Il 4 ottobre 1957 segna una data cruciale nella storia dell’umanità. Con il lancio dello Sputnik 1, il primo satellite artificiale, l’umanità varca una nuova frontiera tecnologica, aprendo la strada all’esplorazione dello Spazio. Questo evento non ha solo inaugurato l’era spaziale, ma ha anche cambiato per sempre il nostro rapporto con il cosmo. Da quel giorno, sonde, rover e lander hanno esplorato diversi corpi celesti, lasciando su di essi tracce tangibili dei nostri progressi tecnologici.

Oggi, in un contesto sempre più globalizzato e caratterizzato dalla crescente privatizzazione dello spazio, emerge l’urgenza di preservare questi resti materiali, come testimonianze dei primi passi dell’umanità verso una civiltà interplanetaria. La sfida non è solo tecnologica, ma anche culturale e scientifica, e richiede una prospettiva interdisciplinare che coinvolga archeologia, geologia planetaria e politiche di protezione del patrimonio.

L’idea di considerare i detriti spaziali come “eredità culturale” nasce da una riflessione sulla loro importanza storica, che è alla base di una disciplina emergente, la geoarcheologia planetaria, che studia l’interazione tra i manufatti umani e gli ambienti extraterrestri. Collegata all’archeologia spaziale e alla geologia planetaria, questa nuova disciplina si propone di catalogare e preservare i resti delle missioni spaziali per due obiettivi principali: favorire lo studio scientifico e tutelare la memoria collettiva dell’esplorazione.

La Luna, ovviamente, rappresenta il primo scenario dell’espansione umana oltre i confini terrestri. Le missioni lunari sovietiche e le celebri missioni Apollo degli Stati Uniti hanno lasciato sulla sua superficie un’eredità materiale che comprende moduli di atterraggio, strumenti scientifici e persino tracce di passi umani. Questo patrimonio non è solo simbolico, infatti, documenta le fasi iniziali di un’epoca in cui l’umanità ha iniziato a confrontarsi con l’ambiente extraterrestre.

Uno degli aspetti più interessanti di questi resti è la loro capacità di raccontare una storia tecnologica e scientifica unica. Ad esempio, i moduli lunari lasciati dalle missioni Apollo non sono semplici relitti, ma monumenti di ingegneria che testimoniano le capacità tecniche di un’epoca e le aspirazioni di una generazione. La loro conservazione, tuttavia, non è garantita: l’assenza di un’atmosfera e l’esposizione continua alle radiazioni cosmiche possono accelerare il deterioramento di questi manufatti, minacciando la loro integrità.

Se la Luna rappresenta il primo passo, Marte offre un contesto unico per lo studio dell’interazione tra manufatti umani e ambienti extraterrestri. Dal 1971, quando il Mars 2 sovietico raggiunse per la prima volta la superficie del pianeta, Marte è diventato un vero e proprio laboratorio naturale. A oggi, oltre 10.000 kg di sonde, rover e altri strumenti scientifici giacciono sulla sua superficie. Tra questi si trovano paracaduti, scudi termici, piattaforme di discesa e persino un elicottero sperimentale, tutti parzialmente ricoperti dalla polvere marziana. Questi manufatti non sono solo testimonianze del passato, ma rappresentano anche una straordinaria opportunità di studio.

Analizzare come i materiali reagiscono alle condizioni estreme di Marte, dalla bassa pressione atmosferica, agli enormi sbalzi di temperatura e ai venti carichi di polvere, può fornire informazioni preziose per progettare future missioni e migliorare la durata delle attrezzature spaziali. Vi è poi la geologia planetaria, disciplina sviluppatasi negli anni ’60 durante le prime missioni lunari, che offre gli strumenti per comprendere non solo l’evoluzione geologica di corpi celesti con croste solide, ma anche l’impatto dell’attività umana su di essi.

Questo campo multidisciplinare integra competenze di geologia, fisica, ingegneria e astronomia, utilizzando dati acquisiti da remoto, simulazioni terrestri e l’analisi di meteoriti. Un aspetto cruciale è lo studio dei processi di deterioramento dei materiali umani, e gli ambienti extraterrestri pongono sfide uniche, infatti, radiazioni cosmiche, venti solari e tempeste di polvere accelerano il degrado dei manufatti, e per questo è urgente una rapida catalogazione e conservazione, non solo delle sonde ma anche e, soprattutto, di quelli che oggi consideriamo rottami, come scudi termici, paracadute e razzi di discesa.

Fortunatamente, la consapevolezza dell’importanza di preservare i manufatti spaziali sta iniziando a portare le prima iniziative concrete. Negli Stati Uniti, per esempio, è stato presentato un disegno di legge per proteggere i siti delle missioni Apollo sulla Luna, mentre la NASA, sta sviluppando linee guida per garantire che le future missioni non danneggino questi luoghi di interesse storico. Questi sforzi, inoltre, mirano a prevenire danni accidentali o appropriazioni indebite, soprattutto in vista di un futuro in cui il turismo spaziale potrebbe diventare una realtà comune.

