Credo che un uomo non dovrebbe mai piangere. Non sta bene, non è elegante. A volte però anche il cuore più ruvido e incallito cede e viene travolto da quella marea montante di nostalgica tenerezza che fa sgorgare le lacrime. Confesso che a me è successo appena qualche mese fa ed erano anni che non mi capitava. Avevo un gatto, un micione rosso, un meticcio mezzo soriano, il comune gatto domestico e mezzo Maine Coon, il gatto delle foreste americano, forse per via dei ciuffi di pelo sulle orecchie e della folta e lunga pelliccia.

Era grosso e come tutti i gatti trovatelli chissà quante e quali traversie doveva aver passato prima che io lo adottassi, per cui era sì giocherellone, anche se a volte un po’ sgarbato con quelle grosse zampe fornite di artigli micidiali che dovevano derivargli dall’ ascendente yankee, ma mai particolarmente affettuoso.

Ultimamente però era cambiato, forse per via della vecchiaia perché i gatti, si sa, non si vede quando invecchiano e sembrano eternamente giovani anche se poi gli anni passano anche per loro. Quando lo avevo preso, soprattutto per fare un po’ di compagnia a mia madre molto anziana e malata, era già adulto e lo avevo chiamato Apollo perché per me era bello e fatale come quel dio greco. Tra tutti, a casa, aveva scelto me e, ne sono convinto, mi voleva bene anche se me lo dimostrava come fanno i gatti, centellinando le moine che mi concedeva quasi per dovere punendomi severamente quando mi “allargavo” con morsetti di avvertimento e, se insistevo, con graffi impietosi.

Da parte mia lo adoravo senza riserve e gli perdonavo tutto. Al gattile mi avevano detto che poteva avere 2 o 3 anni ma non si poteva dire con esattezza ed era con noi oramai da 11 anni. Fatto sta che ultimamente era diventato più stanco, il bel pelo si era fatto opaco e rado e così lo portai dal veterinario che, una volta visitato, emise la sua sentenza: insufficienza renale di grado IV, tipica patologia del gatto anziano, irreversibile e, aggiunse, gli sarebbe rimasto poco da vivere, unica consolazione: non soffriva.

Chissà perché, in quegli ultimi giorni della sua vita, anziché farsi più schivo e scontroso divenne più affettuoso, come se volesse ricambiare a modo suo per tutte le cure e le attenzioni che gli venivano riservate. Arrivò perfino a venirmi in braccio di sua volontà, cosa fino a quel momento impensabile per uno come lui che sfuggiva sempre divincolandosi come un indemoniato quando tentavo di prenderlo per coccolarmelo un po’. Ma deperiva di giorno in giorno e, a un certo punto, la situazione divenne insostenibile, cominciò a dare chiari segni di sofferenza e dovemmo riportarlo dal veterinario. Non dimenticherò mai lo sguardo che aveva in quegli ultimi istanti, quei suoi grandi occhi arancioni erano diventati laghi di spossatezza senza mai perdere la dignità e la naturale eleganza che solo i felini possiedono e, lo confesso, quando morì piansi come non facevo da anni, come per un amore perduto, perché si fanno amare questi esseri straordinari che scelgono di vivere con noi, nelle nostre case, e ci regalano bellezza eleganza e la inestimabile sensazione di essere stati prescelti da una creatura libera che ha ancora in sé lo spirito della natura selvaggia da cui proviene.

Amo il gatto più degli altri animali forse perché, come diceva H.P. Lovecraft “è misterioso e affine alle cose invisibili che l’ uomo non potrà mai conoscere; è l’ animo dell’ antico Egitto, è il depositario di racconti che risalgono alle città dimenticate di Meroe e Ophir, è parente dei signori della giungla ed erede dei segreti dell’ Africa oscura e misteriosa. La Sfinge è cugina del gatto, che parla la stessa lingua ma è più antico e ricorda cose che essa ha dimenticato”.

Le prime testimonianze della domesticazione del gatto da parte dell’uomo risalgono al neolitico, quando il sapiens, da nomade cacciatore e raccoglitore iniziò a edificare i primi villaggi e a divenire pastore e agricoltore stanziale. Con lo sviluppo dell’agricoltura emerse il problema di immagazzinare e conservare il cibo e in particolare i cereali.

