Al lago dei fantasmi Giuseppe ci pescava due tre volte al mese, ma dopo che sua moglie ci aveva lasciato le penne – anche se Beppe preferiva pensare che Martina ci avesse lasciato la pelle data la sua epidermide bianca, quasi lisa, almeno di non pensarla un cigno o un albanella, in tal caso sì che si sarebbe potuto usarle, quelle parole, ma non “morire” o “trapassare” o “spirare”; bisognava per forza tirar fuori un’espressione colorita e bella tosta, dal momento che Martina era scivolata dalle scale e le si era staccata la testa dal collo – Giuseppe aveva preso ad andare al lago anche dieci, dodici volte al mese e poi dopo due mesi che sua moglie s’era ammazzata anche quattro volte a settimana e poi aveva cominciato con le allucinazioni e poi era impazzito.

All’inizio tirava su lucci o cavedani o persici, li ficcava nel secchiello e parlava con loro. Diceva che ci fossero i fantasmi nei pesci e ammazzare un pesce significava liberare il fantasma, così i pesci che pescava Giuseppe se li tirava in casa ancora vivi, nel secchiello bello grosso, e poi soltanto Dio sa cosa ci faceva. Gli altri pescatori al lago raccontano ognuno una versione. Osvaldo dice che li dorasse ancora vivi in padella, Giuseppe diceva che il fuoco sulla padella era un buon modo per bruciare vivo anche il fantasma e non lasciarselo circolare per casa. Se si domanda a Arsenio lui dice invece che Beppe teneva una vasca in cantina e che era piena dei pesci che pescava, li teneva lì per parlare con loro. Diceva cose le più strampalate. Parlava di un qualche “tesoro”: di diamanti, rubini, anelli, pietre preziose. Arsenio dice che Beppe era convinto che in fondo al lago ci fosse un tesoro e che i pesci se lo fossero mangiato, così in un cavedano ci stava un diamante, in un persico un topazio, in un luccio un rubino, e Beppe apposta per questo pescava al lago così di frequente. Guglielmo però insiste che nei pesci Beppe ci vedesse fantasmi e non pietre preziose, fantasmi! Del resto, che al lago, dice Guglielmo, ci siano fantasmi è persin troppo evidente: tu ti metti lì con la tua cannuccia e devono passare ore prima che tiri su una trota o una carpa o un persico. Certo che ci sono i fantasmi e sono loro che hanno reso il lago sempre meno pescoso! Non solo, Guglielmo racconta, ma ci sono anche pesci fantasma. Molti pescatori infatti vengono ad esempio per le carpe e una volta qui non ne trovano mezza, e poi delle volte la canna da pesca tira che sembra una dannata e tu sei sicuro di aver agganciato all’amo un pesce grande come una balena e invece tiri su e all’amo, dopo minuti e minuti di sudore, sbuffi, non c’è niente, solo l’esca che hai preparato, e del tutto intatta. Eh, dice Guglielmo, proprio una bella idea venire in un lago come questo a pescare. Ne succedono di tutte.

Ovidio dice che il lago è maledetto, soprattutto per i pescatori. Si racconta che qualche anno fa un pescatore stesse pescando tranquillamente e che la canna si fosse messa a tirar tanto che quello fosse finito in acqua assieme alla canna e da lì dopo un paio di gorgoglii non fosse più riemerso. Il lago se l’era mangiato in un boccone, chiaro e semplice. E Saverio? continua Ovidio. Una volta era andato a pescare con lui, aveva gettato l’amo ma gli era tornato indietro e l’aveva preso all’occhio. Un colpo di vento, era stato. Adesso Saverio ha una benda sull’occhio e stramaledice il giorno che ha accettato la proposta di Ovidio di andar a pesca con lui. Ettore dice che il lago s’è risucchiato tutti i fantasmi personali dei pescatori che ci vanno a passare qualche ora: in fondo è un cambio equo, si va al lago per pescare e liberarsi delle proprie energie negative, e adesso quel lago ne è diventato una guazza, e in fondo quello che è successo a Giuseppe è solo una delle tante che vi circolano.

