Risalivo un viale del centro nella mia città in cerca dell'ubicazione giusta del box office che vedeva i biglietti dei concerti estivi, prima che Internet rivoluzionasse questa realtà, e pensavo a come alcuni amici si divertissero alle mie spalle prendendomi in giro circa una strana abitudine di cui stavo perdendo il controllo. Marco non ha ancora deciso se venire al concerto, dobbiamo comprargli il biglietto o si arrangia per i fatti suoi? Può decidere anche all'ultimo momento, che ci frega, male che vada ci sono i biglietti di Samuel. Ogni volta che c'è uno spettacolo, ne compra sempre un paio in più anche quando deve andarci da solo!

Questa volta mi ero ripromesso di comprarlo solo per me ed ero deciso a seguire questo proposito fino in fondo. L'ultima volta ero stato liquidato con una telefonata rapida che per lei doveva essere risultata indolore. Non lo era stato. In primo luogo perché la lei era una bellissima studentessa a cui stavo battendo i pezzi da un sacco di tempo. In secondo luogo perché fui liquidato il giorno prima del concerto e in fretta e furia avevo dovuto trovare un rimpiazzo per non buttare via il biglietto in esubero.

Arrivai al box office proprio mentre aprivano. Il caldo torrido mi aveva fatto sudare e quando la signorina, sorridendo, mi chiese che cosa desiderassi, dissi due biglietti. Dissi proprio così, due biglietti. Per quale spettacolo? Così mi ritrovai di fuori con quei due maledetti tagliandi che stavo fissando incredulo e non riuscivo a farmene una ragione, perché era una situazione grottesca e forse i miei amici avevano ragione, ma mi ero talmente abituato a comprarne due, ogni volta, che anche quando avevo deciso di smettere con quello stupidio vizio, facevo fatica a controllarmi. Avrei dovuto fare in modo che nessuno venisse a saperlo o sarebbe finita in farsa.

Oltretutto avrei dovuto chiamare Martina per dirglielo. Martina era la studentessa per cui avevo una fissa in quel periodo, quella che aveva preso il posto della precedente che mi aveva liquidato in fretta e furia. Martina odiava i concerti e mi aveva detto di non invitarla, si sarebbe trovata in imbarazzo a dirmi di no. Mi sedetti sulle scalinate di una chiesa che si trovava nel viale e composi il suo numero con il mio cellulare. Lo feci senza pensare, altrimenti avrei cambiato idea mille volte. Rispose con voce squillante e mi sembrò di buon umore. Non feci in tempo a dire niente. Mi invitò a una cena a casa di amici, quella sera, e mi disse che avrebbe chiamato più tardi per spiegarmi il tragitto, perché il posto risultava essere piuttosto fuori mano.

Mi preparai in anticipo e riuscii a comprare una bottiglia di vino. Poi verso le otto della sera mi diressi verso la costa orientale, che conoscevo come le mie tasche, da qualche estate, infatti, la percorrevo in lungo e in largo inseguendo le amicizie invernali che si spostavano per le vacanze estive. Avevo pooggiato sul sedile di fianco il foglietto con le spiegazioni, all’epoca non era diffuso l’utilizzo del navigatore, l’entrata del village, in cui era situata la casa, era sbarrata da un cancello nero nascosto dalla vegetazione. Ebbi non pochi problemi, ma riuscii a parcheggiare sul bordo della strada, nei pressi di una curva, cercando di disturbare il meno possibile le auto che passavano, fari accesi, ad una certa velocità, prima di suonare al citofono e vedere il cancello aprirsi.

Entrai, mi fermai vicino al muro e aspettai che qualcuno arrivasse. Mentre mi accingevo a chiamare con il cellulare, dal nulla delle ombre dell'imbrunire, Martina apparve con indosso una canottiera arancione e un pareo che le avvolgeva le magre, esili gambe. Aveva le braccia arabescate di tatuaggi e un sorriso aperto, spontaneo. Mi indicò la direzione da seguire per i parcheggi del villaggio che si trovavano a pochi metri dalla casa.

