“Le donne appartengono alla sfera domestica e il loro compito è cucire, cucinare e crescere i bambini: quelle che lavorano sono una mostruosità”.

Questo stralcio dell’articolo sessista What girl are good for (A cosa servono le ragazze) di Erasmus Wilson sul Pittsburgh Dispatch, mi indigna e invio una lettera, dai toni accesi, al giornale, esprimendo il mio disappunto sui limiti che la società pone alle donne che cercano una fonte di sostentamento al di fuori del focolare domestico. Mi firmo “Little Orphan Girl”. È il 1885.

George Madden, il direttore, pubblica la mia lettera, mi invita al Pittsburgh e mi offre un posto come giornalista. Inizia la mia vita, quella delle parole, scritte e parlate, da attivista femminista, dei diritti umani.

Mi chiamo Elizabeth Jane Cochran, di Burrell, in Pennsylvania e sono nata il 5 maggio 1864. Firmo i miei articoli con il nom de plume di Nellie Bly, una canzone di Stephen Foster, quello di Oh Susanna!

“Care ragazze, qualunque sia il vostro sogno, bisogno, obiettivo e stile di vita che volete raggiungere, provateci. Non c’è nulla che non possiate fare o realizzare. Noi donne, per farci notare, per emergere, abbiamo, da sempre, dovuto combattere le incertezze della società nei nostri confronti e trasformare, graffi e lacerazioni in passi, verso nuove conquiste. La mia storia potrebbe essere quella di ognuna di voi, in tempi diversi, ambiti diversi e modalità personali. Ma pur sempre vincenti”.

Voglio scuotere le coscienze. Intervisto, per i diritti civili, la prima donna candidata alle presidenziali USA, Belva Ann Lockwood e do voce alle donne divorziate. Mi interesso dello sfruttamento del lavoro minorile, della situazione delle lavoratrici nelle fabbriche e della mancanza di sicurezza nei luoghi di lavoro, dei figli indesiderati e delle situazioni disagiate.

“Ricordate care amiche mie, come in una macchina del tempo, che dopo quasi 150 anni, sono cambiate tante cose. Ma abbiamo ancora tanta strada da percorrere per i nostri diritti. Non arrendetevi. Fatevi avanti e mostrate ciò che valete”.

Appartenenti della finanza e del mondo industriale pressano il Pittsburgh Dispatch per censurare la mia penna e affidarmi argomenti frivoli che non fanno per me. Parto, nel 1886, come corrispondente estera in Messico, e dopo varie inchieste su povertà, corruzione e mancanza di libertà di stampa, il governo messicano mi denuncia costringendomi a tornare negli Stati Uniti. Raccolgo i miei scritti di denuncia e delle differenze tra USA e Messico nel libro Sei mesi in Messico.

Ormai il Dispatch non stimola più la mia scrittura e lo lascio per andare a New York e farmi assumere al New York World da Joseph Pulitzer, sì proprio lui, quello del premio Pulitzer. All’inizio, non bastano curriculum ed esperienze, non mi concedono udienza perché sono una donna.

Allora gioco di strategia: presento, al direttore, due inchieste investigative sotto copertura e una viene accettata.

“Anche oggi, sia nel campo del giornalismo, sia nel campo letterario, dovete presentarvi preparate, affinché accettino ciò che proponete. Dovete studiare le case editrici, le testate giornalistiche, cosa pubblicano e cosa richiede il loro pubblico. Selezionare e conoscere dimostra capacità professionale. Scoprite quale segno volete lasciare nella società. È quello che non vi fa dormire la notte e che vi martella in testa, in ogni istante della giornata, che è difficile da attuare e forse anche un po’ pericoloso e sacrificante”.

E proprio in termini di pericolosità svolgo per il New York World, l’indagine sulle condizioni del manicomio femminile Women’s Lunatic Asylum presso Blackwell’s Island. Mi preparo studiando atteggiamenti, smorfie, espressioni e tic davanti lo specchio. Mi faccio internare il 22 settembre 1887 dopo aver creato, come messinscena, scompiglio e paura in una casa di accoglienza per donne.

Per essere dichiarate pazze ed essere internate, bastava essere povere, parlare male l’inglese o che il marito per disfarsi della moglie insinuasse qualcosa a suo carico.

