Rosso non è l’amore
Bianco non è il dolore

(Vinicio Capossela, Con una rosa)

Io sono la rosa di Sharon Il giglio delle valli

(Salomone, Cantico dei cantici)

Che l’ambiguità semantica sia anch’essa una componente essenziale della liricità? Ne abbiamo un vasto campionario in Vasco Rossi i cui testi sono sempre testi abbozzati e appositamente vaghi e dispersivi in modo che tutti possano sentirsi in essi inclusi ed appropriarsene come grido e slogan. L’ambiguità di Vinicio appare molto più profonda, intima e paradossalmente “precisa” come possiamo apprezzare in quella meravigliosa poesia che è il testo della sua struggente e ammaliante canzone Con una rosa.

Mi ha sempre stupito il fatto che la narratività di quest’opera solo apparentemente riguardi un tema sentimentale ma in realtà appaia così intensamente allusiva da indurre l’ermeneutica a cercare altre dimensioni di coglimento e decrittazione. La “lei” del canto compare solo all’inizio, mero presto e poi sparisce; prima velata dall’immagine ossessiva della rosa la quale a sua volta evapora nella parola “fiore” che culmina, sigilla e conclude il canto.

Altra connotazione anomala e focalizzante è data dalla triplice qualificazione negativa: “non è la rosa” che sembra far di tutto per velare, ri-velare e nascondere ciò di cui canta. Il simbolismo cromatico regge tutta la narrazione e le essenze-immagini vengono evocate per essere superate in un processo che sembra alchemico-ermetico. Una poiesis fatta di assoluti e di “assoluti relativi” in quanto componenti di una sequenza trasformativa ammantata dal segreto e che solo per immagini simboliche può essere allusa e celebrata.

La stessa ambiguità immaginifica e simbolistica la troviamo nell’antica letteratura alchemica dove non a caso la “Rosa” è appunto lo stesso emblema dell’Opera e del suo compimento: l’elixir sommo, la polvere di proiezione, l’albero della vita, la pietra dei filosofi è la Rosa del Mercurio doppio e perfetto, tre volte grande. Indugiamo su questa sapiente e precisa ambiguità, passo a passo. La Rosa la troviamo, doppia e mercuriale, nel Viridarium Chymicum di Stolcius (1624), rossa e plurima fiorente dalla quercia cava antimoniale nell’opera Uraltes Chymisches Werk di Abraham Eleazar (Lipsia, 1760), triplice ergentesi dal drago che si morde la coda quale emblema della triplice tintura (Hieronimus Reusser, Pandora, Basilea, 1582).

La prima parte, l’incipit, presenta due fattori: “lei” che resta sola e muta e ferma, cioè la calamita ermetica, e appunto la “rosa” che lui deve portare a lei, cioè l’essenza nascosta che deve essere trovata, colta ed esaltata. Ogni fase cromatico-simbolica viene indicata, attraverso tre indicazioni d’essenza per poi andare oltre, sempre dentro la medesima “materia” che viene indicata come contesto sempre in modo molto sfuggente: il rovo, lo specchio, il fiore che “cresce da solo”.

La “Rosa” è alfa e omega dell’opera trasmutatoria. Potremmo dire: ab rosa ad rosam. Prima il “bianco”, segno della prima fase alchemica: dealbare Latonam. Le immagini associate al bianco appaiono anch’esse poste in grande coerenza di lingua alchemica: nuvole, la notte amara e la schiuma marina. Cielo e mare si guardano e al centro ecco l’amaro del sale ermetico che coagula e accende la feconda crisi della materia. Un “bianco” che rinvia ad un’idea di purgazione e di espulsione di scorie. Il secondo colore il giallo: citrinitas. Anche qui notevole appare la conseguenzialità associativa: febbre, liquore e veleno che stilla dal seno (come latte) cioè immagini di fuoco e di nutrimento della “rosa nascosta”.

L’immaginario alchemico del rospo gonfiato potrebbe avvicinarsi a questa narrazione, come compare ad esempio nell’Atalanta Fugens di Michael Maier. Un “giallo” che rinvia al tema della malattia, della lebbra dei metalli, dell’accensione del fuoco filosofico, interno, antinaturale che macera la sostanza aprendo allo svelamento delle sue nature intime. Ma non ci si può fermare al giallo.