Li percorremmo, con lei che parlava, tenendo in mano la bottiglia che avevo portato, e rideva rumorosamente, risa che abbattevano sul mio viso trafelato. Entrammo in casa. In apparenza sembrava che non ci fosse nessuno. Martina mi disse che i suoi amici erano di sopra che si preparavano. Era una cena a quattro. Subito cercai di riflettere senza farmi prendere dal nervosismo. Certamente non significava nulla, mi stavo ripetendo.

Era solo una cena e non aveva importanza il fatto che fossimo soli, in quattro. Disse che i padroni di casa, certo, non si sarebbero offesi se avessimo aperto la bottiglia per assaggiarne un bicchiere. Nonostante la sua apparentemente gracile conformazione fisica, aprì la bottiglia con forza e decisione. Versò due bicchieri e ci sedemmo a bere, mentre lei raccontava alcuni fatti che avevano caratterizzato la giornata della coppia e che erano stati causa di litigio.

Non riuscivo a seguire esattamente tutte le fasi del racconto. Spesso mi soffermavo a fissare i suoi occhi, i capelli, il collo e i tatuaggi sulle braccia. Mi chiese delle sigarette, ma dovevamo spostarci di fuori in veranda a fumare, dentro non si poteva. La coppia scese e mi salutò calorosamente, prima di iniziare i preparativi per la cena. Mi dissero che non dovevo fare niente, solo stare seduto comodo sul divano. Mi concessero addirittura di fumare una sigaretta in salotto.

Era un’eccezione, solo per me. Furono molto gentili. Il ragazzo era un tipo noioso, la ragazza la trovavo infantile. A dire il vero, la conversazione, per tutta la durata della cena, non fu granché. Parlammo quasi esclusivamente degli studi di medicina di lui e di quelli di psicologia di lei. Martina stava nell’ombra, come appena arrivata nel cortile del villaggio, vicino al cancello, a differenza di allora però non si decideva ad uscire allo scoperto. Non lo fece per tutta la serata.

Erano suoi amici e io, per questo, li rispettavo, ma sembrava che limitassero ciò che mi aveva sempre colpito in lei. Nonostante la giovane età Martina stava già per concludere l’università e la sua intelligenza non la ostacolava neanche quando aveva necessità di chiedere delle cose che capiva a malapena. Tipo qualche ragionamento riguardante la politica di quel periodo. Stiamo parlano all’incirca del 1997.

Non passava inosservata la sua voglia di apprendere, imparare, conoscere, quindi confrontarsi con le persone più adulte e preparate. Anche riguardo ai discorsi più scomodi come sesso, infedeltà, matrimonio. Aveva una maniera di ascoltare e domandare molto particolare. Senza arroganza chiedeva perché l’Italia dovesse abbandonare la Lira e addottare l’Euro. Senza alterigia chiedeva perchè dovevamo essere monogami se era palesemente un qualcosa contro natura. Domandava ai suoi amici come fosse possibile vivere dentro un matrimonio per tanti anni e riuscire in ogni caso a emenciparsi come donne. Era pura. Ma anche spiazzante.

La sua amica era sembrata aggressiva per l’intera serata, arroccata, sulla difensiva, lottava per le sue idee conservatrici con unghie e denti, come se avesse di fronte dei nemici pronti a scannarla viva pur di averla vinta. Oggi le avremmo detto frasi tipo “anche meno” oppure “stai calmina”. Per fortuna all’epoca di queste frasi non ne conoscevamo l’esistenza. Comunque aveva delle corde vocali ben allenate, da quanto si poteva intuire, la voce era stridula e ti lacerava, ti portava a concludere la conversazione prima del tempo tanto era il desiderio che si zittisse al più presto. Martina era sembrata più remissiva del solito. Aveva deciso di lasciare spazio alla padrona di casa e ai suoi racconti privi di interesse. Scelta, ahimè, dolorosa.