Il professor Justin Holcomb, antropologo presso il Kansas Geological Survey, è uno dei maggiori sostenitori di questa necessità. Secondo Holcomb, la conservazione dei manufatti spaziali non è solo una questione tecnica, ma anche una responsabilità etica verso le future generazioni. Secondo Holcomb, considerare questi resti come patrimonio culturale, e non come semplice spazzatura spaziale, rappresenterebbe un passo fondamentale per valorizzare la memoria storica dell’umanità; poiché ogni frammento lasciato su Luna, Marte e gli altri corpi celesti raggiunti, racconta una storia unica, quella di una specie che ha osato guardare oltre il proprio mondo. Preservare queste testimonianze, quindi, non significa solo proteggere il passato, ma anche ispirare il futuro.

Questo concetto è alla base di uno studio approfondito del professor Holcomb, firmato insieme al suo gruppo di ricercatori, intitolato "Emerging Archaeological Record of Mars", e pubblicato il 16 dicembre 2024 su Nature Astronomy. In esso il ricercatore analizza come l'umanità, dopo essersi espansa in tutto il pianeta, stia attualmente attraversando una "fase storica inaugurale" nella nostra migrazione attraverso il sistema solare. Le sue parole:

Abbiamo iniziato a popolare il sistema solare, e proprio come abbiamo usato l’archeologia per studiare l’evoluzione umana sulla Terra, ora possiamo iniziare a farlo nello spazio esterno, seguendo sonde, satelliti, lander e i vari materiali lasciati indietro.

Considerando che l'archeologia è lo studio degli esseri umani e dei loro manufatti dalla preistoria ai giorni nostri; per estensione, l'archeologia spaziale deve diventare "lo studio della cultura materiale associata all'esplorazione spaziale dal XX secolo in poi", e in effetti: i primi esperimenti missilistici associati allo Spazio sono iniziati negli anni '20 del secolo scorso, per cui i primi manufatti spaziali hanno già più di un secolo.

Pur senza una direttiva ancora riconosciuta, la NASA, svolge già un ruolo significativo di raccolta e catalogazione in questo ambito. Oltre a gestire numerosi musei spaziali che custodiscono testimonianze del passato e dell’esplorazione del nostro pianeta, l’agenzia ha raccolto una vasta quantità di documenti e materiali sull’esplorazione lunare e sulle sue missioni verso altri mondi, sempre con lo sguardo rivolto al futuro. Inoltre, in collaborazione con molte altre agenzie spaziali internazionali, la NASA è impegnata a rispettare tutti i trattati delle Nazioni Unite che regolano l’esplorazione dello spazio, garantendo che questa avvenga a beneficio dell’intera umanità. Tale impegno include non solo il rispetto per le persone, ma anche per i manufatti utilizzati nel corso delle missioni spaziali. Una conservazione che naturalmente coinvolge altre importanti Agenzia spaziali, fra cui la russa Roscomos.

Naturalmente, oggetti come i satelliti, o veicoli spaziali che volano verso un altro mondo, non si qualificano come siti di geoarcheologia planetaria, fino a che restano in orbita o in viaggio nello spazio. L'Union of Concerned Satellites, l’agenzia statunitense che raccoglie e aggiorna il database dei satelliti attivi, ci dice che a dicembre 2024 ci sono più di 6.700 satelliti in orbita attorno al nostro pianeta, oltre a un numero elevato di altri veicoli spaziali che attualmente volano altrove nello spazio, o che risiedono funzionanti su altri mondi. Oggetti costruiti dall’uomo che, prima o poi, in parte, si aggiungeranno all’elenco dei resti storici da studiare.

Ma le prossime missioni umane sulla Luna potranno potenzialmente mettere in pericolo questi cimeli. Supponendo che il programma Artemis rispetti i tempi previsti, la NASA prevede di riportare due americani sul nostro satellite con Artemis 3 entro il 2027. A questo riguardo, Holcomb teme che il nuovo programma lunare americano, oltre a missioni di soggetti privati, e di altre nazioni, possa potenzialmente mettere a rischio nel prossimo futuro l’integrità degli oggetti appartenenti all’esplorazione storica presenti sulla luna. Per questo motivo, auspica che quanto prima si decida che agli esploratori coinvolti in prima linea nell'esplorazione della Luna e di Marte possano unirsi anche degli archeologi, in particolare per preservare siti chiave come la zona di atterraggio dell'Apollo 11 nel Mare della Tranquillità, o il sito pionieristico della NASA Viking 1 che nel 1976 si è posato con successo nella pianura di Chryse Planitia su Marte.

In conclusione, l’esplorazione spaziale ha raggiunto un punto di svolta che invita a riflettere sulla necessità di preservare il nostro patrimonio extraterrestre, e lo studio del professor Holcomb, sottolinea l’importanza di integrare l’archeologia nello spazio, per documentare e tutelare i manufatti e i siti che testimoniano l’inizio della nostra espansione nel sistema solare. Tuttavia, con l’intensificarsi delle missioni lunari e marziane, emerge la sfida di bilanciare l’esplorazione futura con la salvaguardia del nostro passato storico. Collaborazioni tra scienziati, archeologi e agenzie spaziali saranno fondamentali in futuro per garantire che questa nuova era dell’umanità nello spazio, venga documentata e tramandata, non solo come progresso tecnologico, ma come eredità culturale condivisa dall’intera umanità.