Cominciavo a capire che le cose non andavano bene quanto iniziava a mancare la carta igienica e il dentifricio era stato schiacciato così tante volte da essersi crepato ai lati, lasciando fuoriuscire riccioli come trucioli.

A Bangkok faceva molto caldo, c’era il monsone e sui tavoli, quella stessa carta igienica era disposta per pulirsi mani, bocca. A terra sfilavano blatte in danza e il cibo, pesci strani di cui non conoscevo il nome, era buono. Sedeva piegato a lavare piatti in bacini di plastica, qualcuno ai margini dei tavoli. Si era detto di non mangiare in posti del genere ma, il proposito era durato il tempo della fame. Ci conoscevamo da pochi giorni quando il progetto di frequentare un corso a Cuba, fu dirottato in Thailandia.

Salimmo poche scale, dopo un giro in un mercato confuso, quando ci fecero accomodare. Ambiente buio, vuoto, su sofà comodo. Calpestava la passerella il susseguirsi di corpi nudi, contorni di ventre deturpato da troppe gravidanze, concedendo uno spettacolo famoso nel suo genere e macabro. Eravamo soli. Bevemmo qualcosa prima di pensare che era abbastanza. Tasche insufficienti per il saldo, inibita l’uscita. Non avrei dovuto assecondarlo in questo stupido rituale turistico. Rimasi lì, in attesa che tornasse. Un paio di tentativi verso una porta che veniva chiusa. Attesi, sequestrata e calma.

Un po' come bloccata nel bordello con mr. Davidson a Youngstown. Lei aveva pelle bianca, quasi senza nei, flaccida al tatto e si muoveva, prima di smettere di farlo. Spenta o poco ostinata all’indifferenza. Dalla prospettiva privata, vedevo poltrone rosse occupate da richieste assistite di improvvisata eccitazione. E lei così, si spostava da una seduta all’altra, molle. Attesi, bloccata e calma, mentre al bancone si avvicinava una donna in evidente stato di alterazione, farfugliante.

Calma, come sul traghetto contro il molo Beverello, quando la folla si addensava correndo nel panico di un evento che non aveva presagio di catastrofe o sull’aliscafo alla vista della tromba d’aria che mangiava la costa di Capri. Ferma e calma.

Come bloccata nel bagno dell’ufficio per una stupida chiave o nell’ascensore a Salamanca, in cinque, per un’ora in attesa dei vigili del fuoco.

Calma, al tic dell’insetto che a pancia all’aria mi ritrovo sulla tastiera del PC, mentre scrivo, nel weekly hotel sulle sponde del Mississippi, pensando che è proprio uno schifo di stanza. Quando alzo la scatola di cereali ed è vuota. L’ha finita lui, prima del turno a lavoro. E di nuovo, ho fame e non ho nulla. Guardo dalla finestra bassa, troppo bassa e rettangolare. Apro la tenda giallognola, sbircio fuori, in cerca di soluzioni. Lo vedo. È Subway in lontananza, alla stazione di servizio, tra lucido di tir. C’è carreggiata e sterpaglia nel mezzo. Calma, mentre mi azzardo a piedi a percorrere il tratto di cui mi rallegro al primo morso.

Continuavamo a pulirci con la carta igienica e a passare da un posto all’altro divorando Pad Thai e bevendo Chang. Ogni tanto venivamo travolti dalla pioggia, non importava. Con la bassa marea le spiagge si impantanavano e l’acqua era ancora più calda. Mangiavano in scodelle di ferro approssimativamente pulite e glass noodle con salse sconosciute, punta da zanzare.

Guardo la carta igienica e penso che quando scarseggia abbiamo un problema, esco.

Tutto torna, mi ripete sul bus. Lei non aveva un diploma e si opposero al matrimonio. Dopo due divorzi e un lutto, si incontrano di nuovo e si sposano dopo decenni. Ora sono liberi di scegliere e la vecchia opponente arresa è pentita, a novant’anni. Tutto torna mi ripete la cognata entusiasta mentre il bus traballante mi porta a lavoro. Tutto torna. Cosa tornerà a me, mi chiedo e resto così. Devo comprare la carta igienica e il dentifricio.

Leggo il messaggio di Hamy. “Dove sei”. Non mi trova. Dove sono. Sono rimasta tra le risate a Barcellona, circondata da eventi buffi. Lavorava alla reception dell’ostello e uscivamo nel tempo libero. Teheran e Napoli chiacchieravano, a volte seduti sulla Rambla a goderci la fiumana nell’intimità di un dialogo al quale la strada faceva sfondo, o camminando per ore. Ridevamo per il turista ubriaco che si masturbava all’internet point, ignaro dell’indignato pubblico e eliminato, per la gestualità con cui i giapponesi chiedevano conferma delle informazioni ricevute e incrociavano con decisione le braccia a ics per indicare “full” quando in ostello non c’era più un letto, per la quotidianità che ci passava allegra davanti.

E allora, ho deciso di farmi un regalo. Ho indossato gli auricolari e ho ascoltato di nuovo la musica, mentre camminavo, per ricordarmi di me. Ora sono persa e più affamata di prima. Quando torno a casa le chiedo un consiglio e lei con la leggerezza di chi ha dieci anni risponde: fregatene e fai come fai sempre. Con calma.