Dopo cena ci spostammo in veranda. Parlammo a lungo delle spiagge in zona, battute soprattutto da turisti stranieri. Parlammo del mare che solitamente verso sera tendeva ad imbizzarrirsi creando frastuoni che non permettevano agli abitanti delle case di dormire tranquillamente. Poi in un attimo di pausa dissi a Martina che dovevo farle vedere una cosa, così riuscimmo a staccarci e ci dirigemmo verso la pineta. Fruscii di alberi e versi di uccelli a riposo erano la colonna sonora. Ero in imbarazzo, perché dovevo affrontare per l’ennesima volta la questione dei biglietti del concerto.

Ero conscio del fatto che lei già sapeva ciò che stavo per proporle e di quella che sarebbe stata la sua reazione. Decisi di farlo più in fretta che potevo, senza pensarci troppo, come se divessi togliere un dente, come per la telefonata della mattina. Magari sarebbe andata bene. Chi poteva dirlo? Chiaramente non fu così.

Quando le feci vedere i biglietti, il suo viso si corrucciò, avvizzendosi, e la sua smorfia fu esclusivamente di disapprovazione.

«Sam, ti avevo già detto cosa penso a proposito di questa tua mania. Mi metti in difficoltà».
«Hai detto che non vedevi l'ora di andarci. Non ho resistito. Facciamo così, se accetti, questa volta sarà l'ultima. Sarà l'ultimo concerto, l'ultimo di cui pagherò entrambi i biglietti». «Sam…».
«Ti prego. L'ultimo…”.

Ci abbracciammo e per ringraziarmi mi diede un bacio sulla guancia. Mi sfiorò appena, ma fu molto sensuale. Poi rientrammo in casa. I suoi amici, seduti su un muretto, si scambiavano effusioni. Sembravano i protagonisti di una stupida pubblicità di qualche marchio di birra o, che so, di gelato. Negli anni Novanta andavano per la maggiore.

«Sam mi ha invitato al concerto di domani» disse Martina.

La coppia rise e noi ci sistemammo su delle sdraio, vicini l’uno all'altro. Ci guardavano come se anche noi fossimo una coppia, avevano gli occhi aperti e lo sguardo trasognato e speranzoso. Ma io non ero l'uomo di Martina e mai lo sarei stato e anche se l’atmosfera rischiava di confondermi o di illudermi, sapevo che il rischio era controllato, perché avevo vissuto altre situazioni simili a quella e ormai ero avvezzo e mai mi sarei potuto sbagliare. L’uomo prese in mano i biglietti che erano sistemati in una custodia di cartone con delle eleganti effigi stampate, la scrutò attentamente poi si lasciò andare a un cenno di assenso con il capo. Evidentemente approvava il regalo.

Disse che era uno dei suoi cantautori preferiti e imbracciata la chitarra intonò alcune note, cosicché la serata assunse contorni demodè. Il mare stava per iniziare il suo solito sciabordio notturno. Le onde si infrangevano sulle scogliere producendo nenie querule evocative, l’aria si avvelenava di profumi d’erbe selvatiche, le strade non percorse diventavano languide. Quando una rara auto sfrecciava rumorosamente, la sinfonia diventava metallica. Il suono triste della chitarra diede alla serata una venatura di malinconia. Continuai a fissare i tatuaggi di Martina che sorrise. A lei bastava cantare per dimenticare tutto questo.

L’indomani, poche ore prima del concerto, su una panchina coperta da scritte fatte con un pennarello indelebile, mangiammo alcuni panini e bevemmo diverse birre. Martina indossava una tutina in jeans e delle pesanti scarpe da ginnastica. Aveva uno zainetto sulle spalle e nell’insieme sembrava molto più fine ed elegante di quanto apparisse quando frequentava le lezioni dell’università.

Nei gesti e nei movimenti, fluttuanti e precisi, le attribuivo una classe che risentiva dei sentimenti che nutrivo nei suoi confronti. Era una sensazione ben presente e avvolgente che stavo provando molto più intensa rispetto alla sera precedente. Mi disse che ascoltava quel cantautore romano solo da pochi anni, mentre io con le sue canzoni ero cresciuto, così raccontai alcuni aneddoti e lei sembrò colpita. La sera era fresca e a dire il vero io ero talmente preso dalla sua compagnia che il concerto stava risultando come un avvenimento di secondaria importanza.

