La falsa equazione tra evoluzione e progresso riflette un pregiudizio socio-culturale, non una conclusione della biologia, e non occorre una profonda intuizione per identificare la fonte primaria di questo pregiudizio nel nostro umano desiderio di vedere noi stessi come l’apice della storia della vita, i dominatori della terra per diritto e per necessità biologica. (…) I pregiudizi in favore del progresso richiedono di posizionare le creature superiori nello strato più alto perché questo luogo elevato indica il grado massimo dell’evoluzione.

(Stephen Jay Gould)

Darwin ci ha insegnato che non siamo comparsi su questo pianeta dal nulla, ma che è la storia evolutiva che segna, passo dopo passo, bivio dopo bivio, le tante strade casuali e impreviste che si sono diramate nei milioni di anni che tracciano la nostra esistenza come specie fino ad oggi. E che la specie a cui apparteniamo – i mammiferi – è a sua volta evoluta da antenati comuni, da cui ci siamo separati solo per una serie di contingenze.

E’ come se fossimo parte di uno dei tanti rami dello stesso albero, l’albero della vita, le cui radici affondano nella storia del mondo. Possiamo, da uno di questi rami, osservare il modo in cui la storia della nostra esistenza come specie si sia intersecata con altri rami, e come tutto questo crei un intreccio che separa e unisce allo stesso tempo. Specie che evolvono separatamente le une dalle altre, in relazione a come evolve il proprio ambiente naturale, e che hanno, risalendo nel tempo, un ramo comune da cui derivano e che appartengono, comunque sia, allo stesso, immenso albero evolutivo.

Alcuni rami oggi appaiono secchi e senza vita, e rappresentano le linee evolutive che sono invece sparite per sempre: si tratta di esseri viventi che – per un eccessivo aumento della complessità esterna o a seguito di eventi catastrofici e improvvisi – non sono riusciti a co-evolvere con il proprio ambiente, a mutare nel tempo mentre questo mutava, a essere pronti e sviluppare nuove possibilità per mantenere la propria esistenza su questo pianeta.

Nei suoi taccuini, Darwin disegnò questo albero evolutivo, con le sue ramificazioni, e scrisse vicino: I Think – io penso. Dopo circa 20 anni da questi appunti, pubblicò finalmente la sua teoria della selezione naturale e dell’evoluzione delle specie viventi.

Darwin ha pensato – e disegnato - l’evoluzione della vita come un albero, non solo come metafora ma come un principio fondamentale della sua teoria, in cui tutte le specie risultano collegate tra loro da radici comuni, e in cui ogni ramo può portare più biforcazioni, dovute a differenziazioni ulteriori tra specie. Si tratta di uno dei pochi disegni attraverso i quali Darwin immagina quale possa essere il modo più probabile di funzionare di quella che egli successivamente definirà come legge della selezione naturale. Da una immediata osservazione del disegno risulta evidente l’assenza di un principio dello sviluppo fondato sul progresso, sul miglioramento; piuttosto, emerge l’idea che lo sviluppo delle specie sia fondato su di una vasta possibilità di variazioni, e che tra di esse solo alcune, quelle configurabili come principali rispetto al ceppo originante, tenderanno a mantenersi in vita e stabilizzarsi in virtù della loro abilità nel permanere più rilevanti, sia per un più elevato grado di concentrazione delle variazioni a cui hanno dato vita a loro volta, sia per una più elevata densità di ramificazioni nell’intorno delle singole variazioni.

Attraverso l’utilizzo della metafora dell’albero della vita, dove opera quella che il famoso paleontologo Stephen Jay Gould definisce la ruota della fortuna , Darwin illustra le alterne vicende di riuscita o di fallimento delle specie nella storia della vita. Darwin esprime il suo incanto per le meraviglie della vita e per le diverse condizioni relazionali che si manifestano tra le specie viventi. E’ la sua grande curiosità sul come funziona la vita, la sua passione a ricercare in modo libero da ogni pregiudizio e da ogni timore, a guidare la sua attenzione al processo di selezione naturale ed a ritenerlo la legge fondante il moto di durata della vita. Il pensiero di Darwin ha rappresentato una vera e propria rivoluzione cognitiva, aprendo la strada a una comprensione della vita, e del nostro essere nel mondo come esseri umani, radicalmente diversa da quella formulata fino ad allora. Una prospettiva che oggi potremmo chiamare complessa, rispetto a quella semplificante, persino banale e ingenua, con cui si era affrontata l’evoluzione della vita sulla terra, intrecciando le credenze religiose con il bisogno fondamentale di giustificare la nostra presunta superiorità sulla natura.

Solo recentemente, grazie allo studio del sequenziamento del genoma delle diverse specie viventi, l’albero della vita si è arricchito sempre più, includendo l’esistenza di altre specie, come i batteri e gli archaea, rendendolo sempre più simile a un’intricata rete del vivente in cui i batteri dominano la scena rispetto alle altre specie, inclusa la nostra.

Nella più classica e diffusa tradizione del determinismo evolutivo, il progresso viene invece rappresentato come una lenta ma inesorabile marcia verso il miglioramento delle specie e reso immagine attraverso una sequenza lineare di forme via via sempre più progredite, per esprimere il procedere graduale ed inarrestabile dello sviluppo. Uno sviluppo che così rappresentato rinforza la convinzione del dominio dell’uomo sulla natura e sulla sua feconda inesauribilità di risorse, attraverso il continuo perseguimento dell’innovazione. Uno sviluppo inteso non come una fase di emergenza creativa di una fitta rete di relazioni tra esseri diversi ma come un miglioramento continuo dovuto all’accumulo di variazioni nell’intorno di una diversità del ceppo dominante: quello dell’uomo.

Se ci consideriamo seduti sulla cima dell’albero della vita non è perché rappresentiamo l’apice di un progresso sistematico dell’evoluzione, ma perché siamo tra gli ultimi arrivati tra tutti gli esseri. Ciò che ci sorregge, più che un ramo, potrebbe essere più simile a un ramoscello ancora giovane, ed è un semplice punto di osservazione temporale, dall’oggi in retrospettiva nell’evoluzione segnata dal tempo, fino alle origini della vita su questo pianeta.

Per quanto la nostra cultura sia progredita, continuiamo a considerare le altre specie viventi – che siano piante o animali non importa – inferiori a noi nella catena evolutiva. Siamo convinti che siano presenti su questa terra solo per essere a nostro esclusivo servizio e per soddisfare tutti i nostri desideri e i nostri appetiti.

Confondiamo così l’essere comparsi tardi nel tempo evolutivo come una caratteristica di sicuro miglioramento, come fossimo l’ultimo anello di un percorso lineare di continua e incessante crescita dei migliori e più sofisticati attributi che gli esseri viventi possono manifestare.

Se riuscissimo a considerarci ciò che invece siamo – un semplice “accidenti” della contingenza, un fenomeno emerso solo recentemente dai tanti rami dell’evoluzione – potremmo riconoscere meglio la nostra vulnerabilità e, forse, avere maggior rispetto per tutte le altre forme di vita che sono presenti da tempi infinitamente più lunghi dei nostri, sopportando catastrofi a cui noi non saremmo stati in grado di sopravvivere.

Oggi, al punto in cui ci troviamo nell’albero della vita, pensare, fermarsi per osservare, per immaginare, è ciò che è richiesto a ognuno di noi per comprendere la complessità del mondo in cui siamo posizionati e a co-evolvere con la stessa capacità complessa, la nostra capacità di comprendere connessioni e di generare conoscenza condivisa, senza presunzioni e superiorità da dimostrare nei confronti di tutte le altre specie viventi.