Beppe frequentava il lago più o meno da una vita, ma solo dopo la pensione ha preso a frequentarlo due o tre volte al mese. Prima ci andava con la Martina e con i figli nei fine settimana o nei giorni di vacanza col bel sole, con le birre, i panini col prosciutto, la mortadella o col salame. Si portavano la radio, oppure il pallone per giocare sulla riva, e poi il costume per fare il bagno e delle volte anche la canna da pesca, anche se quest’ultima va detto che Beppe l’aveva tirata fuori specialmente quando aveva ritirato la prima busta della pensione: lui ci vedeva un gesto simbolico, e poi gli piaceva l’idea di andare a pescare al lago coi fantasmi, gli sembrava, a sessantadue anni, un modo per approssimarsi a quell’età dove giocoforza coi fantasmi avrebbe dovuto averci a che fare per così dire quotidianamente.

Il lago è circondato di nebbie. Sull’acqua c’è tutto un nuvolo di nebbia e si muove, e alle volte dà proprio l’impressione che ci siano fantasmi. Delle volte l’umidità, il cielo di nubi corvine, e le gavie, e le cornacchie che svolazzano intorno e ficcano il becco nell’acqua tra la nebbia, che sembrano quasi mangiarsela e non solo bersi l’acqua, tutto questo fa quasi venir voglia di avere allucinazioni, e vedere cose che non ci sono. Delle volte Beppe, specialmente in autunno, stava sul suo telo, coricato, assaporando l’odore del fogliame fradicio d’acqua piovana, con la berretta tirata giù sugli occhi, e la canna da pesca puntata sul lago, lasciandosi invadere dai brividi, come se questi lo scaldassero, gli facessero provare tepore. Quello non era ancora il tempo delle allucinazioni e Beppe alle storie di fantasmi non prestava orecchio. A lui interessava solo un luogo dove potersi mettere, tra le fronde degli alberi, le cortecce, delle volte uno scoiattolo o un coniglio, anche se ben raramente. Anche pescare non gli interessava. Solo star lì, dormicchiare, respirare le cortecce degli alberi, le foglie, l’umidore, che a volte senza una sciarpa gli procurava il torcicollo. Parlava con Arsenio o Ettore, o con Osvaldo, parlava con Ovidio: parlava dei fantasmi incolpandoli se il pescato non era abbondante, ma già aveva passato la vita a incolpare ombre per non aver raggiunto questo o quel risultato, e per lui non erano state ombre ma persone vere che lo avevano ostacolato, e adesso non gli andava di farlo anche in pensione, con fantasmi per così dire in carne e ossa. Lo faceva perché lo facevano gli altri, come rito per stare con gli altri, chiacchierare con loro, scambiarsi un pezzetto di asiago, bersi una grappa, fumarsi una sigaretta. Tutto qua.

Quando parlavano dei fantasmi, finivano per ricordarsi sempre della bambina che nell’Ottocento era stata ammazzata, secondo la leggenda, da un maniaco, di come lo squinternato l’avesse tagliata e sparpagliato i suoi arti qua e là sulle sponde del lago, oppure della donna che agli inizi del Novecento si era affogata nel lago dopo aver scoperto suo marito tradirla con… con… be' meglio non dire con chi. Beppe, Arsenio, Ettore, Osvaldo pescavano e si raccontavano queste cose – delle volte Arsenio passava, a chi era presente, tabacco da masticare – stavano lì e masticavano tabacco, e si raccontavano queste cose, senza commentare, dato che in fondo a commento c’erano già le nebbie, e le goccioline d’umidore nell’aria, e lo specchio d’acqua sporca, fangosa, un paesaggio palustre, accompagnato da strilli di gavie. E loro masticavano tabacco e lo masticavano sempre più spesso poi, da quando pure Osvaldo ci si era messo a distribuirlo acquistandolo sottobanco, come faceva Arsenio, da quelli della piantagione in zona. Ovidio era sessantacinquenne e da quatto anni in pensione. Aveva lavorato una vita in banca. Osvaldo era quasi ottantenne e aveva cominciato con la pesca cinque o sei anni prima ed era stato medico, ma adesso ricordava poco o niente della sua professione, si dedicava soprattutto al sociale e alla politica e inveiva contro tutti quelli che si occupavano di sociale e di politica. Ettore aveva quarantotto anni e si vergognava di aver già ottenuto la pensione attraverso una fanfaluca legale che né Beppe né Osvaldo né Arsenio né Ovidio e nemmeno Saverio, quella sola volta che era venuto al lago e ci aveva lasciato un occhio, avevano mai afferrato bene, nessuno di loro, in che cosa consistesse.

