L’eroe cantava i morti eroi
Cantava sé sulla cetra da lui predata.

(Giovanni Pascoli, La cetra d’Achille)

La bocca è il corpo, la voce è puro ascolto, porta murata,
intransitiva, cavità interna, che non assomiglia a niente, che si rivela
senza assomigliare a nulla, pura risonanza.

(Carmelo Bene e Maurizio Grande, Recanati, 11 settembre 1987)

Una poesia strana per Pascoli il suo Alexandros (1895) per lui che è il poeta delle cose piccine, dell’intimità dei dettagli, del ripiegamento. Eppur in questa, fra le sue prime poesie, come per la Cetra d’Achille, sua gemella, tutta la sua opera è inclusa e compresa. Poesia della fine e del disincanto, o meglio: canto post-sirenico che si sofferma nell’incanto dello svanire del canto. Così sarà Leopardi e Carmelo Bene quali voci di un unico e continuo cantar lo svanire delle cose, il consumarsi del tempo, l’agguato della vita alla singolarità, alla differenza che si lascia re-sistere.

Qui abbiamo un respiro e uno sguardo ampio, vasto, universale, anche se giocato in negativo come nella poesia su Achille, dove la fine dell’eroe coincide con il lasciar la sua cetra, con il restituirla al suo primo possessore, un ignoto aedo. Resta allora il mare e allora per la prima volta sente l’eroe l’approssimarsi del Fato che incombe e chiude i suoi giorni. L’eroe quale già morto, quale residuo e ultimo. Immagine questa d’Achille solo davanti al mare che preme il cuore per il senso dell’annullarsi del singolo nel continuo indifferente dell’oceano dello sguardo. Ma finché dura il canto il peso del Fato si oblia.

Nell’Alexandros la poesia inizia con la parola “Fine”. Un paradosso semplice. Anche qui il fermarsi dell’eroe è l’incontro con il limes, l’estremo, il suo telos.

La terra è finita; l’eroe giunge ad Oceano, cioè al Nulla dell’indistinto, all’a-peiron che sfugge alla conquista. Alessandro il macedone canta gli immensi spazi varcati, già con nostalgia ora che il cammino ha trovato la sua conclusione. L’immagine della natura quale spazio e quale tempo, cioè immagine della vita trascorsa, emerge con dettagli di dolce e affascinante indifferenza. La foresta appare immota, le acque portano tale foresta, che è continuo oscuro mormorio che non muta; gli armenti sono omericamente infiniti, il piano è immenso.

Alessandro si fa possedere da forze ignote e possenti che lo usano e avanza nell’Asia come spinto da una musica, come suonato da un soffio che passa. Una musica sconosciuta che viene da un auleta: Timoteo, nome parlante che indica il fuoco divino, l’inconsapevolezza giovanile che arde follemente. Alessandro diventa Alessandro seguendo quella musica; il suo cammino un continuo komos bacchico. Tutto passa intanto: il vento e anche le stelle. La vita quale continuo e inconsapevole inseguimento, vano, svanito, vacuo. E la distesa immensa ora si fa punto, non luogo, stasi, implosione, collasso. E il canto che ci ha posseduti e sospinti ora ci oltrepassa, senza guardarci, senza una pausa, né si ferma mai. Il cuore resta conchiglia, ma ora priva e orfana della musica di un mare che evapora.

Il giungere è il piangere, come Achille la propria ineluttabile Moira. Il Canto allora celebra il sogno e la sua ombra, solo infinito che resta. “Il sogno è l’infinita ombra del vero” (dove il vero è finito, inferiore) trova sua risonanza nell’ascoltare della madre Olympiàs le grandi querce che bisbigliano “nella cava ombra infinita”. Immense distanze e assenze incolmabili dove il singolo si perde e s’immerge. Alessandro è solo nell’assenza, come pure è l’Assente per l’Epiro patrio e materno. Ecco alla fine la dolcezza materna di un fonte che mormora che la madre ascolta in sogno insieme alla sommessa voce delle stormir delle querce. Ecco la rivincita del sognare sul vivere, nell’ombra sulle promesse della luce, dell’antro cavo dell’oblio e del non conosciuto sulla musica fatale del dileguarsi incessante.

Il sonno quale canto, unica dolcezza per lenire il ferirsi ch’è vita. La consapevolezza vede il vuoto, il deserto. Alessandro nel culmine del trionfo si trova nudo e solo, collassa, implode, come se si svegliasse la prima volta da un lungo sogno e tornasse bambino in mezzo ad una natura immensa, indifferente, autonoma, che continua senza di lui, di lui ignara. Le sue sorelle in Epiro filano giorno e notte; sono come le Parche: filano il Fato per il fratello che non tornerà più. La grandezza di Alessandro la si coglie nell’assenza, nella lontananza della sua fuga, nel silenzio immenso che apre e in cui s’immerge.

Anche in Epiro tutto passa come in Asia ma il canto riposa nella dolcezza di grembi femminei e materni. Il ritorno all’utero è tema centrale in Pascoli come quello del sonno e del sogno-bambino; dal Carrettiere fino al Gelsomino notturno e La mia sera. Nel sonno-sogno finale della madre Olimpia ritorna l’ascolto della natura quale risonanza dentro la caverna vuota dell’esserci. Nel sogno di Olimpia non si coglie più differenza tra il sognare e il vivere il reale. Due polarità complementari si rispecchiamo e risuonano a vicenda: il tempo aionico dell’Epiro materno dove il tempo è quello amiotico del dormiveglia, della natura, del Mito e il tempo della fuga senza ritorno di Alessandro Magno il quale quando si ferma non si trova, non si piace, come se si svegliasse per la prima volta e davanti a sé non c’è più tempo né spazio né direzione e l’eroe invecchia improvvisamente e ritorna bambino e canta solo il suo recente passato come se fosse già lontano anni luce.

Alessandro non conosce se stesso ma solo il cammino che ha bruciato per giungere in un punto assoluto e morto. Una poesia straordinaria fatta di una sequenza musicale di immagini semplici, rarefatte, limpide, fatali. Alessandro sembra mai uscito dal grembo materno, sembra aver vissuto il sogno che ha di lui la madre. Nella poesia attorno l’eroe e la madre c’è una natura sempre infinita; ma un infinito dispersivo, sfuggente, all’uomo indifferente. Infinito s’agita ovunque ma non dentro il vuoto della maschera umana a cui sfugge sempre.

Pascoli a quaranta anni si canta già morto, già concluso e sorpassato, come Achille davanti al mare la sua ultima notte. La vita già gli è sfuggita, ha già incontrato il suo limite e allora prende l’immagine epica del conquistatore macedone quale maschera per il canto del proprio svanire, per la poesia quale paralisi, stasi. Assunzione dell’assenza, del puro ascolto, dalla passività nella musicalità. Carmelo svela Giovanni.