In un’epoca in cui il disordine sembra dominare il mondo può essere utile fare un breve viaggio nel tempo alla ricerca della fonte dell’ordine sociale. Per ragione di sintesi, confiniamo il viaggio al pensiero occidentale, a partire dall’alto medioevo.

Prima tappa. Entrando nella cattedrale di Chartres, una volta ripresi dallo stupore per la foresta di pietra immersa in fasci di luce colorata, si può osservare sul pavimento un grande labirinto circolare di 12,87 metri di diametro. Il percorso dall’ingresso del labirinto alla meta centrale è lungo 161,5 metri. Il fedele dovrebbe percorrerlo in ginocchio in circa due ore, il tempo impiegato da Gesù per raggiungere la cima del Golgota dal palazzo di Ponzio Pilato. Lungo il cammino tortuoso, il credente talvolta si avvicina alla salvezza, talvolta se ne allontana. L’importante è non fermarsi, e non dubitare della meta che il progetto divino ha assegnato all’uomo. Perché, come afferma Dante, nel creato le cose tutte quante/ hanno ordine tra loro e questo è forma/ che l’universo a Dio fa simigliante (Par. I 103-105). Anche l’ordine sociale fa parte dell’ordine divino. Ed è l’imperatore, che, secondo Dante, incarna il potere temporale, a dover guidare l’uomo alla felicità terrena, anticipazione di quella ultraterrena. Insomma, l’ordine delle cose terrene è già inscritto nel progetto del creato e nel destino assegnato all’uomo. Se l’ordine terreno non si realizza è solo perch’a risponder la matera è sorda (Par. I 129).

Seconda tappa. Due generazioni dopo Dante, la visione teologica dell’ordine terreno già appare sbiadita. Boccaccio nel Decamerone non alza più gli occhi al cielo alla ricerca dell’ordine, ma li tiene ben fissi sulla società del tempo. Contemporaneamente, tra il 1338 e 1339, Lorenzetti dipinge a Siena l’Allegoria del buon governo, in cui mostra come l’ordine delle cose terrene venga da giuste leggi e dalla concordia sociale. La rappresentazione dell’ordine sociale ha come fulcro centrale la Giustizia, seduta su un trono, circondata dalla scritta Diligite iustitiam qui iudicatis terram (Amate la giustizia voi che governate la terra). Dalla bilancia della Giustizia scendono una corda bianca e una rossa, che vengono riunite e intrecciate dalla Concordia (letteralmente, cum corda). La corda intrecciata viene affidata dalla Concordia a 24 cittadini che, passandosela di mano in mano, la fanno giungere al Bene Comune.

Giustizia, Concordia e Bene Comune sono le virtù civiche, l’architrave del buon governo. Nella società comunale l’ordine sociale, e la felicità che ne deriva, non è più emanazione naturale dell’ordine divino, e opera del suo rappresentante imperiale in terra, ma è il risultato di un patto tra i cittadini. È una idea che avrà molta fortuna, che giunge fino alle moderne costituzioni democratiche. A partire dalla Dichiarazione d’Indipendenza americana del 1776, dove, su suggerimento del filosofo napoletano Gaetano Filangieri, a cui Benjamin Franklin aveva inviato la bozza, viene inserito il diritto al “perseguimento della felicità”.

Terza tappa. Nel 1882 Edison illumina alcuni edifici di New York e nasce l’era dell’elettricità. È l’apoteosi della scienza e della tecnica, ben rappresentata dal Lampione di Giacomo Balla del 1910-11, che, diffondendo una accecante luce artificiale, si impone come un nuovo sole creato dal genio umano. Sull’onda delle conquiste scientifiche e tecniche si fa strada un nuovo criterio di ordine sociale. La borghesia trionfante si convince che l’ordine di una società debba poggiare su regole più solide di un patto tra i cittadini.

La società andrebbe retta da regole assimilabili a quelle della natura, dedotte con metodo scientifico dalla obiettiva osservazione dei comportamenti umani. Una impostazione che, per fortuna, ha una scarsa applicazione alla società in generale, ma che trova terreno favorevole nell’organizzazione delle masse di lavoratori della grande fabbrica. Taylor nel 1911 pubblica il saggio Principi di organizzazione scientifica del lavoro, in cui si legge:

Nell’ordinario sistema organizzativo, il successo dipende quasi interamente dall’avere a disposizione le capacità di iniziativa della mano d’opera, ed è davvero raro che ciò effettivamente sia. Adottando il metodo scientifico, l’iniziativa di chi lavora - cioè lavoro intenso, buon volere ed ingegnosità - la si ottiene in modo assolutamente uniforme ed in grado superiore di quanto sia possibile con il sistema tradizionale; accanto a questo miglioramento delle prestazioni della mano d’opera, i dirigenti si assumono nuovi compiti, oneri nuovi, e responsabilità mai sognate nel passato. Chi ha mansioni direttive si assume, ad esempio, l’incarico di raccogliere tutte le nozioni tradizionali possedute in precedenza dalla mano d’opera, e di classificarle, ordinarle in tabelle, e sintetizzarle in prescrizioni, leggi e formule, che riescono immensamente utili al lavoratore nella sua attività quotidiana. Oltre a sviluppare per questa via un complesso di conoscenze scientifiche, la direzione assume tre altre categorie di compiti, che di per sé impongono nuove e pesanti responsabilità.