Però non facevano troppe domande: erano lì soltanto come pescatori, qualche volta masticavano tabacco assieme, qualche volta si raccontavano di fantasmi, ombre, spiriti. Erano tutte persone riservate. Poche domande. Si vergognavano anche a ritrovarsi al lago. Pescare era bizzarro in un luogo come quello, così per la maggior parte delle volte si sparpagliavano lungo le sponde, non si davano appuntamento, se si trovavano si trovavano altrimenti pace, e forse anche meglio, e poi tanto alla bisogna ciascuno sapeva grosso modo dove trovare l’altro.

Una volta Osvaldo se n’era venuto proponendo a Beppe a Arsenio a Ettore e anche a un paio d’altri che frequentavano il lago in quel periodo ma che si erano presto defilati, aveva tirato fuori, Osvaldo, l’idea di fissare un due o tre palangari con sardine come esche per pescar su trote, e tutti quanti non avevano avuto la confidenza di mandarlo subito a quel paese, piemontesi com’erano, e poi forse avevano più o meno tutti quanti afferrato lo spirito dell’iniziativa, ossia avere una scusa come un’altra per fare qualcosa assieme e creare gruppo. La proposta era stata però troppo assurda e proprio Beppe si era incaricato per gli altri di portar Osvaldo in una salsamenteria e bere un bicchier di vino con lui, starci un poco assieme, dargli un poco di calore, d’amicizia, ecco, se questo era quello che andava cercando, ma più in là non erano andati, dato che Osvaldo qualche rotella sversa nella testa l’aveva sul serio, e gli faceva proposte su proposte anche più assurde di quella che aveva fatto riguardo i palangari – che poi detto da Beppe, col senno di poi, è proprio un bel dire, lui che è impazzito, e parlava coi pesci e tutto quanto il resto.

No, comunque. Quel gruppo non diventò mai gruppo: era solo qualche ometto in pensione col bernoccolo per la pesca, andar al lago, magari declamando, come Ettore aveva fatto più di una volta, fin quando anche Ovidio non s’era messo a imitarlo, i versi d’un poeta antico di nome Oppiano di Anazarbo, e portandosi la canna da pesca, con l’amo, il mulinello, la lenza, la cassetta con le mosche e un secchiello da metterci i pesci talvolta, non prima di averli finiti con una pietra.

Fossero stati un gruppo del resto, a Beppe non sarebbe successo quel che è successo e vien quasi voglia di dar ragione a Osvaldo quando dice che sono stati i fantasmi con le loro mani invisibili a impedir loro di fare amicizia e diventare gruppo, e così di sorvegliarsi l’un l’altro, anziché sparpagliarsi stupidamente per le sponde del lago. Anche se una volta, mormorando a voce bassa, Ovidio ha ammesso che ciascuno di loro se ne stava da solo anche per sfidare un poco i luoghi angusti del lago e per vedere se davvero quello avrebbe avuto il coraggio di far comparire davanti un qualche mostro o spirito o che altro. D’altra parte, sempre Ovidio ha detto, altro che fantasmi! Osvaldo ha rovinato tutto quanto con la sua proposta di aprire un bar al lago, sfruttando la nomea di luogo infestato dagli spiriti, “bar del lago fantasma”, diceva di volerlo chiamare, oppure direttamente “bar dei fantasmi” o “Buh–buh bar” col disegno di un lenzuolo e due fori neri, e venderci anche snus svedese, norvegese o finlandese, come quello che Arsenio acquistava sottobanco alla piantagione. Una proposta come questa, ha detto Ovidio riferendosi a Osvaldo, aveva però avuto l’effetto di allontanarli e non il contrario.

Certo è vero però che, come Osvaldo fa notare spesso ogni volta che lo si interroga sulla storia di Beppe, se ci fosse stato un gruppo o un bar – cosa però marziana in un luogo lunare come quello, sempre coperto di nubi nere, con la vegetazione incolta e ostile, e una guazza in perenne ebollizione come brodaglia su un fornello a gas, e poi i soldi chi li avrebbe messi per aprire il bar e bonificare quel luogo, quale pensione poteva permettersi una proposta come quella? – Beppe non avrebbe dato di matto e non si sarebbe messo a parlar con lucci, persici e cavedani, a ficcarli nel secchiello bello grosso che aveva senza finirli prima con una pietra e portarseli a casa e forse arrostirli ancora vivi su una padella oppure metterli in una vasca molto grande in cantina. E di sicuro nemmeno sarebbe arrivato quel giorno dove Beppe con la sua canna da pesca avrebbe tirato su dallo specchio d’acqua una giacchetta, il giorno seguente una scarpetta col tacco a spillo e il giorno ancora seguente una borsetta.

