Il volume monografico dedicato ad Ottavio Mazzonis (1921-2010), a cura di Giuseppe Luigi Marini ed edito da Allemandi nel 1993, si apre con un’immagine del Maestro assorto nello studio delle proprie opere; avvolto da quell’eterno rigore autocritico che lo contraddistinse, insieme alla perizia nel ‘saper fare’, per tutta l’esistenza.

Ad oltre dieci anni dalla scomparsa, diviene sempre più chiaro quanto il suo pensiero scettico a proposito della nuova visione artistica in contrapposizione con la continuità, non avrebbe portato che frutti sterili, totalmente contrari al suo modo di pensare l’arte.

Il modus operandi di Mazzonis era asservito alle leggi di un movimento solitario ma salvifico, all’interno del quale i ritratti maschili assumono tutti le sue sembianze ed il paesaggio - ampiamente legato agli immaginari di Böcklin e Klinger - diviene principe in un’opera d’arte che lo vuole in perfetta simbiosi ed in magistrale dialogo con i personaggi.

Una vita trascorsa all’insegna della certosina e scientifica ricerca della continuità, non soltanto per un mero sguardo rivolto al passato, ma avvertendo la costante presenza dei suoi maestri. La forza dell’opera di Mazzonis risiede, infatti, nella totale atemporalità ma, proprio per questo, percepibile nella sua assoluta contemporaneità.

Un nuovo Rinascimento il suo che ha dato vita ad una personale visione delle donne dei Vangeli, così come ad una Via Crucis esposta al Museo Parmeggiani di Cento nel 2003, la quale - nella sua superba bellezza - ci dà modo di soffermarci sulla XIV Stazione: La Sepoltura, dove un senso di rassegnata pace pervade la tela. La luce cade al centro del dipinto ed enfatizza il rapporto tra Madre e Figlio, lasciandoci abbagliati nel riconoscere nel movimento repentino della figura in piedi, la solennità dell’Angelo del Bistolfi (visibile al Cimitero Monumentale di Torino). A simboleggiare una integrale reinvenzione dell’arte religiosa da parte del Mazzonis, pur volendo mantenere una continuità visibile con un Maestro del passato.

Mirabili in questo senso anche le decorazioni del Santuario della Sanità, così come della Chiesa di San Pietro, a Savigliano (CN), esempi di quel fil rouge che sempre lo legò al sacro ed alla sacralità ma, anche in questi casi, da un punto di vista del tutto pionieristico, all’interno del quale passato e presente non si contrappongono, ma dialogano ad ogni tocco.

Non per nulla, Ottavio Mazzonis rivive nelle parole di Vittorio Sgarbi, il quale lo definisce “rigoroso ma non accademico, tradizionale ma non conservatore”.

Il dominio della luce, gli studi sulla malinconia e le atmosfere oniriche e mitologiche dei suoi lavori ne sono vivi e tangibili esempi, ammirabili presso la Fondazione Mazzonis a Torino, che gli sopravvive grazie alla cura indomita e temeraria della Presidente a vita: Silvia Pirracchio, sua musa ispiratrice.

Accanto a Mazzonis per un trentennio, Silvia è oggi testimone d’elezione di quella che fu una vera e propria comunione di intenti. Mazzonis la dipinse (e si dipinse accanto a lei) incessantemente, trasformandola nella custode di innumerevoli chiavi di lettura. Dettagli che ci ha illustrato nella nostra intervista, insieme al futuro che auspica per la Fondazione.

In seguito alla scomparsa del Maestro, come si è mossa nel preservarne il lascito?

L’importanza del suo patrimonio è sempre stata di fondamentale per me. Posso citare in questo senso alcune delle mostre monografiche alla Reggia di Venaria (2018), alla Fondazione Accorsi-Ometto (2015) e a Mondovì (2014).

Alla Reggia, si indagava il tema della maternità e scelsi, insieme al curatore, trenta opere del Maestro messe in relazione con altre di arte antica provenienti dalle ricche collezioni della sua famiglia - tra i cui nomi figurano il Legnanino e il Solimena - già conservate in buona parte nello storico palazzo torinese, ora sede del Museo d’Arte Orientale.

Mostre che hanno avuto molto successo, benché la famiglia Mazzonis di nobile lignaggio, sia sempre stata abbastanza isolata dalla scena artistica torinese, al di là delle gallerie private come Fogliato, organizzare una mostra a Torino - infatti - è sempre stato ostico. Credo che la città non l’abbia mai veramente sentito come esponente di spicco, forse per via di una certa scuola di pensiero torinese troppo legata alle avanguardie.

