Una volta, tanto tempo fa, lo si definiva come mare nostrum, considerandolo una sorta di proprietà, se non storica di certo politica. La definizione viene dall’antichità romana che ai tempi centrali dell’Impero vedeva l’intero bacino governato dall’Urbe. Oggi potrebbe essere definito allo stesso modo ma con riferimento a tutti i popoli e le nazioni che su di esso si affacciano e considerato un luogo di incontro e di mediazione politica, culturale e - nel nostro tempo travagliato - anche ambientale.

La sorte del mare, infatti, appare minacciata dall’inquinamento e dagli sversamenti reiterati di sostanze inquinanti, dall’eccesso di traffici mercantili e di ogni altro genere e al centro di contese e crisi internazionali che ne fanno anche uno specchio d’acqua molto “armato” per così dire, solcato da flotte in armi, da trafficanti e teatro di drammi e tragedie frutto della povertà e della diseguaglianza.

Sul fronte dell’analisi ambientale, che ci interessa porre in essere e che potrebbe avere anche versanti economici e tecnici per l’impatto che i mutamenti dell’ecosistema possono inevitabilmente trasferire nelle nostre vite e nelle nostre attività vi sono fenomeni allo studio che costituiscono altrettanti punti di interesse per le loro possibili interazioni.

Spesso si tratta di ricerche e di studi su fenomeni periodici o puntuali o di tendenze in atto che trovano nella sperimentazione i riscontri necessari e che aprono per ciò stesso nuovi possibili capitoli evolutivi nelle grade specchio d’acqua tra le terre, come dice la traduzione del suo nome, e che pure è tra gli specchi d’acqua minori nei confronti di oceani e mari negli altri angoli del globo. Ma è e resterà sempre un gigante in termini di civiltà di storia, di cultura ed oggi, anche di scienza che ne studia i suoi mutamenti possibili e probabili in atto.

Sono due in particolare le ricerche – promosse dal Consiglio nazionale delle ricerche - sulle quali poniamo l’attenzione e che sono a loro modo testimonianza di quanto sta accadendo. La prima secondo la quale le regioni centrali del Tirreno e la Pianura Padana sembrano divenire una sorta di hot-spot per i tornado. Si tratta di un recente lavoro, condotto dal Cnr-Isac pubblicato su Atmospheric Research che ha analizzato 32 anni di dati (1990-2021) e 445 tornado su tutta Italia. Si è accertato statisticamente che ad essere particolarmente colpite da tali fenomeni sono le aree che si affacciano sul Tirreno (Lazio in particolare), le regioni sud-orientali (Puglia-Calabria) e la Pianura Padana.

Gli studi più recenti hanno evidenziato come i tornado nell’area mediterranea, e in Italia in particolare, non siano degli eventi rari. Il lavoro condotto dall’Istituto di scienze dell’atmosfera e del clima del Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr-Isac), conferma l’esistenza di specifiche aree maggiormente affette da tornado di forte intensità. “L’intensificazione di tali fenomeni, nel corso degli anni, è condizionata - commenta Elenio Avolio uno degli autori - anche dal cambiamento climatico in atto, essendo confermato che esistono delle forzanti specifiche, come la temperatura superficiale del mare, con un ruolo importante nello sviluppo di tali eventi”.

“Le regioni centrali tirreniche italiane – osserva la ricerca - possono essere definite come un hot-spot per i tornado nell’area mediterranea. Le analisi statistiche sono state condotte analizzando sia misure (radiosondaggi) sia output da modelli a grande scala (re-analisi), al fine di individuare le condizioni atmosferiche dominanti associate ai tornado individuati. È stato quindi possibile definire delle specifiche configurazioni atmosferiche prevalenti, potenzialmente favorevoli al loro sviluppo nell’area in studio”.

Ecco allora che si è potuto accertare che, per quanto riguarda il Tirreno, le condizioni atmosferiche medie sono caratterizzate da un'area di bassa pressione sull’Italia nord-occidentale, sia in quota che in superficie, e da venti al suolo sud-occidentali in grado di trasportare aria più calda della media verso le regioni colpite.

L’utilizzo di modelli meteorologici previsionali ad alta risoluzione, nel corso degli anni, ha consentito di raggiungere livelli importanti di conoscenza sulla dinamica di tali eventi, che per definizione sono altamente localizzati nel tempo e nello spazio e, quindi, particolarmente difficili da prevedere.

