Tra mito e fonti storiche, nella bibbia si legge in Giacobbe che il tartufo faceva parte della cultura gastronomica degli Egiziani. Questo popolo lo preparava in una ricetta rivestito di grasso d'oca per cuocerlo poi in una sorta di cartoccio. Sicuramente già ci troviamo di fronte a quello che può essere riconosciuto come un piatto tipico. La lunga storia d’amore tra uomo e tartufo inizia da molto lontano, gli storici, la fanno risalire a quasi 5.000 anni fa.

Il tartufo è un fungo ipogeo, un fungo che cresce e si sviluppa sottoterra, creando una simbiosi con le piante del bosco, in una rete ecologica ininterrotta e vitale; è molto esigente, per questo è anche molto raro. Ama un ambiente praticamente incontaminato, pulito, un ecosistema ottimale, di aree boschive, e microclimi, con relazioni di equilibrio ecologico tra l’ambiente naturale e il paesaggio antropico.

Recenti fonti storiografiche, attestano che furono i Babilonesi prima e i Sumeri in epoca successiva a portare in tavola il tartufo; possiamo dunque datare la scoperta di questo pregiato fungo ipogeo e il suo contestuale utilizzo in cucina.

È presente in studi di botanica e di gastronomia degli antichi greci, a loro lo fornivano gli asiatici e già a prezzi molto salati. Al limite tra il mito e il reale, in modo particolare il tartufo bianco, tanto che Teofrasto, filosofo ed autore di una grandiosa Opera di Botanica, vissuto tra 372 e 287 a.C., era convinto che nascesse “dall'unione della pioggia con il fulmine” e poiché le saette le scagliava Giove, era sottinteso che la sua matrice fosse assolutamente divina. Il cibo inizia, piano piano, ad essere condizionato da fattori culturali sia nella preparazione che nella distribuzione, ed assume un valore sociale molto forte e una valenza simbolica.

Con Archestrato di Gela, nel 330 a.C., poeta greco e contemporaneo di Aristotele, la cultura del cibo va verso una particolare attenzione per il gusto e verso l'arte della cucina, autore di una “dolce vita” Hedypatheia, descrive i migliori cibi di Grecia. A lui, si rifanno molti scritti che riguardano il cibo e confluiscono nell'opera di Ateneo di Neucrati: I dotti a banchetto, la prelibatezza del cibo inizia a caratterizzare le mense e la ricerca dei prodotti, così si fa veramente prezioso il tartufo. Areteo Cappadocia, medico del I-II sec. d.C., di origine greca, esercitò a Roma presumibilmente sotto Nerone, metteva in guardia contro l'eccessivo consumo di tartufo che induceva in uno stato di 'voluttuosità'.

Ma Giovenale, a cui quella voluttuosità non dispiaceva affatto, sosteneva che era meglio restare senza grano piuttosto che senza tartufi. Ancora, il prelibato tartufo è menzionato da Porfirio di Tiro, filosofo neoplatonico, e dallo stesso Cicerone. Ma i tartufi erano apprezzati anche ai tempi di Marco Gavio Apicio, famoso buongustaio ed autore del più noto libro di gastronomia della letteratura latina, il De Re Coquinaria, ricordava che Nerone definì il tartufo “cibo degli dei”.

I riferimenti scritti proseguono al primo secolo dell’era cristiana. Nella Naturalis Historia, Plinio il Vecchio sosteneva che il tartufo, a quel tempo definito tuber, fosse un prodotto miracoloso della natura in quanto nasce e cresce senza radici. Nello stesso secolo, il filosofo greco Plutarco di Cheronea riportò l’idea che il prezioso fungo ipogeo, nascesse dall’azione combinata dell’acqua, del calore e dei fulmini, che ispirò il poeta romano Giovenale, il quale attribuì la nascita del tartufo ad un fulmine scagliato da Giove in prossimità di una quercia, albero sacro al signore degli dèi.

