Dieci anni fa, se postavi una zucchina sui social, non fregava niente a nessuno. Oggi, invece, anche una zucchina può ricevere attenzione. Sembra una sciocchezza, ma indica che qualcosa, anche solo nella coscienza collettiva, si muove.

Lo fa notare Giacomo Lepri quarantenne, diploma al liceo scientifico, laurea in antropologia alla Sapienza di Roma, braccia e mente regalate all’agricoltura per convinzione, passione, impegno politico. La prima volta che l’ho incontrato iniziava i suoi primi passi in direzione "agricoltura urbana", aveva molte idee visionarie, venticinque anni e l’identica tigna, come dicono i romani. E come lui una manciata di altri ragazzi e ragazze: agronomi, architetti, veterinari, biologi, che stavano scegliendo di fare i braccianti, i cuochi, gli allevatori convinti dall’idea che un mondo migliore si può realizzare partendo dal basso e dal cibo con impegno, pazienza, dedizione. Caratteristiche tipiche dei bravi contadini.

L’avventura inizia grazie a un mentore antesignano e visionario: Paolo Ramundo, architetto che nel 1977 fondò la cooperativa Co.bra.gor, nata da un’iniziativa di disoccupati che iniziarono uno sciopero alla rovescia su un terreno di proprietà pubblica a Roma Nord. Ben presto divenne punto di riferimento politico per contrastare la speculazione edilizia, ma soprattutto orto urbano al servizio della comunità. L’azienda esiste e produce ancora e, appunto, ha ispirato nuove generazioni.

La cooperativa Coraggio che presiede Giacomo Lepri – “allievo” di Paolo Ramundo – è una di queste. Si trova nel Parco naturale di Veio, quarto per estensione del Lazio, sulla via Francigena, incastonato tra popolosi quartieri metropolitani, tra via Flaminia e via Cassia. Fondata nel 2015, la Coraggio oggi è un’impresa sociale sperimentale che crea lavoro, cibo e servizi fruibili dalla comunità, curando il territorio e la qualità della vita attraverso pratiche agricole ecologiche su ventidue ettari di terre pubbliche, con 1400 metri quadrati di casali dei primi del Novecento da poco riportati in vita.

È un punto di riferimento per la città che, vale la pena ricordalo, è il più grande comune agricolo d’Europa (63 mila ettari coltivati e una superficie pubblica coltivabile superiore a dieci mila ettari).

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Comincio dando i numeri: dal 2015 a oggi parlando di attività agricola la Coraggio ha prodotto 359 quintali di cereali, 65,6 quintali di legumi, 115,5 quintali di ortaggi e avete piantato 300 alberi. E siete solo in sette persone fisse.

Sì, e in quest’area non c’è acqua da falda: raccogliamo acque meteoriche, i suoli sono stati rigenerati e migliorati con tecniche agroecologiche, rotazioni e sovesci.

Siete un caso di successo studiato e imitato anche altrove per l'esperienza che unisce collettività, formazione e politiche del cibo, ma qual è stata la risposta del territorio?

Ottima, perché offriamo servizi che prima non c’erano. Intorno all’attività agricola abbiamo costruito un ambiente aperto: c’è chi viene a fare la spesa perché finalmente trova prodotti freschi e locali; chi affitta l’area picnic per feste come fanno molti giovani e famiglie, soprattutto tra i trenta e i quaranta anni, con bambini piccoli che trovano da noi uno spazio adatto dove correre e giocare liberamente. È un segnale forte di partecipazione spontanea. Poi abbiamo mantenuto un’impronta attivista e questo ha portato il nostro spazio – l’ex Borghetto San Carlo – a diventare un punto di riferimento anche per temi più ampi, come le politiche del cibo.

Cioè?

Siamo coordinatori del Tavolo 1 sull’agroecologia e produzione primaria, uno degli otto tavoli del Consiglio del Cibo di Roma1. L’idea è considerare il prodotto alimentare non solo come agricoltura, ma come punto di partenza per una riflessione sul diritto al cibo, sull’accessibilità, sullo spreco, sulla redistribuzione, sui mercati rionali, sulla produzione locale nei quartieri, sull’educazione alimentare e sulla ristorazione pubblica e privata.

Collaborate anche con università o realtà esterne?