I medici che mi condannano per quello che ho fatto dovrebbero provare a prendere una donna in perfetta salute, rinchiuderla e lasciarla seduta dalle sei del mattino alle otto di sera, su panche di legno, senza permetterle di parlare o muoversi, senza darle qualcosa da leggere e senza dirle nulla del mondo di fuori, a darle pessimo cibo e un trattamento rude. Quanto ci vuole per vederla diventare pazza? Io dico che due mesi così la renderebbero un relitto umano. Docce gelate, per cena una fetta di pane, cinque prugne e una tazza di tè. Soprusi, torture fisiche e psicologiche, sporcizia. Trascorro questo orrore per dieci giorni.

Ho lasciato il reparto di follia con piacere e rammarico - piacere di godere del respiro della libertà - rammarico di non aver potuto portare con me alcune delle sfortunate donne che hanno vissuto e sofferto con me, come la donna dichiarata pazza perché il marito l’aveva scoperta con l’amante.

Sono felice di poter dire che come risultato della mia presenza al manicomio e del racconto che ne ho fatto, in un libro dal titolo Dieci giorni in manicomio la città di New York, ha deciso di stanziare un milione di dollari l’anno, per la cura delle persone malate di mente.

E sempre sotto copertura, nel 1894, racconto, il punto di vista degli scioperanti delle ferrovie di Chicago. I salari sono sempre più esigui e gli affitti degli alloggi aziendali sempre più alti.

Scrivono di me che ho vissuto avventure memorabili e una tra tante, il giro del mondo come Phileas Fogg. Con la differenza che io il viaggio l’ho fatto davvero: da sola e con l'indispensabile in una valigetta.

Parto il 14 novembre 1889 da New York e viaggio per nave, treno e a dorso d’asino. Ogni giorno, il New York World, pubblica i miei articoli e un gioco dell’oca intorno al mondo con le mie tappe. I lettori partecipano alla lotteria istituita per indovinare il momento della fine del mio viaggio, con rientro alla City. Durante un emozionante incontro, Jules Verne, in Francia, mi augura: “Buona fortuna, Nellie Bly”.

Alle ore 15.51 del 25 gennaio 1890, completo il mio viaggio in settantadue giorni, sei ore, undici minuti e quattordici secondi.

Ripeto la mia esperienza da infiltrata, smascherando un lobbista che voleva corrompere i parlamentari sulla votazione di una legge sui farmaci e mi sono fatta arrestare per denunciare il trattamento delle detenute nelle prigioni.

Anche io ho una vita privata e con molte polemiche sposo il milionario dell’industria dell’acciaio Seaman, di quarant’anni più vecchio di me. Ma noi eravamo felici della nostra vita. Alla sua morte, nel 1904, rilevo l’azienda e garantisco ai lavoratori, diritti e valori per i quali mi sono sempre battuta: faccio costruire ambulatori medici e biblioteche, aree per l’attività fisica e metto a disposizione corsi di lettura e scrittura per gli operai. Un sistema moderno ma dispendioso, che mi porta a dichiarare bancarotta.

Con lo scoppio della prima guerra mondiale, nel 1914, torno al giornalismo come la prima reporter donna sul fronte austriaco. Racconto l’orrore della guerra, i volti, gli occhi e la vita dei soldati nelle trincee, tra fango, freddo e topi e mi mobilito per trovare case a bambini orfani e sostenere donne rimaste vedove.

Muoio il 27 gennaio 1922, a cinquantasette anni, per le complicanze legate a una polmonite. Poche settimane prima di morire lascio il mio epitaffio: “Non ho mai scritto una parola che non provenisse dal mio cuore. E mai lo farò”.

“Mettete il cuore in ciò che scrivete e in ciò che fate. Raccontate, senza timore, qualsiasi storia possa risultare scomoda o terribile, dolorosa o scabrosa. Siate gli occhi di chi ha bisogno, degli invisibili della società e rendete giustizia agli emarginati. Il lettore deve seguirvi, guardando insieme a voi, restare sgomento ma non indifferente”.

Buona fortuna, ragazze.
Con affetto, la vostra

Nellie Bly