La vita è dentro e fuori di noi. Facciamo parte di un’immensa e brulicante fermentazione di organismi, accumunati da un irrefrenabile istinto di azione e conservazione. La natura è come una complessa rete di ragno, sofisticata e vischiosa. Ovunque volgiamo lo sguardo, scopriamo delle relazioni dinamiche fatte di somiglianze, affinità, ramificazioni, grovigli e intrecci. È sufficiente osservare i batteri e i virus per essere affascinati dalla loro “intelligenza sociale”, capace di trascendere il tempo e lo spazio, attraversando, nei suoi continui salti di specie, l’intera materia vacua e instabile dei corpi. Un solo milligrammo di placca dentale contiene circa duecentocinquanta milioni di batteri, mentre i primi quindici centimetri di un terreno possono ospitare fino a sei milioni di minuscoli vermi (nematodi), classificabili in 200 specie diverse. In termini di biodiversità, sul nostro pianeta vivono quattordici - forse trenta - milioni di specie distribuite in ogni angolo del mondo; per ora gli scienziati ne hanno studiate e identificate solo due milioni. Tutto quello che osserviamo oggi, è il prodotto di circa quattro miliardi di anni di evoluzione. Condividiamo parte del nostro DNA con le piante, le galline, i maiali e il moscerino della frutta (Drosophila melanogaster). I partner di questo mondo condiviso sono tanti e insieme contribuiscono ad alimentare la moltitudine eterogenea del vivente, tuttavia l’uomo, animale tra animali, è l’unico a sentirsi unico e speciale.

Il “benessere occidentale”, diretta conseguenza di un rapporto di potere strategicamente asimmetrico nei confronti degli altri esseri viventi, fonda la propria esistenza su una politica economica votata al consumismo frenetico e all’irresponsabile sfruttamento delle risorse naturali. La storia dell’uomo si muove in opposizione all’animalità; non è un caso che il progresso tecnologico coincida con il nostro distanziarci dalla natura. “Specismo” e “antropocentrismo” camminano l’uno di fianco all’altro, per ribadire che la separazione di specie segna il confine ultimo della morale, il limite oltre il quale qualsiasi essere vivente perde valore e dignità. Allo stesso livello si pongono il razzista e il sessista, quando fanno prevalere i loro interessi a discapito dei propri simili. Per la maggioranza delle persone la subalternità dell’animale all’uomo è giustificata da uno stato di necessità, legato principalmente a fattori alimentari e culturali; questo fatto permette di sdoganare la parola “addomesticamento”, legalizzando gli allevamenti-lager, i mattatoi, i circhi, gli zoo, i canili, ecc.

Il tema dei diritti degli animali ha sollevato accesi dibattiti tra specisti e animalisti. Sulla scia di queste discussioni, il 15 ottobre 1978 presso la sede dell’UNESCO a Parigi, è stata resa pubblica la “Dichiarazione Universale dei Diritti dell'Animale”, in base alla quale il benessere degli animali, definito come “lo stato di completa sanità fisica e mentale che consente all’animale di vivere in armonia con il suo ambiente” (definizione OMS/Hughes 1976), è assicurato da cinque irrinunciabili libertà:

  1. libertà dalla fame, dalla sete e dalla cattiva nutrizione, mediante il facile accesso all'acqua fresca e a una dieta in grado di favorire lo stato di salute;
  2. libertà di avere un ambiente fisico adeguato, comprendente ricoveri e una zona di riposo confortevole;
  3. libertà da malattie, ferite e traumi, attraverso la prevenzione o la rapida diagnosi e la pronta terapia;
  4. libertà di manifestare le caratteristiche comportamentali specie-specifiche, fornendo spazio sufficiente, locali appropriati e la compagnia di altri soggetti della stessa specie;
  5. libertà dal timore, assicurando condizioni che evitino sofferenza mentale.

Dello stesso avviso è l'articolo 544 del nostro codice penale: “Chiunque, per crudeltà o senza necessità, cagiona una lesione a un animale ovvero lo sottopone a sevizie o a comportamenti o a fatiche o a lavori insopportabili per le sue caratteristiche etologiche, è punito con la reclusione (da tre a diciotto mesi o con la multa da 5.000 a 30.000 euro)”.

Come sempre accade in questi casi, i termini “necessità”, “spazio sufficiente”, “locali appropriati”, “caratteristiche comportamentali specie-specifiche”, si adattano di volta in volta alle circostanze e alle interpretazioni.