In proposito, si fa riferimento al tornado verificatosi sul litorale laziale il 28 luglio 2019, tristemente noto per aver causato la morte di una persona. Questo evento è stato scelto come caso di studio e analizzato in dettaglio mediante simulazioni numeriche ad alta risoluzione (modello ad area limitata WRF), al fine di comprendere al meglio le caratteristiche dinamiche e verificare la capacità predittiva di un simile fenomeno.

“I risultati hanno mostrato come sia possibile prevedere con successo valori elevati di specifici indicatori d’instabilità atmosferica e di convezione profonda tipici dei tornado, nonché di simulare correttamente la struttura delle celle convettive responsabili della genesi di tali eventi”, è scritto nelle conclusioni.

Il risultato dello studio pone l’accento sull’importanza di un sistema meteorologico integrato “modellistico ed osservativo” dedicato al monitoraggio e alla previsione operativa di tali fenomeni intensi.

Il secondo caso di studio si è soffermato sul moto ondoso del Mediterraneo e in particolare su quelle onde particolarmente alte da poter essere censite e seguite nel la loro genesi e nel loro sviluppo. La ricerca è stata curata da un gruppo di scienziati dell’Istituto di scienze marine e dell’Istituto di science polari del Cnr, assieme all’Università dell’Aquila, ed è stata pubblicata su Frontiers in Marine Science. Si tratta di un’analisi basata sui dati raccolti negli ultimi quarant’anni e che evidenzia in particolare un aumento delle altezze d’onda d’inverno e una diminuzione in estate.

Lo studio dei fenomeni marini ha sottolineato come il vento svolga un ruolo determinante nella dinamica del moto ondoso rafforzandone le caratteristiche. Le onde generate dal vento sui mari assumono, infatti, una particolare importanza poiché modulano lo scambio di energia, calore, ossigeno e anidride carbonica tra l’acqua e l’atmosfera circostante.

Negli ultimi anni, la misurazione delle loro caratteristiche attraverso l’utilizzo di strumentazione quali boe e satelliti, è sempre più spesso supportata dall’impiego di modelli numerici, che simulano il clima ondoso in vaste aree marine per lunghi intervalli temporali.

Nella ricerca della quale ci occupiamo, un gruppo composto da scienziati dell’Istituto di scienze marine (Cnr-Ismar) e dell’Istituto di scienze polari (Cnr-Isp) con l’apporto dell’Università dell’Aquila, ha potuto realizzare una sorta di climatologia delle onde nel mar Mediterraneo per il periodo 1980-2019, studiandone variabilità, cambiamento ed entità in condizioni ordinarie ed estreme.

Ad essere analizzate per la prima volta sono le onde individuali più alte, le cosiddette onde estreme, che rappresentano un problema per la navigazione e per le strutture offshore. Lo studio si è avvalso delle simulazioni del vento sul mare del Centro europeo per le previsioni meteorologiche a medio termine (ECMWF), nonché di un modello numerico di simulazione dello stato del mare sviluppato dal National center for environmental prediction (NCEP-NOAA), il servizio meteorologico statunitense, appositamente modificato dai ricercatori per ricostruire e prevedere le onde estreme. I dati raccolti sono stati poi validati attraverso il confronto con le misurazioni di altimetri satellitari.

“I risultati hanno confermato la capacità dei modelli di riprodurre la variabilità temporale e i trend di cambiamento climatico delle altezze d’onda, oltre a consentirci di proporre una nuova definizione delle stagioni in ambito ondoso mediterraneo, con inverni più lunghi e primavere/autunni più brevi”, spiega Francesco Barbariol, ricercatore del Cnr-Ismar e primo autore dello studio. “In condizioni ordinarie, le onde più alte si trovano nella parte occidentale e meridionale del Mediterraneo nel corso dell’inverno, mentre d’estate sono presenti in quella orientale.”

Il difficile contesto geografico e orografico gioca un ruolo importante nella formazione delle tempeste - sottolinea la ricerca – e durante quelle di maggiore intensità, nel periodo invernale, le onde raggiungono i valori più elevati, con altezze superiori ai 12 metri nella parte occidentale del Mediterraneo. Questa nuova climatologia evidenzia, negli ultimi 40 anni, un aumento delle altezze d’onda d’inverno e una diminuzione in estate: i moderni strumenti numerici consentiranno di valutare, con un’incertezza sempre minore, se queste tendenze verranno confermate anche in scenari futuri, in un contesto come quello del mar Mediterraneo dove gli effetti del cambiamento climatico si attendono più marcati che altrove”.

Questo è dovuto alle caratteristiche proprie di questo grande e complesso specchio di acqua e delle dinamiche che in esso accadono in relazione anche al suo collegamento con l’Oceano Atlantico da un lato ed il Mar Nero dall’altro.