Quando arrivammo all’ingresso mi accorsi che c’era una vera folla che cercava di entrare nell’antico anfiteatro, location prescelta dagli organizzatori. In quegli anni, durante la stagione estiva, gli spettacoli si tenevano sempre nei posti più ricercati della città. Mentre facevamo la fila, cominciai a immaginare le luci che avrebbero illuminato il palco, il pubblico che applaudiva e la cornice intorno calorosa e pulsante. Le gradinate non erano ancora state ricoperte dalle tavole di legno che dopo qualche tempo avrebbero rovinato l’antica costruzione. Non c’erano nemmeno le strutture di tubi d’acciaio che l’avrebbero deturpata creando scandali e proteste contro tengenti e politiche incomprensibili sul territorio.

I posti erano ancora interamente ricavati dal banco roccioso e gli interventi dell’organizzazione erano limitati al necessario e riguardavano esclusivamente l’allestimento del palco. L’imbruttimento che sarebbe seguito di lì a pochi anni era veramente arduo da immaginare e difficile da digerire. Non lo sapevamo quella sera, ma dovevamo goderci la serata al meglio delle nostre possibilità, prima che i cambiamenti portassero la città a un livello che nessuno avrebbe mai potuto apprezzare.

Ci sedemmo in una zona da cui era possibile vedere chiaramente lo spettacolo, anche se lontani. Si poteva fumare prima che iniziassero a suonare. Senza accorgermene, mi trovai di fronte i miei vicini di casa. Una famigliola al completo che si godeva l’aria di festa estiva, di fritto e dolci provenienti dalle roulotte di fuori, spinte verso la nostra direzione dalla brezza serale.

Dovetti fare delle presentazioni, e così come successo la sera prima, con la coppia di amici di Martina, anche la famigliola, che sembrava approvare i miei gusti in fatto di donne, visti gli sguardi ammiccanti e le gomitate di complicità, iniziò a fissarci come se fossimo una coppia felice. Avrei voluto urlare al mondo che Martina non era la mia donna e mai lo sarebbe stato. Ma loro continuavano a scherzare, come a dire che la sapevo lunga e, in fondo, pensai, non era mica difficile far credere alla gente di avere una vita interessante.

La gente aveva bisogno di credere nella felicità altrui, accade ancora oggi con le foto che vengono postate sui social. Non importa se nella realtà quella non è la tua donna e non hai nessuna possibilità e al limite sei pure infelice. Perché se sei infelice non interessi a nessuno e, in fondo, bisogna sempre aggrapparsi a qualcosa, anche se essere l’illusione di una famigliola ad un concerto di fine estate non è certo la più alta delle aspirazioni.

Le luci si abbassarono e Martina ed io prendemmo posto. Per essere sincero fu un concerto triste. Il cantautore romano aveva in repertorio parecchie canzoni per tirare avanti, non so quante ore, un buon concerto di rock’n’roll, e invece ci sorprese con una serie di pezzi deprimenti e opachi, cantati in maniera automatica e rinunciataria, tanto da lasciare annichiliti.

Martina però sembrava contenta, anche se puntualmente mi guardava per chiedere il titolo di alcuni brani che non aveva mai sentito. Ogni tanto dovevo sforzarmi, perché alcuni pezzi erano talmente vecchi che non riuscivo più a ricordarli. Non avevamo smartphone da consultate per leggere titoli e storie. I pezzi più famosi erano quelli maggiormente inflazionati. E con una serie di alti e bassi trascorsero le classiche due ore senza particolari slanci. Alla fine del concerto successe qualcosa di strano.

E valse il prezzo dei due biglietti che non avrei più potuto comprare. Il cantautore romano stava in piedi al centro del palco, gli altri musicisti erano appena usciti, un fascio di luce blu gli cadde dall’alto trasformandolo in una specie di alieno.