Ovidio, e Osvaldo e Ettore concordano con lui, anche se Arsenio dice che sono tutte sciocchezze, sostiene che sono stati i pesci a dire a Beppe che quella giacchetta, e poi la scarpetta e la borsetta erano oggetti appartenuti a Martina. Sì, Beppe pescò con la sua canna la giacchetta, che era rimasta nascosta fino a quel momento dalle nuvole di nebbia, e la mostrò agli altri, a Arsenio, a Ettore, a Ovidio, a Osvaldo, e a loro ogni volta scoppiava da ridere. Osservavano la giacchetta ancora lucida dell’acqua lacustre e uno raccontava di aver anche lui una volta preso all’amo uno scarpone, e un altro raccontava di aver agganciato una cassetta della frutta, e un altro qualche cosa d’altro, e Arsenio ricorda di aver sentito Beppe dire che quella giacchetta gliene ricordava una della sua Martina, anche se a Ettore, Ovidio e a Osvaldo Beppe di tutto questo non aveva invece detto niente, anche perché altrimenti, se avessero sentito che s’era convinto di aver pescato la giacchetta di sua moglie che da sei o sette mesi riposava in pace al cimitero che stava giusto proprio a un passo dal lago, avrebbero subito fatto qualcosa, si sarebbero messi a sorvegliarlo, perbacco, pensando fosse matto.

Eppure, racconta Guglielmo, non solo Giuseppe era convinto di pescare dal lago indumenti di Martina, ma giacca, scarpa e borsa Beppe era sicuro fossero gli indumenti che Martina aveva addosso la volta che l’avevano sistemata nel cataletto, giù all’obitorio. Beppe l’aveva seppellita con la borsetta, perché lei gli aveva sempre detto di metterla con quella di sua nonna materna, e dentro la borsetta c’erano un rosario e un’agiografia, e c’era uno specchietto, e caramelle alla menta, e poco altro, anzi questo è tutto, però quando Giuseppe ha pescato la borsetta di Martina dal lago dentro non ha trovato nulla. Forse, come racconta Guglielmo, Beppe doveva aver pensato a qualche scherzo, e forse per questo aveva chiesto a Ettore, Ovidio, Osvaldo e a Arsenio, anche se Arsenio dice che lui di tutta questa faccenda non si ricorda. Approfittando delle nebbie è possibile che qualcuno vicino a lui gli abbia buttato un indumento della moglie e Giuseppe lo abbia agganciato all’amo e tirato su, ma chi poteva fargli lo stesso scherzi come quelli? Secondo Ettore e Guglielmo, Beppe demonio lo era, eccome, se si considerano ad esempio le cose che diceva quando parlava di politica con Osvaldo, e una volta gli aveva messo lì che forse per le teste di cavolo vale la Legge a L al contrario, e più nani sono i politici e più sono teste di cavolo, oppure quella volta che a ridosso della Santa Pasqua Giuseppe s’era messo a contare che per la Martina e i suoi figli aveva commissionato un uovo di pasqua abbastanza grosso da metterci dentro una colomba, e insomma un sessantaduenne che ne contava su di queste un poco bell’e andato lo era per davvero, ma in fondo, a ben pensarci, chi poteva fargli lo stesso scherzi come quelli?

In effetti loro pescatori, Ovidio, Ettore, Arsenio, Guglielmo, Osvaldo, non si conoscono se non in modo abborracciato, delle volte si riferiscono uno all’altro chiamandosi “dottore” o “geometra”, quando ad esempio si riferiscono a Guglielmo, e comunque non lo sanno, loro, se Beppe avesse un qualche conto da pagare a qualcuno, tanto che questi fosse arrivato al punto d’acquistare gli stessi indumenti che portava sua moglie il giorno che è stata chiusa nel catafalco e infilata nel colombario al cimitero, nascondendosi tra gli alberi e approfittando della nebbia per gettare in acqua gli indumenti. No, in effetti a raccontarla così, sembra quasi più credibile ci fosse un fantasma, come Giuseppe aveva preso a pensare praticamente da subito. E poi Giuseppe un giorno, come racconta Guglielmo, e Ovidio, e in pratica raccontano tutti quanti, ma non Arsenio che dice si tratti solo di sciocchezze, aveva agganciato all’amo la testa della moglie e non solo ma quella, così come i pesci, s’era messa a parlargli.