Plinio il Giovane, lo definisce un 'callo' della terra. Nella voluttuosa Roma di età imperiale, il tartufo era usato più che altro come afrodisiaco, philtrum quo vincerre mulierrum (filtro che conquista le donne); anche per questo era un cibo prelibato molto ricercato e prezioso che richiede cura e trattamenti elaborati per la sua preparazione, insomma un'attenzione unica.

Il legame con Giove, personaggio che nei miti brilla per una prodigiosa attività sessuale spinse, forse, il medico Galeno ad affermare che il tartufo possieda qualità afrodisiache "il tartufo è molto nutriente e può disporre della voluttà". Dai tuoni ai fulmini, la fama dell’oro raro è sempre la stessa, fatta di pregio e ricchezza, nobiltà e piacere.

Dopo la caduta dell'Impero Romano, durante il Medioevo il tartufo perse parte della sua importanza, per diversi motivi: i primi secoli del Medioevo furono caratterizzati da scorrerie e lotte che portarono ad un imbarbarimento generale della popolazione; gli orientamenti alimentari dell'epoca tendevano verso una nutrizione basata in maggior parte delle carni della classe potente di stirpe germanica, simbolo di forza, virilità e potenza. La cultura eno-gastronomica fu chiusa nei conventi.

Ma il prestigio del tubero per eccellenza non era del tutto perso. Perse, forse, alcune valenze culturali per acquistarne altre; si trovò amalgamato, in quella osmosi di incontro e scontro delle culture europee. Veniva riservato a mense ed ospiti importanti, i banchetti, infatti, rappresentano dei momenti sociali di particolare valenza comunitaria. È in questo periodo che inizia a diffondersi il nome Tartufo, come volgarizzazione della parola tardolatina terrae tufer, escrescenza della terra.

Nel codice miniato, Taccuino sanitatis, risalente al XIV secolo, in testa ad un'illustrazione miniata dedicata alla raccolta del tartufo, troviamo il titolo: terra tufule tubera. In questa società strettamente rurale, la raccolta di erbe spontanee e prodotti del bosco era di particolare importanza soprattutto per la sopravvivenza, ma la raccolta del tartufo manteneva sempre il suo alone di eccezione anche a causa della sua vita sotterranea e il suo profumo, considerato una sorta di quinta essenza.

Sul finire dell'anno Mille, il bizantino Psello, dedica una lettera intera (la numero 233) alle delizie di una bella mangiata di tartufi, dimenticando l'ammonimento di prescrizioni mediche che vogliono i tartufi come “prodotti che provocano cattivi succhi”, per cui sconsigliabili da mangiare. I tartufi mantennero comunque la loro fama di cibo afrodisiaco, anche nella cultura araba, tanto che il Muhtasid di Siviglia considera i tartufi come un cibo da dissoluti, e ne proibisce la vendita nei pressi della Moschea, dato che al prezioso fungo ipogeo veniva attribuita la capacità di “far ardere i lombi”, frutto della natura e del l'innata capacità afrodisiaca; se il precetto non fosse stato seguito si sarebbe potuto addirittura essere scomunicati.

Già si conoscevano diversi tipi di tartufi, e il Tartufo bianco, anche durante i secoli del Medioevo, era considerato quello di maggiore prestigio e venduto al prezzo più caro (più di mezzo scudo d'oro la libbra). Come è noto, e non è una leggenda, venivano cercati con i maiali, erano utilizzate le scrofe più che i maschi.

Ma è Petrarca che ci fa comprendere quanto sia pregiato il tartufo e quanta importanza aveva nell'immaginario gastronomico medievale. Nel nono sonetto del suo Canzoniere, il poeta invia un cestino di tartufi ad un amico e li descrive accostandoli alla sua bella, individuando nello sguardo della sua amata Laura, il fascino e la misticità del più nobile prodotto del bosco.