Durante lo spettacolo non era sembrato altro che una minuscola creatura perché, a causa della posizione che ci avevano assegnato, non era stato possibile osservarlo da vicino. E avevamo continuato a sentire la voce amplificata dai microfoni senza poter vedere se effettivamente uscisse dalla sua bocca. Ci avevamo creduto e basta. Non era periodo di playback, per fortuna. Era uno spettacolo totalmente live.

La luce gli cadde addosso per l’ultima canzone, e il cantautore sembrò ingigantirsi, tanto che potevamo vederlo in tutti i suoi movimenti, in tutti i suoi gesti teatrali che conoscevo bene. In tutti i più piccoli e insignificanti particolari.

La chitarra emise le prime note, strimpellate perfettamente, e il pubblico della platea si alzò in piedi tributandogli un lunghissimo e calorosissimo applauso. Anche il pubblico delle gradinate era in piedi e applaudiva, l’intero pubblico immerso dentro l’antica costruzione romana, in una fresca e splendida serata estiva, illuminato, il pubblico, solo dalla luce delle stelle e, di riflesso, dai lampioni della strada, e lui, il cantautore romano, dal fascio di luce blu che gli arrivava dall’alto. Un lungo applauso che non aveva nessuna intenzione di cessare, tanto che anche il cantautore rimase sorpreso e si allontanò dal microfono, leggermente, continuando a pizzicare le corde, per poi tornarci alcuni secondi dopo e cantare la prima strofa della canzone.

Martina non capiva e io voltandomi leggermente e vedendo tutta quella gente in piedi che applaudiva, ebbi un sussulto al cuore, un interminabile brivido, un magone che sarebbe sfociato in pianto se non ci fosse stata lei di fianco che continuava a non capire e a fissarmi attonita senza poter dire niente. La gente placò il proprio entusiasmo e ascoltò tutta la canzone in silenzio, omaggiandolo, alla fine, di un applauso altrettanto intenso rispetto a quello iniziale, giusto prima che il cantautore romano, poggiando la chitarra e riappropriandosi del microfono potesse dire al pubblico:

«Quest’ultima era dedicata all’amico con cui l’ho composta. Un amico di tutti noi, ora scomparso. Grazie di tutto e…alla prossima».

In quel momento il pubblico aumentò l'intensità del proprio tributo e la commozione fu totale. Quando fummo di fuori spiegai a Martina il senso di ciò che era appena accaduto e cioè che quella canzone era stata scritta dai due cantautori alcuni anni prima. E che il cantautore romano l’aveva incisa nel suo ultimo LP e, per questo, cantata quella sera al concerto.

Ma la cosa più bella era stata che il pubblico, appena sentito il primo strimpellamento, e riconosciuto il pezzo, in maniera quasi immediata, si era alzato in piedi per tributare al cantautore da poco scomparso, un lungo applauso, per la grande ammirazione, l’affetto e semplicemente il bene che sempre avevano provato nei suoi confronti. Io stesso in quel momento avevo capito, forse per l'ennesima volta, quanto anche per me fosse stato un artista e una persona veramente importante, come qualcuno che conosci da anni, come un amico sempre pronto a correrti in aiuto. Una persona che ti illumina sulle cose della vita attraverso la sua indiscussa credibilità.

Qualcosa che nella vita è talmente difficile da trovare, almeno quanto è difficile trovare un amore credibile. Martina sembrava appagata per aver capito cosa era successo alla fine dello spettacolo, ma seccata per non aver partecipato con il giusto spirito all’episodio a causa di una semplice insufficiente conoscenza di dettagli.

Mentre la riaccompagnavo a casa, ascoltammo alcuni cd e senza neanche farlo apposta, arrivati sotto casa sua, proprio mentre si apprestava a scendere, ebbi un improvviso scossone interiore. Una voce calma e decisa cominciò a ripetere più volte, cantando in modo intonato e telentuoso, una frase che era quella che meglio di tutte poteva rappresentare quel periodo e quell’estate:

«Com’è che non riesci più a volare?»