Nessuno lo aveva visto coi propri occhi, dato che Beppe mica se n’era andato per il lago a mostrare la testa della moglie, e per di più parlante, così come aveva fatto per gli indumenti, capace, anziché pensare di trovarsi davanti a un qualche accadimento paranormale, come era indubbio secondo Beppe, Ovidio, Ettore, Guglielmo, Arsenio, Osvaldo, avrebbero invece pensato che la testa ce l’avesse messa lui, che magari fosse andato con la vanga al cimitero o per meglio dire col trapano elettrico, per schiodare la lastra della celletta dove sua moglie era stata messa, coi fiori e la foto e le date di nascita e decesso. Diamine, capace persino, doveva aver pensato Beppe, che Ovidio, Ettore, Guglielmo, Arsenio, Osvaldo pensassero che giù dalle scale ce l’avesse spinta lui, anche se quella volta che è successo stava a un baretto, giocava a carte, e poi era andato al mercato, aveva comperato un pullover nuovo e pollo arrosto con patate, era rientrato e aveva visto il corpo morto della Martina sul pavimento proprio dalle scale, maledette, che portavano al piano di sopra, dove non facevano nemmeno più l’amore, Beppe standosene quasi tutto il tempo in salotto, dalla tele accesa, aveva ritrovato la sua testolina, ché Martina doveva aver picchiato il collo sul pomello d’ottone a forma di pigna, posto all’angolo del corrimano in fondo alle scale, accanto al portaombrelli. L’aveva ritrovata con gli occhi spalancati e la bocca aperta, tanto che la corrente fredda che Beppe, come racconta Arsenio, aveva subito sentito, non sembrava venire dalla porta socchiusa ma da quella bocca spalancata.

E ancora in questo stato doveva averla ripescata, quella testa, gli occhi spalancati, la bocca aperta, e doveva essersela tirata dentro casa, chi lo sa, racconta Ovidio, forse nascondendola dentro il secchiello bello grosso dove di solito metteva pesci vivi, coprendolo con un coperchio per non lasciarli guizzar fuori. Poi chissà cosa quella testa doveva aver detto al povero Beppe per convincerlo a fare quel che ha fatto, ma comunque, si raccontano Ovidio, Ettore, Guglielmo, Osvaldo masticando tabacco davanti al lago con in mano le canne da pesca, è certo che gli erano stati trovati segni di morsicature, e non d’animale, ma proprio di denti umani, e insomma è un dato di fatto che a Giuseppe quei segni erano stati trovati sul petto, sul collo, a un braccio, una volta tirato giù dal cappio che lui stesso s’era fatto e che lo aveva impiccato.

Giuseppe – e questo Ettore, Ovidio, Arsenio, Osvaldo, Guglielmo, non lo hanno mai saputo – frequentava ogni venerdì anche un baretto giù in paese dove stava a giocare a carte con Nando, Ottavio, Angelo e Demostene. Era una faccenda che andava avanti da anni, ma che aveva anche trovato una conclusione, il giorno che Martina ci aveva lasciato la pelle. Avevano cominciato intorno agli anni Ottanta, Giuseppe avrà avuto sui trentacinque anni, e Nando, Ottavio, Angelo e Demostene erano appena più vecchi, attorno alla quarantina. Al bar c’era anche un tavolo per giocare a stecca, ma in trent’anni loro cinque ci avranno giocato assieme un numero di volte che si può contare sulle dita di una mano. No. Beppe, Nando, Ottavio, Angelo e Demostene al bar ci andavano solo per giocarci a carte.