Savonarola li consiglia come un “ottimo rimedio per i vecchi che abbiano una bella moglie". Li considera comunque nocivi e difficili da digerire, così dà consigli su come cucinarli nel modo meno nocivo: sbucciarli, affettarli, lessarli e condirli in fine con sale e pepe; oppure soffriggerli con olio sale e pepe, in padella come i funghi, sempre dopo averli sbucciati e affettati; oppure cuocerli nel vino.

Iniziano a farsi strada diverse ricette che contengono il tartufo e diversi modi di cucinarlo, che resteranno più o meno stabili anche nei secoli successivi. Generalmente si consigliava di cuocerli sotto la brace avvolti da una carta bagnata per una decina di minuti circa, puliti e affettati, mangiati in insalata conditi con olio sale e pepe; oppure lessati nel brodo grasso di carne.

Il tartufo affascinerà anche i secoli successivi. Le notizie sull’uso culinario del tartufo si fanno più consistenti dal Rinascimento in avanti, e il tartufo comincia a diffondersi sempre più in Italia nel corso del Seicento, ma nel frattempo la dizione volgare era già emigrata in tutta Europa assumendo connotazioni locali: truffe in Francia, trüffel in Germania, truffle in Inghilterra.

Tra i luoghi che fin dal Medioevo sono rinomati per la ricerca ed il commercio dei tartufi emergono in particolare due città: Casale Monferrato i cui tartufi, prima dell'annessione al Ducato di Savoia, erano destinati alla corte mantovana dei Gonzaga; Tortona, centro di rifornimento per i Visconti-Sforza di Milano. Una grandissima quantità di notizie e documenti esalta l'intero Monferrato come luogo di produzione dei più eccellenti e profumati tartufi.

Degno di nota è il medico umbro Alfonso Ceccarelli, il quale scrisse un libro sul tartufo, l'Opusculus de tuberis (1564), dove riassume le opinioni di naturalisti greci e latini, insieme a diversi aneddoti storici: risulta facile notare che il tartufo è sempre stato cibo altamente apprezzato, soprattutto nelle mense di nobili ed alti prelati. Per alcuni, il suo aroma era addirittura come una di "quinta essenza" che provocava sull'essere umano un effetto estatico.

È noto che nel Settecento i tartufi piemontesi erano apprezzati al punto che i Savoia li utilizzavano come “dono diplomatico”, inviandoli presso tutte le corti europee. Al Settecento risalgono anche i primi studi scientifici. Fu il medico torinese Vittorio Pico, nel 1788, a definire il pregiatissimo tartufo bianco tuber magnatum, ovvero “tartufo dei potenti”. Da qui deriva il nome botanico tuber magnatum Pico, riferito al pregiatissimo tartufo bianco, altrimenti conosciuto come trifola.

Il tartufo bianco d’Alba ha acquisito fama internazionale grazie a Giacomo Morra, fondatore di Tartufi Morra e ideatore della Fiera del tartufo d’Alba; nel 1933 il giornale londinese The Times lo definì “Re dei Tartufi”, e si deve a lui l’idea di regalare, ogni anno, una grande trifola a uomini potenti di tutto il mondo o ad artisti famosi.

Il tartufo è il corpo fruttifero di un fungo, l’Ascomycota sotterraneo; la maggior parte dei tartufi appartiene al genere tuber, ma ne esistono molti altri. Sono funghi micorrizici, e crescono vicini alle radici degli alberi. La dispersione delle spore dei tartufi avviene grazie ai micofagi, animali che appunto si nutrono di funghi. I tartufi emanano un tipico profumo penetrante e persistente che si sviluppa solo a maturazione avvenuta e che ha lo scopo di attirare gli animali selvatici (maiale, cinghiale, tasso, ghiro, volpe), nonostante la copertura di terra, per spargere le spore contenute e perpetuare la specie. Tali frutti ipogei vengono individuati con l'aiuto di cani, nel corso della storia venivano utilizzati anche i maiali, e raccolti a mano.