Il primo ritornello (quarto momento) apre all’idea del vento e della morte. Le rose “spirano” nel senso di rilasciare un vento e nel senso di morire. La rarefazione? Il Vento quale Padre? L’idea dei petali che lasciano vedere un colore non qualificato (invisibile? quintessenziale?) allude allo sfaldamento ulteriore della materia e per la prima volta compare il vero protagonista e il vero fine: il “fiore” nascosto dentro la mercuriale rosa, cioè la Pietra dei filosofi. Questo fiore “cresce da solo” perché l’adepto favorisce un processo che non è del tutto controllato, corrispondendo ad un segreto divino della natura il cui compimento è concesso per grazia dal Cielo.

Un fiore che “cresce” dentro il rovo, cioè dall’interno della vile materia prima iniziale. Altro tema costante della tradizione ermetica. La conoscenza ordinaria della natura allora si ribalta del tutto: l’amore non è rosso e il dolore non è bianco. Bianco è il fuoco più acceso e verde è l’amore più tenace. Il Processo procede per separazioni, fissazioni e svelamenti. Tipico dell’alchimia è anche questo tema dell’inversione dell’apparenza sensibile e delle sue polarità apparentemente opposte. Anche nello Splendor Solis di Salomon Trismosin al contrario di quanto ci si aspetterebbe la Luna appare associata al Re rosso e a sua volta al Pavone è associata Venere. Gli archetipi alchemici hanno una loro logica autonoma.

Il quinto passaggio indica il colore rosa, segno di speranza nel buon successo della rischiosa operazione trasmutatoria e al rosa non a caso il poeta associa l’idea dell’attesa, della speranza e dell’“affiorare”.

Eccoci quindi al sesto momento di evoluzione, quello finale e vittorioso segnato dal colore rosso, anzi “porpora”, nome che in greco richiama il segno della palma e della fenice. Ecco le coerenti immagini parallele del mattino, del fuoco, del calore, del letto, della spina, della lama e del cuore; il tutto ad alludere all’apertura-svelamento dell’essenza profonda e tanto desiderata e ricercata: il nuovo fiore invincibile e rosseggiante, cioè la Pietra dei filosofi.

Il settimo momento squaderna il percorso di disvelamento (il cammino, nome che rinvia anche al “camino”) in alcuni suoi passaggi: le “lacrime di cristallo” rinviano alla fusione del minerale mentre “lacrime” e “vino” alludono ai due colori del Mercurio doppio, ermetico. La pioggia che nasconde un’altra precipitazione al suo interno (la caduta mercuriale) allude all’acqua ardente (che asciuga) che fa emergere il “cuore” cioè la quintessenza ermetica. Il fiore finale quindi non ha più nulla in comune con il rovo di provenienza apparente e splende tre volte perfetto: dal dolore, cioè dal travaglio delle sette purificazioni, dal suo cuore cioè dalla sua stessa natura e dal suo donarsi glorioso.

Questo tema dell’unità, semplicità e autosufficienza della Pietra e dell’Opera (la cosa, la rosa) è un altro importante e costante tema di letteratura alchemica dove la grande Trasmutazione viene indicata quale operazione semplice, da bambini e quale arte che non aggiunge né toglie nulla, come indica la tavola ventesima e ventunesima dello Splendor Solis. L’adepto opera come Dio in Genesi: per separazione dalla cosa una. Una nella potenzialità e una nell’attualità. L’ambiguità irrisolvibile in se stessa è tale se si parte dall’errore di vedere in questa narrazione solo una canzone d’amore da un uomo ad una donna invece appare utile e sapiente per guidarci all’altra sponda del processo amplessivo-alchemico-androginico dove tutto riluce chiaro nelle sue luci.

Alla fine sorge il Sole rosso, di notte, si accende la Fenice. Il triplice fiore compare nelle Dodici Chiavi di Basilio Valentino, nel Viridarium chymicum di Stolcius connesso con il tema del lupo (l’antimonio), nei fiori che escono dall’unicorno nel Museum Hermeticum (Francoforte, 1749), nei sette fiori che escono trionfali dal vaso dove è concepito il Figlio regale dell’Anatomia Auri di Mylius come similmente nel frontespizio riassuntivo dell’Aurea Catena Homeri di Kirchweger e del manoscritto Materia Prima Lapidis Philosophorum.

Un fiore culmina e sigilla l’albero alchemico della vita in una miniatura di Jean Perréal e ancora Robert Fludd nella sua opera Summum Bonum (Francoforte, 1629) riprende il tema salomonico della rosa bianca e rossa quale segno dell’oro filosofico e della ricerca della sapienza. La Cerca non può finire, almeno nel suo canto.