Avevano attaccato giocando a scopa bugiarda, due anni di scopa bugiarda ogni martedì, allo stesso tavolo davanti alla finestra, nell’angolo in fondo sulla sinistra, accanto alla gerbera, poi erano passati a un altro tavolo, sul lato opposto, dal muro, con un quadro di Garibaldi, e allora forse proprio perché avevano cambiato tavolino avevano anche deciso di smettere con scopa bugiarda ed erano passati a zecchinetta, ma era durata poco e anche senza cambiare tavolo avevano preso la passione per pinnacola e scala quaranta, anche per non far la figura di quelli che giocano solo a giochi d’azzardo, e poi erano passati al bridge, per darsi un tono diverso – in quel periodo dal bar ordinavano soda, spumantini, una volta Demostene aveva acquistato da Rosamaria anche uno champagne – ma poi hanno cominciato, dopo tre annetti, a spostarsi sul poker, e quello non lo hanno mollato più. Non erano stati trent’anni circa di solo poker, ma se glielo chiedete Angelo dice che invece è proprio così, anche se Ottavio nega affermando che si giocava anche a bestia o a asino, e Nando dice che si giocava molto anche a marianna, anche se, quando lo dice, Demostene non deve essere in giro, perché sua moglie si chiama con lo stesso nome e lui se la prende, e poi negli anni avevano giocato anche a cicera bigia, cucù, dobellone, mariglia, merda. Più sovente, però, in mezzo al tavolo si buttavano millette e di milletta in milletta trent’anni più tardi, circa due settimane prima che la moglie di Beppe ci lasciasse la pelle scivolando dalle scale, si era arrivati al fatto che Nando, Ottavio, Angelo, Demostene e Beppe, fino a quando non aveva pescato la testa della moglie al lago dei fantasmi facendosi da questa mordere e infine convincere a stringersi un cappio intorno al collo e farla finita, nessuno di loro vuole nemmeno farci un cenno, e al bar nessuno vuole parlarne, compresa Rosamaria, che del bar è proprietaria da poco più di trent’anni e ha passato la vita, come lei la mette giù, a portare a Nando, Ottavio, Angelo, Beppe e a Demostene vini e birre e bitter e a dire di smetterla di giocare a poker nel suo locale se non volevano, prima o poi, finire agli arresti.

Rosamaria si riferisce a Nando, Ottavio, Angelo, Beppe e Demostene raccontando sempre un aneddoto per dare un’idea di chi fossero quei cinque e dice che quando lei portava il bere ai cinque mentre si facevano il loro pokerino settimanale sul tavolo da gioco, delle volte capitava ci trovasse tra le carte da millelire e quelle da cinque e da dieci, e gli spicci, fino a quando non si era passati agli euro naturalmente, anche salami, mortadelle, una volta un orologio, un’altra un disco trentatré giri, una cosa preziosissima, come Angelo le aveva spiegato quella volta, anche se adesso Rosamaria non ricorda più di chi era il disco, e insomma su quel tavolo non ci si buttavano solo soldi, in effetti poteva finirci proprio di tutto, tra le nebbie azzurrognole delle cicche nei posaceneri, tanto fitte che sembrava fossero piante e muri a sbuffare nicotina, sì, poteva vedersi di tutto – una volta un portachiavi, un’altra un cacciavite, un’altra una pipa – e dunque a lei non fa sorpresa che su quel tavolo fosse finita, stando a quel che si vocifera, ma lei non ha mai visto niente, e guai a parlargliene, la mappa di un tesoro.

Intorno a questa faccenda della mappa e del tesoro si può dire si sia sollevato più che altro soltanto un vociferare degli astanti e che si tratti come di quelle cose che si sanno senza sapere come si fa a saperle e però non si è i soli a saperle e nemmeno a non sapere come si fa a saperle, e insomma era saltata fuori tutta una mormorazione circa una mappa in possesso della moglie di Beppe riguardo un tesoro sepolto al lago dei fantasmi e il fatto che un giorno Beppe si fosse presentato al tavolo da gioco e durante una mano di poker avesse buttato sul tavolo la mappa giocandosi tutta quanta la possibilità di trovare il tesoro. Era successo circa un mese prima che Martina ci lasciasse la pelle e se glielo chiedete Angelo vi dirà che questa faccenda è solo una maldicenza e che tanto per cominciare la mappa se l’era disegnata Giuseppe per prendere Nando, Angelo stesso, Demostene e Ottavio in giro. Se vi scolate due bottiglie di quello buono, spendendo un bel mucchio di soldi, Rosamaria forse vi dirà che Martina aveva comprato la casa, trent’anni prima, vicino a quello che chiamano il lago dei fantasmi, quella guazza acquitrinosa, proprio perché lei aveva ricevuto in eredità la mappa del tesoro da un suo zio vecchissimo che aveva sepolto rubini, smeraldi, topazi dentro un baule in fondo al lago prima di tirare le cuoia dato che non voleva che i familiari si spendessero il suo patrimonio che lui aveva passato una vita a mettere insieme senza nemmanco vedersi il mare o farsi un qualche viaggio.

Se era vera la storia della mappa e la storia dello zio tirchione, allora si sarebbe però dovuto anche spiegare come avesse fatto, questo zio, a buttar dentro al baule rubini, smeraldi, topazi, e lì nessuno sapeva bene cosa dire. Si diceva che durante la guerra si scambiassero gioielli per burro, pane, zucchero, olio, patate, per non morir di fame, e che lo zio di Martina ci avesse fatto una fortuna in quel modo, ma se si controlla non si trova nessuna traccia di questa storia, non ci sono prove reali che lo zio fosse così ricco durante la guerra e nessun testimone conferma che barattasse pane, burro, olio, zucchero in cambio di smeraldi, rubini, topazi.

