Puntavo sul nulla e invece sono arrivata al vuoto; che abitino la stessa dimora? Certo il vuoto non impone, non elimina, non esclude il nulla. Perché le cose avvengano “perché tutto possa essere sono necessari il vuoto e il nulla”. In questo momento, ad esempio, riempio il vuoto dell’assenza con il nulla del fare. Fare niente. Fare niente di quel tanto che mi piacerebbe fare. Si sta riposando la mente, anzi lei sta dormendo anche quando sono sveglia, si stanno riposando corpo e anima. Tutto tace.

Il brusio di azioni governate dal -si deve fare- ha preso il sopravvento, si è conquistato spazio e tempo. Trascorro le giornate nel governo del dopo intervento all’alluce sinistro. L’alluce sta bene è un dito dell’altro piede che mi fa male, però devo seguire diverse terapie che mi condurranno alla guarigione definitiva. Il piede è gonfio e così ore di ghiaccio, di spuma antinfiammatoria, di argilla verde, di piede in alto e soprattutto di calzature adatte.

Così, rasoterra, ho cambiato anche il mio aspetto, ma questo è niente rispetto al dover trascinare in giro una scarpa di 2 numeri più grandi. In uno dei fogli rilasciati dall’equipe del chirurgo, infatti, si raccomandano scarpe da ginnastica tipo running comode e di misura grande. Sono andata in tre negozi di calzature sportive, non entravo neanche nel 40, porto il 37. Così mi sono diretta in quelli specializzati in ortopedia e ne sono uscita con un paio di scarpe per diabetici; ingovernabili per lunghezza e larghezza.

Prima di infilarmi due scarpe di tipo diverso ho tentato di addomesticare la scarpa del piede non operato infilando bambagia fissata con adesivo, e riempire il vuoto, con alzatacchi in verticale. Niente da fare; in un piede il 39 e nell’altro il 37 di altra forma, però tutte e due rigorosamente nere. Con i piedi rasoterra, quindi, sono rimpicciolita e per ragioni estetiche ho dovuto modificare anche l’abbigliamento. L’unica cosa che è rimasta uguale è la bicicletta, anzi le ho fatto abbassare il sellino.

Le azioni della giornata perciò, riguardano il ghiaccio, la spuma antinfiammatoria, l’attenzione al piede che deve stare il più possibile sollevato, l’aumento vistoso di pillole e ultimamente, quando sono seduta, come ora, faccio ginnastica con una piccola palla. Ma l’argilla quella proprio no. Non riesco a spalmarla per questione di tempo e per eccesso di stanchezza. Alla sera dovrei tenere per un’ora intera il piede avvolto nel ghiaccio per poi passare ad un’altra ora di argilla che vuol dire avvolgere il piede in un sacchetto di plastica e andare poi in bagno, lavare il piede con il getto della doccia, infine aggiungere lo strato di schiuma cutanea e attendere che anche questa penetri nella pelle.

Mi fermo qui perché alle 23 di sera governare il getto d’acqua della mia doccia che di sua natura vuole essere freddo, o bollente -non desidera il compromesso, la via di mezzo, soprattutto quando ho fretta e sono stanca- mi è del tutto impossibile.

Non ce la faccio. Quindi ho deciso per puro sfinimento di eliminare l’argilla.

Abito questo appartamento dal 1973 e nello spazio di circa 100 metri quadrati si articola tutto il disordine e la confusione costruite con impegno e determinazione dal 1973, appunto. Ora devo realizzare azioni fuori programma e se fossi lucida e ben organizzata potrebbero non annullare mente e corpo, ma dato che questi fanno parte di un unico insieme, come pare, accada in tutte le vite sulla terra, i pensieri girano a vuoto come i passi.

Per i mei movimenti sbandati, privi di memoria, sempre altrove, questi 100 metri, si sono ingranditi, dilatali a tal punto estesi e per larghezze tali da conquistare dimensioni simili a gole d’alta montagna, a rivali che seguono le curve del fiume, a strade accidentate, a città sconosciute, ad androni bui, a labirinti privi di via d’uscita. E io lì, sempre aggrappata al vuoto.

Percorro decine e decine di volte il corridoio dal lato nord a quello sud, e da est ad ovest, e giro in tondo da una stanza all’altra con lunghi momenti di smarrimento.
Nel vuoto assoluto dimentico quel che sto cercando; mi fermo e mi chiedo “perché sono qui?” cammino, giro in tondo, mi perdo e abbandono la cosa che tenevo in mano per poi ritrovarla, nei luoghi già visitati. Riprendo poi la strada della ricerca sempre con deviazioni, smarrimenti .

Cerco sopra, sotto e di lato in qualsiasi piano della casa. Sono tavoli, sedie, armadi, armadietti, divani, letti, cassetti, mobili, mobiletti aperti, chiusi, ma anche librerie perché contengono, si, libri, ma tanto altro ancora, nei quali posso avere depositato l’argilla, l’alcol, i cerotti, l’igenizzante, l’amuchina, i calzetti dello stesso colore, -li dovevo prendere neri, ma la commessa mi ha convinto che avrei fatto un affarone se ne avessi presi 10 paia di colori diversi- e ancora, i teli che avvolgono la striscia di ghiaccio. Poi apro il frigorifero e lo chiudo immediatamente perché dentro c’è in atto lo scongelamento dei ghiacciai d’alta montagna.

Qui, in effetti, nulla ha fissa dimora e naturalmente l’artefice di questo moto perpetuo sono solo io. Mi alzo al mattino già stanca per nottate cariche di risvegli, mi infilo la scarpa ortopedica e una ciabatta con il tacco leggermente più alto quindi zoppico fino al bagno, mi ritolgo le scarpe, mi spoglio, faccio la doccia, mi rivesto, rimetto le scarpe, porto la colazione in terrazzo e prima di sedermi ritolgo le scarpe infilo la busta di ghiaccio nel piede e lo appoggio in uno sgabello.

Nel frattempo ho dimenticato qualche cosa di fondamentale importanza come la prima medicina quotidiana oppure il colino della teiera o addirittura il maritozzo che Ceccolini, presidente di tutti i fornai d’Italia, fa appositamente per me, e che si sta abbrustolendo -quasi bruciato- nel forno, quindi tolgo il piede dal ghiaccio, mi rinfilo la scarpa e la ciabatta e mi precipito in cucina. Ritorno in terrazzo con il maritozzo un po’ troppo abbrustolito, mi risiedo e tolgo la scarpa e rimetto il ghiaccio e così per tutta la giornata; giro e rigiro in tondo, metto e ritolgo e rimetto fino allo sfinimento e alla fine della giornata i 100 metri sono diventati chilometri e le scarpe macigni. Nel frattempo Manlio sta. Lui sta a mezz’aria, con il telecomando in mano e lo sguardo fisso nell’altrove.