Sappiamo tutti che negli allevamenti intensivi gli animali sono costretti a vivere in ambienti artificiali molto ristretti, senza finestre, in assenza di luce solare, di terra ed erba, ammassati l’uno contro l’altro, in mezzo a feci, urina ed esalazioni tossiche. Si stima che nel mondo ogni anno vengano macellati più di 150 miliardi di animali, non prima di averli sottoposti a una serie di crudeli trattamenti, legalizzati in nome della praticità e della massimizzazione dei profitti. Tra quelli più diffusi vi sono la separazione precoce dei vitelli dalla madre e la castrazione dei maialini, per evitare che al momento della macellazione si possa sprigionare l’odore tipico del maschio fertile; secondo la legge tale pratica può avvenire senza l’uso di anestesia né di antidolorifici, se effettuato nei primi sette giorni di vita dell’animale. Altre brutalizzazioni riguardano la sistematica uccisione dei pulcini maschi negli allevamenti di galline impiegate nella produzione delle uova; l’eliminazione di questi animali avviene nel loro primo giorno di vita, per triturazione mentre sono ancora vivi o per asfissia. Ma la lista non finisce qui, sono praticati anche l’abbattimento o lo stordimento tramite pistola a proiettile captivo (una punta di ferro penetra rapidamente nel cranio dell’animale), l’elettronarcosi, l’uccisione tramite sgozzamento e successivo dissanguamento, l’avvelenamento da monossido di carbonio in un’apposita camera a gas (tale trattamento è impiegato per sopprimere i visoni, i volatili adulti e gli animali di grossa taglia, compresi i maiali). Senza dimenticare il triste destino delle oche allevate per il commercio di piume e piumini, oppure destinate alla produzione del famoso paté di foie gras (fegato grasso); in quest’ultimo caso sono sottoposte alla crudele pratica del gavage, che consiste nell’ingrassare l’animale in maniera forzata, alimentandolo tramite un tubo metallico inserito nell’esofago. Esistono anche il sacrificio e la sofferenza per “cause nobili”, come quelle provocate dai test per valutare la sicurezza dei farmaci, dei cosmetici, delle protesi e delle tecniche chirurgiche, dei materiali destinati a proteggere l’incolumità delle persone.

Nei confronti degli animali siamo abituati a utilizzare delle categorie culturali e psicologiche che non hanno nulla a che fare con il loro reale valore in termini di biologia e filogenesi. Le nostre scelte, che ruotano intorno alla vita e alla morte degli altri esseri viventi, sono arbitrarie, superficiali, spesso condizionate da fattori come l’affetto e la simpatia (cani, gatti, canarini, pappagalli, pesci, cavalli, delfini, panda, ecc.), l’utilità (bovini, ovini, suini, avicoli, ecc.), l’indifferenza oppure l’antipatia e la repulsione (serpenti, ragni, insetti, vermi, ecc.). Del resto siamo degli inguaribili pragmatici e incuranti delle sofferenze causate dalle nostre scelte alimentari, preferiamo lavarci la coscienza delegando agli altri il “lavoro sporco”: c’è chi per noi alleva, uccide e macella la carne degli animali, trasformandola in semplice merce da esporre sugli scaffali dei supermercati. L’indifferenza e la presa di distanza morale sono le principali armi che utilizziamo per liberarci dai sensi di colpa. La tacita accettazione delle sofferenze e dell’infelicità degli animali, in nome del “benessere umano”, ha un sapore terribilmente amaro.

La sistematica, silenziosa uccisione di milioni di animali non è forse una necessità primaria per sopravvivere? Per contrastare la legittimazione sociale di una “violenza per giuste cause”, è necessario un cambiamento di paradigma, in modo da ristabilire una scala di valori etici, utile per avviare un dialogo costruttivo dal punto di vista educativo e culturale. La violenza di specie, sia in forma fisica sia psicologica, fondata su una struttura gerarchica dedita allo sfruttamento, alimenta il decadimento culturale dell’intera umanità ed è l’espressione della “miseria del mondo”. Purtroppo la nostra società, malata di antropocentrismo, è frutto di una narrazione di stampo maschilista e patriarcale: non dobbiamo dimenticare che l’egemonia dell’uomo nei confronti degli animali si accompagna storicamente allo sfruttamento della natura e al predominio del maschile sul femminile (violenza di genere).