Ben presto sorsero i primi granai e con essi arrivarono orde di topi che saccheggiavano le scorte faticosamente accumulate. Fu probabilmente quando l’uomo si accorse che il gatto selvatico, uscito dalle foreste, iniziava a frequentare sistematicamente i suoi granai per cacciare e divorare i topi che li infestavano che iniziò il sodalizio tra l’uomo e il gatto. Da allora gli umani, grati e affascinati da quel piccolo concentrato di grazia e fiera bellezza, lo hanno edificato fino a farne una divinità: Bastet la Gatta per gli antichi egizi era dea del focolare domestico, figlia di Iside e sorella di Horus.

Gli antichi greci e soprattutto i romani avevano una vera venerazione per i gatti e lo attestano innumerevoli testimonianze come, ad esempio, nei bellissimi affreschi di Pompei. Solo durante l’apogeo dell’era cristiana, durante il medio evo, si ruppe la salda amicizia tra l’ uomo e il gatto, guardato con sospetto crescente dalla Chiesa che vide nel suo spirito libero e nella sua seducente bellezza elementi diabolici.

Tradendo un sodalizio che durava da millenni i gatti vennero perseguitati dalle autorità e dai tribunali ecclesiastici e uccisi senza pietà in quanto ritenuti emissari del demonio, scrivendo una delle pagine peggiori della storia del cristianesimo. Ma la cosa non poteva durare e già l’ umanesimo e il rinascimento si erano riconciliati con la piccola tigre delle case e dei granai. Infatti, con la vergognosa eccezione che abbiamo citato, gli artisti lo hanno sempre celebrato e innumerevoli sono le opere d’arte, figurative o letterarie di cui è protagonista.

Molti di loro si sono talmente immedesimati in lui, come carattere e personalità da identificarsi anche fisicamente in un gatto, come nel caso del celebre etologo e uomo di spettacolo nonché scrittore e drammaturgo Giorgio Celli scomparso da alcuni anni e ingiustamente dimenticato.

Ho avuto la fortuna di conoscerlo, viveva in una vecchia casa nel cuore del quartiere universitario di Bologna letteralmente circondato dai suoi amatissimi gatti che entravano e uscivano in libertà, tutti randagi trovatelli e, devo riconoscere che, con il suo fare sornione, lo sguardo acuto e penetrante nonché la sua massiccia figura ricordava davvero un grosso e vecchio gattone. Tra tutti i gatti famosi della letteratura voglio ricordare il mio preferito: Bébert, il bel gattone tigrato di Louis-Ferdinand Céline.

Era un gatto tigrato di razza europea, un randagio per dirla tutta, un abitatore furtivo dei tetti della Parigi degli anni trenta. Venne adottato nel 1940 da Lucette Almansor, ballerina, dopo che era stato abbandonato dal suo primo padrone, l’attore Robert Le Vigan. Lucette era la moglie di un medico male in arnese, sempre a corto di denaro, un certo dottor Louis-Ferdinand Destouches che sarà Celine, il più grande e più odiato scrittore francese del 900. Celine, noto collaborazionista, visse abbastanza tranquillamente con la moglie e Bébert, nella Parigi occupata dai Nazisti fino al giugno del ‘44 quando, saputo dello sbarco in Normandia pensò bene di fuggire in Danimarca dove aveva qualche soldo da parte.

In quei giorni concitati gli scrive Paul Leutaud, scrittore e critico teatrale che lo frequentava “ Lei, caro Louis -Ferdinand, sarà senza dubbio liquidato dalla Liberazione, e se l’è cercata. Non verserò neppure una lacrima, può morire in pace. Però sappia che sono pronto a prendere con me Bebert, il solo di cui mi importi”. Ma Celine e Lucette lo trascineranno con loro in una fuga rocambolesca, in treno, a piedi, sotto il fuoco del fronte e viaggerà dentro uno zaino per mezza Europa. Scrive Celine: “Per 18 giorni e 18 notti non si è mosso, non ha fatto un solo miao.

Si rendeva conto della tragedia. Abbiamo cambiato treno 27 volte. Tutto perduto e bruciato per strada, tranne il gatto. Ci ha accompagnato per 35 chilometri a piedi, da un esercito all’ altro, sotto dei fuochi peggio che nel ‘17”. Alla fine arrivano a Copenaghen poi, dopo anni concitati di stenti e di arresti con l’ accusa di collaborazionismo, tornano in Francia dove Bébert, nel ‘52, muore di serena vecchiaia dopo venti anni di vita avventurosa e randagia seguito, di lì a poco dal suo amico Céline, amico perché i gatti non hanno padroni, randagio e vagabondo come lui che morirà nel giugno del 1961 solo e dimenticato da tutti.