Sì, in modo costante. Ci capita spesso di ospitare, per esempio, delegazioni di studenti internazionali dall’Università di Pollenzo e da altre università, come quella della Tuscia o atenei americani. C’è sempre qualcuno che viene a fare un’esperienza pratica qui, anche per 750 ore, e spesso questi percorsi si trasformano in progetti agricoli autonomi altrove. È spazio dove si creano relazioni e si formano competenze. È successo più volte che ragazze e ragazzi che avevano un’idea – magari rilanciare un terreno di famiglia – prima venissero da noi a imparare e poi partissero con il proprio progetto. Abbiamo formato 600 aspiranti agricoltori e, a seguito dei nostri corsi, sono nate una decina di nuove aziende agricole.

La soddisfazione più grande in questi dieci anni?

L’ambizione era che la nostra esperienza diventasse un modello replicabile. E questo è successo. Coraggio è stato il primo caso pilota del programma Sibater - la Banca delle Terre2 promosso da ANCI (Associazione Nazionale Comuni Italiani) e IFEL (Istituto per la Finanza e l’Economia Locale). Hanno raccolto le esperienze di affidamento di terre pubbliche in tutta Italia e creato un vademecum per le amministrazioni. Oggi, più di 900 comuni del Centro-Sud hanno accesso a questo strumento.

Da battaglia civile a strumento istituzionalizzato.

Esattamente: da un conflitto a qualcosa di solido, codificato, consultabile. È una delle cose più belle successe negli ultimi anni. Poi, certo, resta il desiderio di vedere nascere, dalla nostra esperienza, tante altre iniziative sul territorio. E piano piano, con la pazienza e la testardaggine ci stiamo riuscendo.

È stato un percorso a ostacoli, lungo, iniziato negli anni Settanta e voi avete raccolto il testimone nel terzo Millennio faticando ancora: quante volte ti è venuta voglia di mollare?

Tutti i giorni.

Cosa ti fa restare?

L’altro. Le persone. È questo che non mi fa mollare.

A proposito degli altri: come dicevamo nella vostra cooperativa lavorate stabilmente in sette, pochi…

Sì, ma ognuno ha un’area di riferimento e lavoriamo tutti a supporto reciproco. Nei campi ci sono tre persone fisse ed io che mi occupo delle lavorazioni meccaniche e della parte estensiva. E comunque ci sono altre sei persone che collaborano da esterni.

Oggi un’azienda agricola può funzionare senza un impegno civile o politico?

L’attivismo non è necessario per fare cibo buono, ma è essenziale per acquisirne consapevolezza e per restare connessi al contesto. Un agricoltore isolato spesso non si rende conto del valore di ciò che fa, e resta schiacciato dai problemi quotidiani. Essere parte di una rete, anche solo informalmente, aiuta a non perdersi e dà forza. Per come la vedo io, già lavorare bene sul territorio in un certo modo è una forma di attivismo, anche se non fai lobby o advocacy. E per noi, partecipare a reti come il Consiglio del Cibo, anche se è tutto lavoro volontario, tiene alto il morale. Perché c’è riconoscimento, confronto, prospettiva.

Lavorare la terra sostiene economicamente la vostra cooperativa?

Tra le varie attività l’agricoltura in sé – paradossalmente – è quella che richiede più investimento, tempo, lavoro, ma ha i margini più bassi. La formazione è l’attività più efficiente: costa poco e rende molto. Subito dopo vengono gli eventi culturali e le iniziative pubbliche. Questa è la fotografia reale di chi fa questo tipo di agricoltura oggi. Anche per questo, in generale, il cibo buono costa caro.

È diventato quasi un bene di lusso. Come vi ponete di fronte alla contraddizione tra accessibilità per tutti e prezzi alti?

Questa è la sfida. I nostri prezzi sono bassi: prendiamo come riferimento i supermercati di fascia media e cerchiamo di stare sempre al di sotto. Il nostro è un cibo accessibile, almeno da un punto di vista economico, ma poi ci sono ostacoli logistici: chi lavora tanto e ha poco tempo va al supermercato, dove trova tutto, anche il sapone e la carta igienica. Da noi invece si trova solo cibo e non abbiamo orari flessibili come la grande distribuzione e questo è un limite. Se il cibo buono resta solo per chi se lo può permettere – per reddito e tempo - falliamo come società. Noi organizziamo mercati popolari, cerchiamo forme di distribuzione che non schiaccino il produttore né l’acquirente. Il nostro sogno è un sistema alimentare dove qualità e diritto al cibo camminino insieme.