Pur essendosi legato professionalmente a Tiziano Forni, il quale portò la sua opera in tutto il mondo, con grande successo, nell’ultimo periodo della sua vita era pessimista sul futuro del suo lascito. Anch’io, spesso mi interrogo su chi – dopo di me – si dedicherà con lo stesso rispetto e la stessa continuità alla sua opera. Negli ultimi dieci anni mi sono impegnata nel dargli la massima visibilità, portandolo anche alla Biennale - grazie alla supervisione di Sgarbi - con il progetto per le pale della Cattedrale di Noto. Lavoro lasciato incompiuto, ma al quale lavorò fino alla morte.

Mazzonis era un grande ricercatore, si confrontava con se stesso e con il passato. Celeberrimo il suo tiepolismo negli studi sulla luce. La decorazione, soprattutto nelle chiese, gli dava la possibilità di rispecchiarsi nell’illuminismo del Tiepolo e di affrontare la composizione liberamente.

Com’era la vostra quotidianità?

Si lavorava tantissimo e, quando intuiva che la composizione pittorica era come desiderava, si dedicava alla scultura; poiché nacque come artista sotto la guida dello scultore Calderini. [Pregevole in questo senso, il busto in gesso colorato, raffigurante Silvia ed esposto alla monografica aostana del 1999, per la prima volta, N.d.R.].

Come portava avanti la sua ricerca stilistica?

Isolato. Ottavio era molto umile, ma molto severo con se stesso, costantemente in ascolto delle possibilità offerte dal passato, con il quale si confrontava continuamente. Abbiamo citato Bistolfi, Tiepolo, ma posso anche fare il nome di Caravaggio, vero e proprio spirito guida nella ricerca dell’intonazione e nella semplificazione del dolore.

Quando elaborava la composizione e la ricercava nella sintesi della luce, della massa, del nudo, poi si dedicava ai paesaggi. Si pensi alle isole di Böcklin (che ho esposto a Mondovì) che faceva sue, dominandone la grazia, il tratto, convinto che nell’arte molto fosse stato detto, ma non tutto ed ecco che torna il suo amore per la continuità.

In una posizione mozzafiato del suo studio, è posta Medusa di Amleto Capaldi. Ci spiega il perché di questa scelta?

La notò sei mesi prima di andarsene. Amava tantissimo Capaldi e la acquistò, conquistato dalla particolarità nel movimento. Mi disse: “Silvia, la dedico a te perché venne esposta nel ‘61 alla Quadriennale di Roma ed è l’anno della tua nascita. Inoltre, sarà uno dei miei lasciti per la Fondazione”.

Vedendola, Sgarbi se ne innamorò subito e Flora Giubilei la inserì in una grande mostra monografica dedicata alla Duncan, che ebbe molto successo sia a Firenze sia a Rovereto.
Pittura e scultura erano tutt’uno per Mazzonis. Pensiamo, altresì, al rapporto con Wolfgang Alexander Kossuth [Kossuth dedicò uno dei tanti, splendidi, ritratti scultorei a Mazzonis, oggi parte della collezione della Fondazione, N.d.R.].

Una storia molto particolare la loro: Kossuth conosce l’arte di Mazzonis in occasione della monografica di Aosta, se ricordo bene. Si presenta, viene in studio e nasce immediatamente una grande amicizia. Quando lo conosce, Kossuth inizia a disegnare paesaggi, ritratti, raffigura movimenti. Non possono fare a meno l’uno dell’altro, rammaricati di non essersi conosciuti prima. Mazzonis stesso si dedicherà all’organizzazione della mostra monografica dedicata a Kossuth, presso la Promotrice di Belle Arti di Torino, nel 2002. Kossuth, invece, allestirà un concerto per pianoforte in onore della sua Via Crucis.

Com’è avvenuto il vostro primo incontro?

Alla Galleria Davico di Torino, ad inizio anni Ottanta. Si trattava di una mostra molto importante per l’esposizione del ritratto di Laura Firpo, moglie del Senatore Firpo. Io arrivavo da Milano ed entrai nella Galleria, senza alcun motivo, come se qualcuno mi stesse guidando. Mentre ero intenta ad ammirare i dipinti, notai il Maestro da lontano, impegnato con la Firpo e attendo. Dopodiché, presentandomi gli espressi il mio sogno di diventare la musa di un Maestro che sappia dominare il disegno come lui. Così, mi invitò nel suo studio per il giorno dopo, facendomi posare per tre o quattro disegni, notando la mia bravura nello stare in posa e nel comprendere il movimento da lui desiderato. Firmato il contratto di immagine, lasciai Milano ed iniziammo il nostro percorso insieme.

Il tempo vola sulle parole di Silvia Pirracchio, oniriche e salde al contempo, suggellate da una tela – ispirata a Rosso Fiorentino - che ci ha osservate per tutto il tempo della nostra chiacchierata: La Chiesa Cattolica (1998). Lasciando quello che fu l’atelier di Mazzonis ed oggi è il regno della Fondazione, si comprende quanto la continuità della sua arte sia fondamentale ancor oggi e si rimane sbalorditi nel constatare che troppo poco è stato fatto, sino ad ora, per onorarne il lasciato.