Eppure c’è chi, mormorando al bar di Rosamaria, perlopiù astanti e non frequentatori consolidati, afferma che Martina questa mappa la tenesse in una cassaforte dentro il muro dietro un quadro e che Giuseppe non l’avesse mai nemmeno vista, la mappa, e non l’avesse mai nemmeno aperta la cassaforte, non sapendo la combinazione né niente. Una volta però, qualcuno del bar dice, sbottonandosi dopo molti pungolamenti, Beppe aveva chiamato un paio di muratori amici suoi, e con la scusa di far abbattere il muro per ampliare la sala da pranzo, aveva cercato di portarsi via la cassaforte per farla aprire da un mastro ferraio amico suo, ma Martina se n’era intagliata per tempo e a Beppe il colpo non era riuscito. Non solo al tesoro ci si arrivava con la mappa, svela qualcun altro, ma anche Martina sapeva dove fosse il tesoro, conoscendo lei a memoria la mappa. Si dice che qualcheduno l’abbia vista andare periodicamente al lago, specie di sabato quando ci andava con la scusa di portarci i figli e il marito, e fare il bagno sempre negli stessi punti di quella guazza melmosa, che quasi nessuno faceva il bagno in quella pozzanghera di lago, e ogni volta ci si immergesse e poi dopo due tre cinque minuti si tirasse su dall’acqua raggiustandosi il costume e nascondendo, come qualcheduno testimonia, pietre preziose che trovava da qualche parte nel fondo sporco del lago. Qualcun altro dice che Martina ci avesse un qualche patto cogli spiriti al lago e che fossero quelli a procurarle smeraldi, rubini, topazi. In ogni caso Martina con quelle pietre faceva andare a scuola i figli, pagava le rette all’università, comprava motorini, macchine e in generale dava un tenore di vita alla sua famiglia, Beppe compreso, superiore a quello che lui avrebbe potuto dare col suo stipendio di impiegato alla ditta di amidi modificati e questo spiegherebbe anche perché una volta lasciataci Martina la pelle Beppe si sia disperato tanto da impazzire: perché aveva provveduto a lui quasi in tutti i modi, compreso passandogli soldi, facendogli fare vacanze, comprandogli automobili nuove, e tutto grazie, come si racconta al bar, al tesoro sepolto nel lago dei fantasmi.

Comunque le voci portano a concludere, ordinandole nel modo più consequenziale possibile, che Beppe, Nando, Ottavio, Angelo e Demostene, Martina l’abbiano fatta fuori. Volevano impadronirsi del tesoro, il quale non stava nel lago, questo era solo parte della leggenda o della chiacchiera da bar, ma stava tutto quanto nella cassaforte – e la mappa non c’era mai stata o se c’era era nella cassaforte assieme al tesoro. Il perché si mormori della mappa in relazione a questa vicenda sta forse nel fatto che Martina stessa aveva nascosto il tesoro nel lago dei fantasmi o anzi, per dirla ancora meglio, stando a quest’altra versione dei fatti, era stata lei a rovesciare smeraldi, rubini, topazi nel lago consegnandoli per così dire in pasto a pesci e fantasmi.

Certo non c’è solo la questione del volersi impadronire del tesoro che aveva spinto Beppe, con la complicità di Demostene, Angelo, Ottavio e Nando, a spingerla giù dalle scale decapitandola, ma anche il fatto che la Martina, negli ultimi dieci anni, fosse diventata, secondo quanto sostiene chi frequentava Beppe quotidianamente, una scrotoclasta. Secondo alcuni degli astanti al bar, che in paese è il solo bar se se ne esclude un altro che però fa più che altro da gelateria, era successo in seguito alla tiroidectomia che la moglie di Beppe aveva subito dopo che le era stato diagnosticato un gozzo multinodulare e anche se l’operazione era stata eseguita con successo aveva avuto ricadute sull’umore generale di Martina, la quale si era trasformata appunto, come Giuseppe amava definirla con le sue più strette conoscenze, in una scrotoclasta, e specialmente con Giuseppe stesso. Perciò a detta di alcuni Giuseppe avrebbe cercato di liberarsi della piattola che sua moglie era diventata utilizzando la scusa della mappa allo scopo di ottenere complicità presso i suoi compagni di bevute e scopa bugiarda al bar di Rosamaria.

