Io sono Rojo, Rojo el Matador
non correte, non farete in tempo
ve ne farò vedere di tutti i color
vi troverete in un campo di dolor.
“Rojo l’Uccisore” aveva cominciato la sua carriera di delinquentello di provincia a Estella, cittadina d’altipiano bruciata dal sole e dal vento. “Desadattado” dicevano le maestre. “Desadattado” dicevano i professori e lui, al buio, negli angoli nascosti di Estella, consumava piccoli crimini e piccole violenze quotidiane con tale sveltezza e scaltrezza che coglierlo sul fatto risultava impossibile e nessuno, mai, pur sospettando fortemente di lui, riusciva a giurarlo colpevole davanti alla polizia. La sua fu una carriera delinquenziale tanto rapida quanto violenta e l’escalation di furti, stupri, rapine, omicidi, vorticava verso efferatezze inimmaginabili; la madre, pur soffrendo per il terribile sentore di morte che aleggiava intorno a lui, lo amava dell’amore incondizionato tipico di chi ti ha portato in grembo.
Quel criminale cambiava faccia, cambiava nome, cambiava abiti, correva come un lampo e cambiava anche il suo stile omicida tanto era abile nella malvagità; solo una cosa rimaneva sempre la stessa, il soprannome: “Rojo el Matador”. Questo nomignolo risaliva ad un tempo in cui quel bambinetto esile e scuro, con gli occhi di fuoco sempre iniettati di sangue, correva per le strade a ciottoli di Estella gridando: “El matador! El matador!!” e in parte il destino aveva rispettato questa invocazione ma non di tori, bensì di uomini, divenne matador.
Si sa però che abilità e scaltrezze non possono sostenere in eterno una vita violenta e le troppe fughe, le troppe scappatoie, diedero a Rojo l’errata sensazione di vivere circondato da un’aura di imbattibilità. Fu così che come il torero, sicuro di avere piegato la bestia affannata, compiacendosi si volge a salutare la folla subendo il ritorno selvaggio dell’animale, così Rojo, con le mani ancora sporche di sangue e le tasche piene di denaro rubato, volle sfidare la sorte provocando una giovane che gli tagliò il passo della fuga. La ragazza era talmente bella e gli occhi erano riusciti a sostenere il suo sguardo così a lungo che Rojo, “el Matador”, non seppe resistere al desiderio di averla e la costrinse in un angolo. Fu strana la sensazione di vedere il volto della ragazza illuminarsi e poi scomparire nel buio, come dipinta a tratti dalla lampada ondeggiante dal filo teso sul vicolo che gettava al vento il suo pennello luminoso dando breve vita a ciò che vi era sotto nella semioscurità: buio, luce, il volto: la Vergine de los remedios... buio... luce... buio.
La cella era piccola, sporca, tanto sporca e male illuminata che Rojo pensò dapprima, con la mente ancora febbricitante, di essere nascosto in una grotta, nella tana di una bestia, e in parte aveva ragione solo che la bestia era lui e quella la sua dimora obbligata. Abituato alla vita dispendiosa e arrogante di una ricchezza rubata la costrizione violenta dei suoi carcerieri gli risultava pressoché intollerabile e la povertà assoluta, di denaro, piaceri, sensazioni e sentimenti presto mutò il carnefice in vittima e il carceriere in carnefice. “Povero Rojo”, gli sussurrava il secondino dalla fessura fetida della porta, “Povero Rojo... stanno per arrivare...” e il terrore si impadroniva del “Matador” che ormai non aveva più la forza di matare nessuno, neanche se stesso, figuriamoci i suoi torturatori.
Così Rojo confessò tutto, parlò di ogni suo crimine, e il racconto sembrava non finire mai e ad ogni sua pausa le botte riaccendevano la macabra narrazione che tra singhiozzi e singulti continuava orrenda e in qualche modo purificatrice. “Ti sposteranno Rojo, ormai è certo... andrai al Garroso!”. Quel nome suonava terribile, ancora più terribile di ciò che ora stava vivendo e dentro di sé mormorava qualcosa, parole inconsuete e lontane per lui: “Povera mamma, povero me...”.
Il destino volle che il treno su cui viaggiava “Rojo el Matador”, sorvegliato speciale inviato alla morte, con le catene ai polsi e alle caviglie, passasse nelle campagne che lui conosceva bene, non per le sue scorribande, ma per le passeggiate che con il padre sempre faceva quando era bambino. Ora i suoi occhi iniettati di sangue e stanchi succhiavano ogni raggio di luce che oltrepassava il vetro sudicio del suo vagone e quasi le palpebre non battevano per non perdere nulla di ciò che al sole si mostrava.
Fu così che ritornò bambino e rivide il suo altipiano, l’altipiano di suo padre, con la casa in cima al colle, i campi lavorati, il boschetto in cui suo padre cacciava e lontano, molto lontano, una cima dei Pirenei che sempre aveva sognato di scalare e mentre questo picco, bianco e maestoso seppure lontanissimo, pareva correre a ritroso rispetto al suo treno e alla sua vita, rivide nel cielo il viso della ragazza presa nel vicolo buio, illuminato dalla lampada come fosse una Madonna, ma col bambino! e ricordò lo sguardo del padre che lo rimproverava e perdonava allo stesso modo poggiandogli la mano aperta sul capo... Si sentì placato.
“Rojo el Matador” fu giustiziato in una assolata mattina di giugno. Quel giorno nacque suo figlio.