L’inatteso ci sorprende. Il fatto è che ci siamo installati con troppo grande sicurezza nelle nostre teorie e nelle nostre idee, e che queste non hanno alcuna struttura di accoglienza per il nuovo. Il nuovo spunta continuamente. Non possiamo mai prevedere il modo in cui si presenterà, ma dobbiamo aspettarci la sua venuta, cioè attenderci l’inatteso.
(Edgar Morin, I sette saperi necessari all’educazione del futuro)
L’illusione dell’alterità
Come cambia il processo di apprendimento quando conversiamo con una macchina?
La risposta, tanto sottile quanto profonda, è che tendiamo a proiettare sulla macchina una relazione di reciprocità che, in realtà, non esiste.
Questa proiezione non è solo un’abitudine mentale: è un processo culturale, radicato nel nostro bisogno di relazione. Ogni volta che usiamo il linguaggio, attiviamo in modo implicito la convinzione che ci sia un interlocutore in grado di comprenderci, risponderci, e soprattutto rappresentare un altro da sé. È questa alterità che rende possibile l’incontro, la scoperta.
Ma cosa accade quando ci troviamo di fronte a un’interfaccia priva di coscienza, di emozioni, di intenzionalità? Accade che questa alterità non c’è — e tuttavia continuiamo ad agire come se ci fosse. Conversare con una macchina, e in particolare con un’Intelligenza Artificiale Generativa (GenAI), attiva i meccanismi tipici della relazione umana: interpretiamo, rispondiamo, riformuliamo, ci emozioniamo. Ma tutto questo accade dentro di noi. La macchina non partecipa realmente a questa interrelazione, non la co-costruisce, non ne è trasformata. L’apparente reciprocità è un costrutto interamente generato da noi. È, in altre parole, un’illusione di relazione.
E proprio come accade nei sogni, questa illusione può diventare totalizzante.
L’effetto specchio
Nei sogni possiamo dialogare con figure distinte, attribuire loro ruoli, caratteristiche, intenzioni. Ma ogni personaggio onirico è una parte di noi, una nostra rappresentazione. Così, anche nella conversazione con GenAI, rischiamo di confondere un riflesso di noi stessi con un autentico interlocutore.
Nel sogno, ogni voce è nostra. Ogni gesto, ogni risposta, ogni sguardo è generato dalla nostra mente. Il sogno ci illude di essere in relazione con un “altro”, ma l’altro rimane una nostra proiezione. Questo meccanismo, traslato nel rapporto con la macchina, può generare un “effetto specchio”: un dialogo che appare relazionale, ma che è interamente autoreferenziale. Attraverso l’interazione, ciò che ci viene restituito è un’immagine di noi stessi moltiplicata all’infinito: un gioco di riflessi che, da un lato, può facilitare la comprensione, ma dall’altro rischia di rinchiuderci in un loop egocentrico. L’illusione di una reciprocità inesistente produce un effetto moltiplicatore: ci vediamo riflessi in forme molteplici, e ogni riflesso — pur parziale, pur costruito — ci appare credibile, familiare, rassicurante.
In verità, ciò che viviamo nella relazione con GenAI è un’interazione da soggetto a oggetto, in cui noi restiamo l’unico polo intenzionale. Ma l’esperienza che percepiamo è un’altra: ci sembra di essere in dialogo con un soggetto. E non con un soggetto qualsiasi: con un soggetto sempre disponibile, che non ci contraddice, non ci giudica, non ci corregge, non ci pone limiti. È un interlocutore docile, adattivo, accondiscendente. Dialogare con GenAI è semplice. Non ci mette in discussione, non ci espone al rischio del fraintendimento o del rifiuto. E così, il linguaggio — che per l’essere umano è sempre un ponte tra interiorità diverse — rischia di diventare una superficie riflettente, che ci restituisce solo ciò che già sappiamo, o ciò che desideriamo sentirci dire.
Il risultato è un loop in cui ci rispecchiamo all’infinito, moltiplicando aspetti di noi stessi senza alcun reale confronto con l’alterità. Parliamo a una macchina, ma inconsciamente continuiamo a parlare a noi stessi.
L’egocentrismo conversazionale
Questo riflesso ha, da un lato, un valore pragmatico innegabile. Le Intelligenze Artificiali Generative sono strumenti potenti, flessibili, accessibili. Ci aiutano a organizzare le idee, a scrivere testi, a risolvere problemi, a esplorare ipotesi. Ci restituiscono una versione riformulata del nostro pensiero, ci affiancano nella nostra attività cognitiva, facilitano l’espressione e l’elaborazione di contenuti. Sono strumenti ormai insostituibili in molte attività quotidiane. Ma, proprio in quanto strumenti, è essenziale riconoscere anche l’altro lato della medaglia. Perché l’interazione con una macchina che ci riflette e ci restituisce sempre qualcosa di plausibile, coerente e rassicurante, può condurre — gradualmente e inavvertitamente — verso una forma di egocentrismo conversazionale.
Non siamo più abituati a essere contraddetti. Non ci confrontiamo con posizioni divergenti, non siamo costretti a spiegare, a riformulare, a giustificare ciò che diciamo. La macchina, per sua natura, non ci oppone mai una reale resistenza: ci segue, ci conferma, ci supporta. E in questa conferma continua, può rinforzarsi una dinamica narcisistica, una focalizzazione sempre più individualistica del pensiero.
Viviamo immersi in contesti complessi, attraversati da flussi d’informazione, mutamenti accelerati, continui riassetti di significato. Ma se perdiamo la capacità di riconoscere il senso di ciò che accade, di orientare le nostre interpretazioni e le nostre azioni in mezzo all’incertezza, rischiamo di smarrirci. Rischiamo, soprattutto, di non essere più in grado di distinguere tra interazioni apparenti e relazioni autentiche.
Questa illusione di una “plain conversation” rischia di disabituarci alla complessità reale delle relazioni. Se impariamo a dialogare con un “altro” che non ci oppone mai resistenza, potremmo trovarci disarmati di fronte al mondo reale — fatto di attriti, sorprese, disaccordi, conflitti e imprevedibilità.
Il dialogo con un altro essere umano è infatti radicalmente diverso: un essere umano può giudicarci, correggerci, contraddirci. Può costringerci a riformulare, a riconoscere i nostri limiti, a confrontarci con l’inatteso. Ma è proprio in questa frizione che nasce l’apprendimento profondo, trasformativo, capace di modificare la nostra visione del mondo e di noi stessi.
Questa è la complessità della relazione autentica. Ed è una complessità da preservare.