il nome, ma che aveva sull’insegna una grande M. Pensai che, se non avessi trovato il posto che cercavo, al massimo, obtorto collo, avremmo preso qualcosa lì. Invece il posto c’era, eccome se c’era. Proprio di fronte all’ingresso con la grande M sopra, esattamente dalla parte opposta della strada. Mangiammo delle piadine buonissime, con ulteriore scorta per il viaggio. Al momento di pagare chiesi al proprietario come vivesse la presenza ingombrante di quel palazzone davanti al suo chiosco. Serafico mi rispose:

Quello è una benedizione. Tanta gente arriva per andarci, poi mi vede e sceglie di venire qui. Oppure i genitori lasciano i ragazzi e vengono qui a farsi la loro piadina. Insomma, quello è la mia miglior pubblicità. Spero che non chiuda mai.

Il classico caso alla Davide contro Golia. Un caso simile accadde anche qui in Puglia, precisamente ad Altamura. Il colosso con la M decise di inaugurare un nuovo negozio, col solito spreco di lustrini e scintillii. Peccato che lì davanti ci fosse un forno il cui pezzo forte era la focaccia tradizionale e i tanti prodotti da forno tipici della zona, taralli e biscotti. Al contrario di quello di Cesena, questo gigante con la M ha dovuto chiudere i battenti dopo un anno. La forza della tradizione.

Tradizione richiamata da questa canzone, da sempre bandiera canora di Brindisi, che introduce perfettamente una pietanza che segna le tipicità delle varie provincie pugliesi: la focaccia e le sue declinazioni. Di stretta derivazione rurale, caratterizzata dalla lista degli ingredienti estremamente breve, trattandosi di alimenti che erano di facile reperibilità per tutti (farina, sale, acqua, olio, pomodori), la focaccia occupa un posto di rilievo nella storia gastronomica di Puglia. E la forza della tradizione la si trova sempre in quella strofa: semplicità, con un numero limitato di ingredienti e riuscita, con l’odore che si spande per tutta la casa, anticipando il momento della degustazione.

Esattamente il contrario di ciò che avviene nei prodotti della grande M. Pur di attirare clienti, gli ingredienti aumentano sempre più, nella speranza di intercettare il gusto perfetto, come se il gusto fosse una mera sommatoria matematica di tanti gusti di versi. Non parliamo poi del profumo: mi è capitato una volta di passare vicino ad un furgone che riforniva un negozio e quello che promanava dal mezzo odorava di tristezza stantia.

Si capisce, quindi, come i prodotti della tradizione siamo così radicati e come ogni provincia abbia il suo pezzo forte da difendere. Nel caso brindisino la puddica. Questa focaccia deve, probabilmente, il suo nome a reminiscenze latine nel dialetto, in particolare da pollex, che significa pollice, il quale ha una strategica importanza nella preparazione. Infatti, quando la massa, composta da farina, lievito, olio e sale, è pronta, si stende in teglia ben unta e si punzecchia col pollice, creando tanti piccoli incavi nei quali andranno posti i pomodorini, seguiti poi dal resto degli ingredienti: capperi e origano. Si inforna e dopo pochi minuti si comincia a percepire il buon profumo.

A Bari si trova la Focaccia Barese, vanto locale. La massa è ottenuta con gli stessi ingredienti della puddica, qualcuno ci aggiunge una piccola percentuale di patata lessa, per avere più morbidezza. È diversa la consistenza, essendo la barese più bassa della brindisina. Anche il condimento si diversifica sostituendo ai capperi le olive. Il risultato non cambia: una bontà unica, capace di salvare qualunque momento di crisi gastronomica (è un classico consumarla in strada, appena fuori dal panificio) o supporto ideale per scampagnate improvvisate, accompagnata immancabilmente da una birra fredda.

Il Salento ha come protagonista la puccia, un pane tondeggiante di 20/30 centimetri di diametro, che ricorda le forme del pane arabo. Avendo poca mollica si presta particolarmente alle farciture più varie, diventando un irrinunciabile street-food. Con una storia antichissima ha subito tante variazioni fino ad arrivare alla forma attuale, che tanto successo riscuote. In una variante si aggiunge alla massa cipolla, capperi, pomodori e olive nere. La variante più importante è la puccia dell’immacolata, nate per spezzare il digiuno della vigilia. Questa versione si differenzia dalle altre per la presenza nell’impasto delle olive nere rigorosamente intere, non denocciolate, come da tradizione, per mangiare più lentamente ed assaporare meglio. Anche la consistenza è diversa, con appena un po' più di mollica rispetto ad un panino comune. Si farcisce con tonno, capperi, formaggio e i cosiddetti Franfullicchi, dei pescetti marinati in aceto.

La tradizione dei lievitati pugliesi trova la sua sublimazione nel calzone di cipolle o di sponsali, una focaccia ripiena di un soffritto di cipolle, capperi e olive nere. Se il profumo della puddica prepara le papille gustative al gusto che incontreranno, il profumo del calzone letteralmente le eccita, pregustando una vera e propria tempesta di gusto. Come al solito, esiste almeno una versione per provincia, e ognuna ha il suo seguito, accomunate tutte dalla stessa bontà. Fra queste una citazione merita sicuramente il Calzone di cipolla di Acquaviva, perché l’ingrediente principale del ripieno è la cipolla rossa locale, totalmente differente per gusto da tutte le altre cipolle.

Sul mio podio personalissimo resta imbattuto il calzone di cipolla di mia madre, immancabile nelle tavolate natalizie, ma richiesto in tutte le occasioni. Dopo aver preparato l’impasto, con i soliti semplici ingredienti si passa al ricco ripieno composto da: cipolla in gran quantità, capperi, olive nere denocciolate, acciughe e pochi pomodorini. Si fa andare tutto insieme in olio d’oliva e già in questo momento la casa si riempie di un ottimo odorino. Quando la massa ha raggiunto la giusta lievitazione si compone, in teglia oliata, il calzone, adagiando una parte della massa e coprendo con il ripieno. Infine, si copre tutto con la restante massa, avendo cura di punzecchiarla con i rebbi di una forchetta su tutta la superficie, il che impedirà alla pasta di gonfiarsi in cottura, ma permette anche ad una minima parte del ripieno di fuoriuscire e rendere la superficie ancora più gustosa.

Dopo qualche minuto in forno, il profumo si spande di nuovo per la casa e comincia il conto alla rovescia per arrivare al momento dell’assaggio, che non delude mai. Come per le focacce al pomodoro si trovano ricette diverse da città a città, anche per il calzone di cipolla ognuno ha la propria. Ad esempio, nel ripieno del calzone molfettese troviamo sponsali e merluzzo, in una golosa alternativa marinara. Mia suocera aggiunge delle patate lesse all’impasto. Altri differenziano il ripieno aggiungendo della ricotta forte, altro presidio gastronomico tradizionale o del pecorino. Una volta ho anche provato un calzone con dell’uvetta aggiunta al ripieno. Sono sfumature che nulla tolgono al gusto sensazionale, nella sua semplicità, di questi tesori dal passato, gelosamente preservati dall’oblio, di fronte al nuovo che avanza, salvo incidenti di percorso, impetuoso.