È possibile notare con quanta puntigliosità Taylor, in ossequio al metodo scientifico, insisti sulla necessità di osservare, misurare, compilare tabelle, e definire leggi e formule, per ottenere “lavoro intenso, buon volere e ingegnosità”, quasi una minuscola felicità, acconciata all’universo ristretto della fabbrica.

Quarta tappa. Arriviamo al protagonista del mondo moderno: l’algoritmo. Miliardi di regole, organizzate nelle strutture logiche di milioni di algoritmi, che raccolgono e analizzano dati per impartire ordini alle macchine e per strutturare e coordinare le interazioni sociali. Ormai, ogni nostra interazione col mondo fisico e sociale è preparata, accompagnata e valutata da decine di algoritmi. Anche il semplice gesto di accedere la luce innesca un complesso lavoro di algoritmi che dirigono il traffico dell’energia sulla rete elettrica, calcolano il consumo, aggiornano i dati contabili e fanno previsioni sul consumo futuro. Un lavorio costante, preciso, instancabile di calcoli, ordinamenti, spostamenti, assegnazioni, realizzato da una miriade di solerti schiavi logici.

Dietro ad ogni App del telefonino agiscono in silenzio algoritmi di cifratura per preservare la privacy, algoritmi che comprimono immagini e video, algoritmi che indirizzano i messaggi al destinatario, e, per finire, algoritmi che scandagliano le nostre abitudini per anticipare un ambiente futuro più coerente con i nostri desideri. Nel loro insieme gli algoritmi formano un groviglio di processi logici e di dati che assomiglia molto al dipinto del 1948 di Pollock Number 19. Incomprensibile, eppure tiene insieme l’ordine del mondo.

I criteri d’ordine visti fin qui hanno un obiettivo comune: combattere il disordine del mondo. Un disordine che assume nel tempo volti diversi. Per l’ordine divino, il disordine è il male, personificato da Lucifero e dai demoni che tentano di sviare l’uomo dalla via della salvezza. Per l’ordine del buongoverno, il disordine è la discordia che avvelena la vita sociale, e manda in rovina le città e i popoli. Per l’ordine della ragione, il disordine si presenta nella forma inafferrabile dell’evento casuale: il caso è il nemico inafferrabile, che trasforma la certezza deterministica delle leggi in una distribuzione di probabilità.

Infine, per l’algoritmo, il nemico è ben nascosto nella sua stessa logica costruttiva, quella di essere un sistema coerente di regole. Ebbene, ogni sistema coerente di regole ha come nemico l’incompletezza, cioè l’impossibilità di prevedere tutte le situazioni in cui si troverà operare. Vi saranno sempre accadimenti non prevedibili, che, dal punto di vista dell’algoritmo, sono attribuibili al disordine di un mondo, sempre eccedente rispetto a ciò che le regole riescono a descrivere.

Ma davvero il disordine è il nemico dell’ordine? Nell’800 gli scienziati scoprono che l’energia si trasmette sia in modo ordinato (col lavoro) sia in modo disordinato (col calore), e l’entropia ne misura il grado di disordine. Si scopre che i sistemi viventi utilizzano l’energia disordinata delle reazioni chimiche spontanee (quelle che generano maggiore entropia) per costruire l’ordine complesso delle molecole, tessuti e organi. La vita è una macchina a entropia: costruisce ordine per mezzo del disordine.

La novità non è di poco conto, perché appare chiaro per la prima volta che il disordine non è nemico dell’ordine, bensì l’ordine coopera continuamente col disordine. Un’affermazione che il pensiero complesso generalizza ai sistemi sociali: è solo grazie al disordine sociale, quello generato dalle differenze individuali, dalla creatività e dalla varietà, che è possibile rinnovare l’ordine sociale. Sono convinto che la scoperta dell’intreccio indissolubile tra ordine e disordine abbia acceso una miccia a combustione lenta, che brucerà antiche certezze, e darà il via a un nuovo modo di guardare e stare al mondo. Toccherà a tutti noi impegnarci per capire come scrivere la storia che verrà.