In una recente intervista (per il canale streaming ViX di “Televisa Univision”, che è l’azienda leader mondiale nel settore dei media e dei contenuti di lingua spagnola) Papa Francesco ha dichiarato che, pur non avendo alcuna intenzione, per il momento, di rinunciare, ha prefigurato che – in caso di una sua eventuale rinuncia – non ritornerebbe in Argentina (dove aveva già pensato, quando era Arcivescovo di Buenos Aires, al suo ritiro come Arcivescovo emerito), ma rimarrebbe a Roma, come “Vescovo emerito di Roma”, e probabilmente risiederebbe a San Giovanni in Laterano (come riportato dall’”Osservatore Romano” del 12 luglio 2022). In buona sostanza, pur dichiarando la propria simpatia per il suo predecessore Benedetto XVI – ed anzi, elogiando il suo grande esempio, essendo “un uomo che sta sostenendo la Chiesa con la sua bontà e il suo ritiro di preghiera” – ha manifestato il proposito di voler prendere strade opposte a quelle intraprese da Papa Benedetto XVI, il quale risiede in Vaticano ed ha assunto il titolo di “Papa emerito”. In realtà è vero che Papa Francesco ha sempre riconosciuto, nella forte scelta di Benedetto XVI, non soltanto una decisione storica, ma anche una fondamentale opzione di apertura ecclesiale (“Io credo che Benedetto XVI non sia un caso unico…

Cosa succederà con i Papi emeriti? Io credo che dobbiamo guardare a lui come ad un’istituzione. Lui ha aperto una porta, la porta dei Papi emeriti. Ce ne saranno altri, o no? Dio lo sa”, così Papa Francesco al ritorno dal viaggio apostolico in Terra Santa del 26 maggio 2014); tuttavia, ha anche auspicato che, per il futuro, possano delimitarsi meglio le cose, “spiegarle meglio”, in quanto “la storia stessa aiuterà a regolamentare meglio”. Interessante, poi, il fatto che Papa Francesco – come gesuita – ha potuto meglio familiarizzare, in un certo senso, con questo istituto; infatti, gli ultimi tre “prepositi generali” del suo Ordine religioso (rimarcando il fatto che il superiore generale dei Gesuiti è chiamato giornalisticamente “papa nero”, proprio perché la carica durerebbe a vita) hanno cessato il mandato (a partire dal 1964-1965) prima della loro morte (oltre al preposito generale Lorenzo Ricci, ritiratosi forzatamente a causa della soppressione provvisoria dell’Ordine nel 1773). Va anche subito precisato che il termine canonisticamente corretto è quello di “rinuncia”, e non quello di “dimissione”, che è un provvedimento penale dell’Autorità competente (cfr. cann. 192-196 del Codice di Diritto canonico); inoltre, ci parrebbe più logico cercare di riflettere prima sul nuovo “status” del Papa rinunciante per poi ricavarne il titolo da assegnargli, piuttosto che fare il contrario (contra G. BONI, “Sopra una rinuncia - La decisione di papa Benedetto XVI e il diritto”, Bononia University Press 2015, 103). Pur rinviando ad altri più ampi studi per l’inquadramento sistematico della disciplina (in particolare: V. Gigliotti, “La tiara deposta – La rinuncia al papato nella storia del diritto e della Chiesa”, Leo Olschki 2013; G. Boni, “Sopra una rinuncia”, op. cit, e R.C. Delconte, “La rinuncia di Papa Benedetto XVI – Profili ecclesiologici e canonistici”, Fadia 2016), mi sembra necessario interrogarsi nuovamente sullo “status” del Papa che rinuncia, e così sul titolo da attribuirgli, dal momento che la riflessione (ancorché formalizzata durante un’intervista) di Papa Francesco va in opposta direzione, come abbiamo visto, rispetto alla scelta compiuta da Papa Benedetto XVI. Da questo punto di vista va anche preliminarmente osservato come il Papa – in quanto Supremo legislatore – sia altresì libero “nella rinuncia di disporre di sé e del suo futuro come meglio giudichi per il bene della Chiesa” (così D. Salvadori, cit. da G. Boni, op. cit., 103); ragione per cui potrebbe aver fatto bene Papa Benedetto XVI – all’inizio della nuova strada intrapresa – a decidere di chiamarsi “Papa emerito”, per non “offuscare” troppo il fondamentale valore del primato petrino. A conferma di questo mio ragionamento (premesso che anch’io, all’indomani della rinuncia, mi ero espresso a favore del titolo scelto da Benedetto XVI, v. R.C. Delconte, op. cit., 94 e ss.), possiamo considerare il fatto che la scelta effettuata sia stata valutata come “obbligata” (o almeno strategica) da Papa Ratzinger, in quanto egli avrebbe preferito (rinunciandovi, poi, per superiori ragioni ed anche per la insistenza altrui) il titolo di “Padre Benedetto” (trovando comunque non condivisibili le riserve sul titolo di “padre” avanzate da G. Boni, op. cit., 109, in quanto pienamente giustificato detto titolo per la particolarità della figura del Papa rinunciante, in ragione della sua autorevolezza morale ed ecclesiale).