Sì, la faccenda era andata così. Da anni Giuseppe voleva da Martina il tesoro nella cassaforte e una volta lui dopo anni e anni era riuscito a intendere la combinazione, qualcuno dice spiandola da dietro le spalle mentre lei non se ne accorgeva, altri dicono facendola parlare nel sonno, altri facendo mettere una telecamera a circuito chiuso dalle parti del quadro con dietro la cassaforte oppure minacciandola con un coltello di aprire quella cazza cassaforte e fargli vedere la mappa dopo cinquant’anni che stavano assieme. Forse, alcuni obiettano, il tesoro è sempre rimasto al lago, ché Martina doveva aver pensato fosse il luogo più sicuro dove nasconderlo, e dentro la cassaforte c’era solo la mappa e Giuseppe aveva spinto dalle scale Martina per impadronirsi e della mappa e del tesoro. Ma per altri il baule con gli smeraldi, i rubini e i topazi era sempre rimasto in cassaforte e una volta che Giuseppe lo aveva scoperto, Martina aveva trovato il modo di rovesciare il baule nel lago giusto solo per fargli un torto – ché tanto ormai i figli erano a posto, non avevano più bisogno dei suoi smeraldi, rubini e topazi per farsi una vita – e lui non ci aveva più visto e l’aveva spinta giù dalle scale e poi ormai bell’e andato com’era aveva preso con l’andare al lago per ripescarlo sperando di trovarlo dentro i pesci. Certo era che se Giuseppe aveva ottenuto la complicità dei suoi amici, che avevano testimoniato tutti e quattro che lui fosse rimasto con loro al bar quando Martina era scivolata dalle scale e probabilmente dopo aver picchiato il collo su un ornamento appuntito a forma di pigna, di colore oro, posto sull’angolo del corrimano, la testa le era saltata dal collo, ebbene se aveva ottenuto tutta quella complicità dai suoi amici qualche grosso debito Giuseppe doveva pur averlo contratto, ma anche qui, facendo indagini, non si trova traccia di debiti nei conti di Giuseppe, né ci sono testimonianze di giocate troppo alte al tavolo da poker, né aveva fondamento che Giuseppe si fosse presentato un giorno al tavolo da gioco con una mappa reale, al massimo tutte le voci circa la mappa erano nate in seguito, come Angelo è pronto a testimoniare assieme a Nando, Ottavio e Demostene da uno scherzo che Beppe aveva voluto fare disegnandone una – e nemmeno in modo troppo realistico.

Senza dire poi, che sì la cassaforte esiste, sta ancora là, nel muro a est della sala da pranzo, dietro a una natura morta di pessima fattura, ma che dentro ci sia stato un tesoro o la mappa di un tesoro, questo nessuno lo ha provato. Del resto tutta quanta la vicenda ha solo della maldicenza, dato che la storia di un uomo distrutto dal dolore per la perdita della moglie avvenuta in modo orribile e rocambolesco era stata trasformata in una storia di soldi e vendette di fantasmi. Giuseppe al lago ci andava e magari coi pesci ci parlava e forse le vesti, per un qualche caso strano, magari uno scherzaccio, al lago le ha trovate, ma Ovidio, Ettore, Arsenio, Guglielmo, Osvaldo, Nando, Ottavio, Angelo e Demostene non sanno nulla della testa di Martina che Giuseppe avrebbe pescato, non l’hanno vista coi loro occhi, anche quella è solo una di quelle cose che si è preso a dire senza sapere come si fa a saperle e però senza essere i soli a saperle e nemmeno a non sapere come si fa a saperle, e quanto ai segni di morsicature, pescatori e giocatori non sanno proprio cosa dirci sopra, su questo argomento si chiudono in un silenzio impenetrabile, soprattutto ora che Nando, Ottavio, Angelo e Demostene hanno smesso il poker settimanale al bar e sempre più spesso si ritrovano al lago, qualcuno dice per onorare la memoria dell’amico scomparso – e forse fanno questo anche quando parlano ai lucci, alle trote, alle carpe, ai cavedani, ai persici che tirano su dalle nebbie del lago, mettendoli nei loro secchielli senza finirli prima con una pietra, portandoseli a casa ancora vivi, esattamente come faceva Beppe. Angelo dice che una volta pescando con Demostene avevano tirato su dal lago una mannaia.