Idee?

Ci vuole tempo, alleanze e soprattutto serve uscire dalla logica dell’agricoltore solo, in lotta col mercato. Serve comunità. C’è un sogno che coltivo da tempo: far pagare il cibo in modo proporzionale alle possibilità economiche di ciascuno. Come accade per l’università o per i servizi sanitari. Se riconosciamo che il cibo è un bisogno primario, non vedo perché non debba essere trattato allo stesso modo. Ci sono anche idee più raffinate come creare un sistema simile a quello dei medicinali: conservi lo scontrino della spesa, lo abbini al codice fiscale e in base al tuo 730 puoi detrarre una percentuale delle spese alimentari. Ovviamente servirebbe una rivoluzione culturale e politica, ma sarebbe un passo enorme per la giustizia alimentare.

…e pure per la salute.

In un Paese dove la sanità è ancora pubblica, questo è un tema cruciale. Peggio mangi, più rischi malattie – dall’obesità a disturbi cronici. E non solo: l’ambiente in cui il cibo è prodotto influisce a sua volta sulla salute. Il problema enorme è il modello della “quarta gamma”, cioè il cibo già pronto, impacchettato: è in quella direzione che la società si sta muovendo col pretesto di ridurre lo spreco, ma la verità è che si potrebbero ridurre gli sprechi semplicemente cucinando di più a casa. Il punto è che non c’è più una cultura dell’economia domestica.

Colpa delle donne che non stanno più ai fornelli? (ridiamo)

Certo che no, ma è vero che una volta in famiglia c’era una persona – di solito la donna – che cucinava. Nessuno ha ancora sostituito quel modello, bisogna capire come colmare quel vuoto: penso che la soluzione sia la collettività. Stiamo lavorando a una proposta concreta: le Case del Cibo. Luoghi diffusi sul territorio – aziende agricole, orti urbani, ristoranti virtuosi, centri di distribuzione – che offrano servizi legati all’alimentazione. Ciascuno con funzioni diverse, ma con un obiettivo comune: rendere il cibo buono, accessibile e sostenibile.

In concreto, un esempio?

Spazi dove cucinare insieme, magari con il supporto di chi se ne occupa professionalmente. Per farlo serve un cambiamento radicale: dobbiamo liberarci dai vincoli della domesticità individuale e costruire una domesticità collettiva, consapevole, condivisa.

Anche un’agricoltura fatta male è dannosa già prima che il cibo arrivi a tavola. Voi coltivate in città, come garantite la qualità in un ambiente urbano inquinato?

Paradossalmente l’agricoltura urbana può produrre cibo più pulito, perché non subisce la contaminazione incrociata tipica delle zone agricole convenzionali, dove spesso si usano pesticidi e diserbanti. Noi siamo circondati da zone incolte o da foraggere che non usano chimica. Inoltre, proteggiamo i campi con barriere di siepi e alberi che assorbono gli inquinanti. Su ventidue ettari ne coltiviamo quattordici, lasciandone otto a vegetazione spontanea. È anche questo un modo per difendere la qualità.

Stai dicendo che coltivare in città non solo è possibile, ma è anche auspicabile?

Sì, se fatto bene e se si unisce a un progetto più ampio che mette insieme agricoltura, educazione, giustizia sociale e salute pubblica. Noi dialoghiamo e andiamo nelle scuole e le scuole vengono da noi; ragioniamo con cuochi, come per esempio Gabriele Bonci che ha una sensibilità molto forte sul tema dei prodotti agricoli e una visione politica dirompente; costruiamo percorsi con i ristoranti come accade per il progetto GARUM, acronimo di Gruppo di Acquisto Ristoranti Urbani e Metropolitani. L’idea è creare un collegamento diretto tra ristorazione e produzione agricola locale. I ristoranti sommano gli ordini per facilitare la logistica alle aziende agricole. I produttori consegnano in un giorno preciso e i ristoratori ritirano secondo le proprie esigenze. È un sistema virtuoso: garantisce prodotti di qualità a chi mangia, sostenendo economicamente le piccole aziende agricole. Non siamo gli unici né i primi a fare queste cose, ci sono altre realtà agricole urbane e di questo siamo felici.