Come è noto il can. 332, § 2, prevede espressamente la rinuncia: “Nel caso che il Romano Pontefice rinunci al suo ufficio, si richiede per la validità che la rinuncia sia fatta liberamente e che venga debitamente manifestata, non si richiede invece che qualcuno la accetti”. Pertanto, è sufficiente che la rinuncia sia fatta pubblicamente, almeno davanti a due testimoni (nel caso di Benedetto XVI, essa è stata fatta pubblicamente nel Concistoro alla presenza dei Cardinali). Per meglio esaminare il problema della rinuncia, occorre prima richiamare velocemente il “meccanismo” della nomina. Si può affermare “come dottrina certa che tale suprema potestà viene attribuita con la legittima elezione accettata dal Romano Pontefice insieme alla consacrazione o ordinazione episcopale. Quindi, si fa una chiara distinzione tra la qualificazione teologica della prima affermazione e quella della seconda: la prima è di fede, perché dipendente dall’istituzione divina; la seconda no” (così G. Ghirlanda, “Cessazione dall’ufficio di Romano pontefice”, in La Civiltà Cattolica, 2 marzo 2013, n. 3905). Ancora, ”Il Romano Pontefice è l’unico Vescovo che succede a un Apostolo, Pietro, per cui a lui sono trasmesse le prerogative personali di quest’ultimo. Gli altri Vescovi, in quanto Collegio, succedono al Collegio degli Apostoli, ma secondo un’analogia di proporzionalità” (così G. Ghirlanda, op. cit., 458). Quando “un non Vescovo è eletto al Sommo Pontificato, per l’accettazione della legittima elezione riceve la piena e suprema potestà, che è indivisibile, e che, distinguendolo costitutivamente da ogni altro Vescovo, lo fa essere Capo della Chiesa universale e del Collegio episcopale; ma il principio di economia, cioè del retto esercizio del suo ministero, determina l’esercizio di tale potestà prima della consacrazione episcopale: consacrazione che è necessaria perché l’eletto sia integrato nel Collegio, e la potestà che ha ricevuto sia veramente episcopale, quella del vescovo di Roma” (così G. Ghirlanda, op. cit., 461). D’altra parte, storicamente vi sono diversi casi di Papi eletti non Vescovi che hanno compiuto, prima della consacrazione episcopale, atti di suprema giurisdizione (seppur non riguardanti la natura più profonda della Chiesa, v. G. Ghirlanda, op. cit., 461). Di conseguenza, “colui che cessa dal ministero pontificio non a causa di morte, pur evidentemente rimanendo Vescovo, non è più Papa, in quanto perde tutta la potestà primaziale, perché essa non gli era venuta dalla consacrazione episcopale, ma direttamente da Cristo tramite l’accettazione della legittima elezione” (così G. Ghirlanda, op. cit., 462).

Alla luce di queste rapide considerazioni, pare perfettamente condivisibile l’attribuzione del titolo di “Vescovo emerito di Roma” per il Papa rinunciante (come già tempestivamente prospettato da G. Ghirlanda, op. cit., 448), il quale come ogni altro Vescovo emerito potrà – in spirito di servizio, collaborazione e umiltà – prestare il suo servizio a favore della Chiesa (v. G. Boni, op. cit., 105). In questo senso si procederebbe, forse, ad una giusta “episcopalizzazione” dell’ufficio petrino (v. A. Melloni, cit. da G. Boni, op. cit., 113). Non mi pare, poi, convincente che il Papa che rinunci non possa tornare ad essere Cardinale, se non con una nuova nomina (v. C. Fantappiè, cit. da G. Boni, op. cit., 105); infatti, riacquistando lo stato precedente a quello dell’elezione, parrebbe ingiustificato privarlo di ciò che già interamente possedeva (semmai, qualora il titolo della sede cardinalizia fosse già stato attribuito ad altro presule, ci potrebbe essere l’attribuzione del titolo cardinalizio in qualità di emerito).

Venendo però alla sostanza del discorso, è indubbio che, da parte del Papa rinunciante, non ci dovrà essere “nessuna ingerenza ed invadenza, a nocumento dell’unità, in quell’officium che un altro detiene e con il quale coltiverà un rapporto di sincera fraternitas comunionale: occorre fugare il disorientamento che nei fedeli potrebbe ingenerarsi dallo sdoppiamento dei pastori, mentre uno solo ‘è il capo e il primo responsabile del governo’” (così G. Boni, op. cit. 120). Dunque, ben venga l’auspicio di Papa Francesco – sulla base dell’esperienza – di meglio regolamentare la disciplina, onde evitare qualunque pericolosa interferenza col Papa in carica. Del resto, è plausibile che in futuro l’istituto si ripresenti con sempre più frequenza (sia per la maggior longevità da una parte, e sia per la più gravosa attività papale dall’altra, che ne sconsiglierebbe la prosecuzione del mandato in tarda età). A questo riguardo, non è da escludersi – in linea di principio – che nel giro di qualche anno potremmo avere due “Papi emeriti” (o “Vescovi emeriti di Roma”), qualora le condizioni di salute di Papa Francesco non gli consentissero più di esercitare il suo universale ministero, per far fronte all’urgenza e complessità delle nuove sfide pastorali, con quelle energie da lui ritenute assolutamente necessarie (proprio come già fece Benedetto XVI).