Ma già volgeva il mio disio e ‘l velle,
sì come rota ch’igualmente è mossa,
l’amor che move il sole e l’altre stelle.

(Paradiso XXXIII, vv. 143-145)

C’è un mito che l’Occidente deve sfatare. Il desiderio non è volontà e la volontà non è desiderio. Contrariamente a quanto ci spinge a credere la leggerezza senza scopo con cui siamo usi equiparare le parole, arrotondandole come cifre numeriche, nelle antiche tradizioni magico-religiose il desiderio è il più delle volte contrario alla volontà.

La questione è assai complessa e non la risolveremo in questa sede. Il problema, tuttavia, è soprattutto terminologico ma, a dirimere il groviglio di significati che nel corso dei secoli si sono assiepati intorno ai due concetti, può aiutarci la tradizione sciamanica che nei suoi assunti fondamentali pare sorprendentemente collimare con la drammaturgia dantesca.

Nel 1997 viene dato alle stampe l’ultimo lavoro del discusso antropologo Carlos Castaneda, The active side of infinity, (Il lato attivo dell’infinito). Nel libro, il personaggio di Don Juan Matus, sciamano Yaqui del Messico, protagonista della serie di avventure romanzate dall’autore, dona al discepolo Castaneda l’eredità di un potere segreto: per realizzare la propria intima natura è necessario dichiarare il proprio intento di fronte all’infinito.

Nella visione sciamanica discussa da Don Juan l’essere umano non possiede una mente soltanto, bensì due. La prima è una dotazione originaria che ci accompagna sin dalla nascita, una voce intima, assolutamente nostra, che ci indirizza, mette ordine, ci dà uno scopo. L’altra, più difficile da oggettivare e distinguere dalla prima, è invece responsabile della deviazione da questo medesimo scopo, poiché in grado di immettere dubbi, seminare disordine e incertezza in ciò che la prima ha silenziosamente pre-ordinato.

La sovrapposizione delle due menti porta nell’uomo un conflitto costante, una confusione tra ciò che egli desidera in modo contingente, condizionato, sopraggiunto per deviazione dall’intenzione originaria, e ciò che egli veramente “vuole” e che il più delle volte è destinato a non sapere.

Per risolvere il conflitto tra le due menti e per giungere a comprendere cosa è bene volere ai fini della propria realizzazione, Don Juan svela allora la pratica necessaria che gli sciamani del suo lignaggio avevano scoperto nel corso dei millenni: dichiarare all’infinito il proprio intento. Facendo ciò lo sciamano dispiega un duplice potere: il lato attivo della propria volontà di uscire dall’indifferenziazione e di determinarsi come individuo separato e in cerca del proprio completamento nel “mare oscuro della consapevolezza” e, allo stesso tempo, il lato attivo dell’infinito, definibile nei termini di una sconfinata forza impersonale ma paradossalmente consapevole, un’energia coesiva e vibrante che possiede uno scopo, un misterioso “intento”, appunto, per ciascun abitante dell’universo.

Allineare la propria volontà all’intento dell’infinito è dunque l’obiettivo della pratica degli sciamani del lignaggio di Don Juan, che si mostrano consapevoli del fatto che quando percepiscono un “tremore nell’aria” è l’infinito che fa loro visita per invitarli a non agitarsi e ad affidarsi silenziosamente a lui. È per questo che il maestro Yaqui esorta con durezza mista a leggerezza il suo goffo discepolo a non ascoltare la voce superficiale che lo fa arrabbiare, ma solo quella più in profondità che lo invita a ridere.

Con il termine affine di “intenzione”, derivato dal latino intentio, Dante Alighieri si riferisce ad un orientamento della volontà verso un fine, richiamandosi in particolare a quel tipo di volontà infallibile e sempre retta che discende dal divino. Il termine “intenzione”, che certo si rifà alla tradizione aristotelica, nel Medioevo si arricchisce della mediazione dei commenti ad Aristotele da parte di autori arabi e giunge così a tradurre l’arabo ma‘na che potremmo traslare come “immagine piena di significato”.

Il potere di una visualizzazione auto-creativa, come ingrediente capace di far discernere all’uomo l’immagine da usare per la realizzazione della propria reale “intenzione”, è però tutt’altro che semplice da attuare e più volte Virgilio ed altri personaggi della Commedia discettano con il poeta sul difficilissimo problema del libero arbitrio.

Per comprendere la cosmologia dantesca dobbiamo immaginare l’infinito come un grande mare, il “gran mare de l’essere” lo appella il poeta, un mare fatto di innumerevoli nature che cercano grazie al loro istinto originario di raggiungere il proprio porto. Come piccole frecce scoccate da un arco primordiale, tutte le nature sono forze che verrebbero dirette al proprio bersaglio, se solo qualcosa non deviasse il loro cammino con l’aggravante del loro consenso. Così, come spiega Virgilio, l’animo, “volgendosi” a ciò che lo può soddisfare almeno temporaneamente, è indotto a “piegarsi” verso quello che lo appaga, ma così facendo abbandona la traiettoria originaria della sua volontà, una “virtù innata” che viene di volta in volta distratta e deviata.

Non a caso la parola “peccato”, in principio, non aveva il senso cupo e grave con cui risuona ancora oggi nelle nostre orecchie. Il pecus, da cui traeva senso, era infatti il piede malfermo che mancava il suo reale cammino.

La “virtù innata” di cui parla Dante, che può accostarsi alla prima mente di Castaneda, è una intenzione consapevole che “consiglia” e che può dare o negare l’assenso a che la freccia cerchi il suo vero bersaglio. La virtù dell’intelletto, allora, quella volontà che nei secoli è stata percepita come essenza raziocinate dell’uomo e nei trattati ermetici è stata definita come “energia di Dio”, diventa contraria del desiderio nel momento in cui quest’ultimo si rivela essere solo un’inclinazione temporanea, più o meno transitoria e accidentale di quanto ci arriva de-sidera, “dalle stelle” o, nella visione sciamanica offerta da Castaneda, di quanto ci detta il compromesso che abbiamo firmato con i condizionamenti necessari all’esistenza, indotti a relegare nella parte più remota dell’anima la voce silenziosa della vera volontà.

Quest’ultima, tuttavia, può manifestarsi anche come il necessario completamento del desiderio nel momento in cui esso, sorto da una giusta “intenzione”, si rivela però troppo debole per uscire dallo stato di pura potenzialità, troppo incerto per innalzarsi sulle proprie gambe e divenire atto senza il supporto di una ferrea e inamovibile dichiarazione di un intento.

Ecco allora che diventa più comprensibile l’ultima immagine del Paradiso dantesco, laddove il poeta, a conclusione del suo lungo viaggio, subisce un’ultima trasmutazione in cui il “disio”, o desiderio, e il “velle”, cioè la volontà, sono diventati i poli finalmente allineati dell’asse di una ruota che Dante identifica con sé stesso. Essa, che ha raggiunto quell’armonia che l’universo trama per tutte le cose come suo ultimo scopo, sembra adesso roteare come nel cerchio di un asse planetario. A darle impulso è quel principio di Movimento che gli antichi cosmologi identificavano con la prima e più alta forma di energia, una misteriosa e inenarrabile forza capace di muovere dal profondo non solo uomini e forme animate, ma anche i mondi, “il sole e l’altre stelle”.