C’è una reale crescita dell'interesse verso l’agricoltura urbana?

Nella capitale sì, posso dirlo con certezza: ci sono stati nuovi bandi per l’assegnazione di terre pubbliche, lo sviluppo del Consiglio del Cibo, e anche un’attenzione programmatica chiara da parte del sindaco e degli assessori competenti. E poi c’è un aumento di curiosità e di consapevolezza, anche solo da parte di chi vuole conoscere questo mondo, senza necessariamente entrarci professionalmente. Le visite didattiche sono aumentate, così come l’interesse da parte delle università, dei ricercatori, della stampa.

Questo tipo di agricoltura però è adatto solo nelle città?

Purtroppo sì. I dati Istat mostrano che diminuisce il numero di aziende agricole ma ne aumenta l’estensione. Questo significa che la piccola agricoltura è in difficoltà. In città, però, se ne sviluppa una “estensibile” che trova riconoscimento. E anche se la cultura urbana è più distante fisicamente dalla terra, è più aperta mentalmente a capirne il valore.

È vero anche che le grandi aree agricole, quelle fuori città, sono sempre più soggette a una logica di produzione intensiva…

Sì, ed è inevitabile. Per nutrire milioni di persone servono meccanismi di produzione industriale. Questo non significa però che dobbiamo rinunciare al dialogo tra l’agroindustria e l’agricoltura urbana. È l’unico modo per provare a cambiare davvero il sistema.

Un dialogo, secondo te, già cominciato?

Noi ci proviamo. Sempre. Il Consiglio del Cibo nasce anche per questo: creare spazi comuni dove parlare con chi fa agricoltura tutti i giorni, anche con chi è dentro la logica della grande distribuzione. Sedersi allo stesso tavolo con Coldiretti e il Centro Agroalimentare Romano, è fondamentale. Perché se ci parliamo solo tra noi non cambia niente. Un altro progetto al quale stiamo lavorando è l’Università della terra: formazione costante di agroecologia con aula conferenze, biblioteca, scambi internazionali, Erasmus plus, convegnistica.

Qual è la difficoltà più grande nel portare avanti un progetto come il vostro?

La sostenibilità economica, come già detto, ma anche la motivazione: per chi viene a lavorare in un contesto come il nostro, la spinta dev’essere forte. E di solito è legata al bisogno di fare qualcosa che abbia un senso immediato: produci cibo, lavori in un ambiente positivo, pulito, utile. E poi se coltivi cibo, coltivi anche relazioni, pensiero, futuro; costruisci modelli alternativi, nel piccolo, sperando che nel tempo possano influenzare anche il grande.

Il tuo sogno oggi per voi e per te?

Riuscire a trasformare tutta la passione e l’impegno politico in stabilità economica. Io vivo alla giornata, letteralmente. I miei genitori non possono sostenermi, non ho rendite e oggi campo grazie ai mercatini. Il sogno è arrivare a una sostenibilità che permetta di vivere con serenità. E non solo per me, ma per tutti quelli che scelgono questa strada.

Pensi sia possibile?

Sono sicuro, altrimenti avrei e avremmo mollato da un pezzo. Ci stiamo lavorando concretamente. Ci vuole… coraggio, non per niente ci chiamiamo così (ride). Ci crediamo e non abbiamo neanche un problema di ricambio generazionale, anzi. Lo ripeto: in questi dieci anni abbiamo visto cambiamenti enormi, anche solo nella percezione pubblica, nella coscienza collettiva qualcosa si muove.

La famosa zucchina che prende like sui social… Quindi sei ottimista…

Visto quanto sono pervasivi i social network, non è una banalità. E sì, sono un ottimista pratico, anche se a livello esistenziale sono un po’ più pessimista, ma quella è un’altra storia.

Note

1 Consiglio del Cibo di Roma: si tratta di una consulta cittadina nata nel 2021, un percorso costruito dal basso su impulso del comitato promotore "Una food policy per Roma", che dal 2019 ha creato un’alleanza virtuosa tra cittadine e cittadini, aziende agricole, associazioni e mondo della ricerca, che prosegue ora nel Consiglio del cibo.
2 Programma Sibater - la Banca delle Terre.